Il fiume scorre lento frusciando sotto i ponti, la luna splende in cielo, dorme tutta la città. Solo va un uomo in frac

Notte di luna, notte tranquilla. Le strade sono vuote, la città dorme, finalmente.
I due poliziotti fumano in silenzio sul ponte, l’auto posteggiata poco lontano. Ancora qualche ora alla fine del turno. Dal buio emerge un uomo, lo sparato candido della camicia luccica nell’oscurità, i capelli gli accarezzano le spalle. Sotto al lampione ha lineamenti eleganti, mani dai movimenti armoniosi. Indossa un frac.
I due agenti si guardano, incerti se chiedergli i documenti.
– Mi fate accendere? – li anticipa lui – mi fermo sul ponte ad ascoltare il fiume, ad aspettare il mio amore. Attendo da tanti anni e questa notte verrà.
– È molto tardi, signore, per stare in giro. Qual è il suo nome? – Gli chiede il più deciso dei due.
-Ah, eccola! – risponde invece lui senza ascoltarli più.
Appare una donna accanto all’uomo in frac. E’ in lungo, l’abito nero le valorizza i capelli rossi e gli occhi chiari. In mano ha un violino.
Si baciano a lungo e poi si allontanano a passi silenziosi, scomparendo nel buio, prima che i due poliziotti aggiungano una parola, abbagliati dall’aura di bellezza e felicità della giovane coppia.
Dalla portiera aperta dell’auto di servizio giunge una voce metallica: codice sette, incidente stradale sul lungofiume, pattuglia dieci-quattro recarsi sul posto immediatamente.
Partono sgommando e si dimenticano dello strano incontro. L’incidente è grave, in quello che resta dell’abitacolo dell’auto giace l’anziana guidatrice, morta, ricoperta di frammenti minuscoli di vetro che brillano come stelle.
La sera dopo i due poliziotti sono ancora in servizio insieme. Si fermano a bere un caffè in un bar della periferia. Il più giovane trova un giornale aperto su un tavolino e gira qualche pagina, poi mostra al collega le scritte sotto una fotografia: morta in un incidente d’auto sul lungofiume Erica Sofia Gherardi vedova Lanza di Trabia. L’anziana signora era molto nota per essere stata, da giovanissima, il primo violino dell’orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Un’artista di talento con un grande avvenire. Alla tragica e prematura scomparsa del marito, il maestro Raimondo Lanza di Trabia, aveva fatto scalpore la decisione della musicista di abbandonare l’orchestra e di non suonare mai più il violino.
I due poliziotti si guardano confusi, non sanno che cosa dire. Dalla pagina due occhi chiari già visti li fissano con un sorriso complice.
(Ispirato a Vecchio frac, Domenico Modugno, 1959)

di Angela Borghi, Illustrazione di Marzia Nigro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Le ultime ore della notte schiarivano il cielo quando i due uomini arrivarono ai piedi della collina e nell’ombra delle grandi sculture. Imhotep, il più valente architetto e astronomo del paese e il gran sacerdote Vennofer, curatore del patrimonio reale si fermarono a guardare l’opera dedicata alla gloria di Ramses II, protettore dell’Egitto, eletto di Ra. Non era ancora terminata ma quel giorno verificavano la riuscita di una magia che avrebbe suscitato la meraviglia del Faraone. Secondo i calcoli dell’architetto all’alba la luce avrebbe illuminato le quattro statue scolpite all’interno del tempio, sulla parete del Santuario. Solo in due giorni all’anno era possibile: nella data di nascita del re e nel mese di Tybi, anniversario dell’incoronazione, giorno d’inizio delle inondazioni.
Entrarono e si sedettero su una pietra. Per l’emozione non sentivano il gelo della roccia e non sprecavano parole.
Quando i raggi del sole penetrarono dalla porta scavata nella montagna colpirono le statue di Amon-Ra e di Ramses, poi si allargarono su quella di Ra-Harakhti ma lasciarono sempre in ombra l’ultima, quella del dio della guerra Montu.
Le parole di Vennofer furono più fredde dell’aria del santuario:
– Come lo spiegherai al Faraone questo errore? Darà in pasto il tuo cuore ai coccodrilli.Hai poche lune per rimediare.Ti consiglio di farlo!
Non aggiunse altro. Lo lasciò lì, sulla roccia, sgomento.
Lo sconforto di Imhotep durò poco, poi nella mente si fece strada una soluzione. Era audace ma non aveva scelta: voleva conservare il posto e la vita. Radunò gli scultori e i tagliapietra più abili e veloci e promise loro un onorario principesco se avessero realizzato la sua idea.
Il giorno stabilito Ramses e il seguito vennero al tempio rupestre. Alla vista della magnifica costruzione bisbigli di eccitazione e meraviglia sorsero tra i dignitari, le donne, le guardie del re. Vennofer aveva il volto duro come la roccia. Il Faraone taceva.
Imhotep tremava.
All’alba i raggi di luce colorarono di rosa la terra del deserto, poi entrarono nella montagna, lambirono il dio del sole con la corona di piume, la testa di falco di Ra-Harakhtie abbracciarono il volto del divino Ramses. Lasciarono ancora in ombra la quarta statua, che non era più quella del dio della guerra ma di Ptah, dio dei trapassati, con la stretta barba e lo scettro.
L’architetto si fece coraggio e disse:
– Ptah, signore dell’oltretomba e amico delle tenebre non può essere toccato dalla luce – Ramses sorrise e mosse il bastone in segno di approvazione. Imhotep riprese a respirare.

di Angela Borghi, illustrazione di Marzia Nigro

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Yorgos aveva un segreto. Un amore, nascosto nella capanna degli attrezzi ai bordi del campo. La sua fanciulla di marmo. Senza braccia e divisa in due, tagliata poco sotto il busto candido. L’aveva riconosciuta appena pulita dalla terra che la ricopriva, la ricordava dai pochi anni di scuola: Afrodite, la dea dell’amore.
In una mattina di aprile piena di sole era salito dal sentiero in mezzo agli ulivi fino al suo piccolo podere sui terrazzamenti. Da lassù si vedeva il mare turchese di Milos entrare nelle insenature tra le rocce bianche e il giallo dei prati fioriti. Quest’anno aveva deciso di lavorare anche una parte di campo che non aveva mai zappato, perché più scoscesa e vicino alla montagna. E lì, dopo qualche ora di fatica, aveva trovato in un anfratto la statua addormentata. Un nodo di emozione gli stringeva la gola mentre la liberava dalla polvere, con gesti lenti e amorevoli, accarezzando i lineamenti dolci, il seno perfetto, i capelli. Il cuore tornava a battere forte ogni volta che andava a trovarla, nell’angolo della capanna dove l’aveva subito nascosta, coperta da una tela di sacco.
Ora Yorgos aveva paura. In paese era corsa la voce del suo ritrovamento. Forse qualcuno l’aveva visto, là sul campo, l’aveva spiato e aveva raccontato. Le navi degli ottomani riempivano il golfo e pattuglie di soldati controllavano quasi tutto sull’isola. Così una mattina presto si trovò due ufficiali alle porte di casa, con i loro cappelli ornati di lunghi fiocchi e i larghi pantaloni.
– Yorgos Kentrotas! Portaci a vedere la statua antica che hai trovato. –
Capì in un momento che l’aveva perduta.
La sera, quando ormai i turchi avevano sequestrato la sua Afrodite, sedeva sulla soglia di casa e si sentiva ancora più solo di quanto era stato negli ultimi anni, dopo la morte della moglie. Aspettò il tramonto e poi i suoi occhi, puntati al cielo viola che si colorava di nero, trovarono la stella che si illuminava per prima.Quella sera la sua luce era solo per lui.

di Angela Borghi, illustrazione Marzia Nigro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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