La chiave entrò nella serratura, clack!
Cosa trovò il guardiano aprendo la cella, Marie non poteva vederlo, poiché lontana miglia: il suo Michè penzolava appeso a un lenzuolo. Così, dai suoi occhi, cadde, a goccia, la stessa stoffa.
“Cosa ti succede mia cara? Come mai piangi?” chiese la madre. Marie sapeva di amarlo, sapeva quanto poco spazio lui avesse per vivere, eppure rispose “non so”.
Il pianto smise quando una ragazza cerbiatto venne a dare la notizia: “Miché finirà in una fossa comune, senza cerimonia, senza benedizione, con solo una risposta a quel perché”. “Vorrei accarezzarlo un’ultima volta, vi prego” chiese Marie fresca d’un vuoto affamato e calda d’una lunga corsa improvvisa. Il guardiano negò. Aprì alla verità solo quando Marie mostrò una sacca da cui scaturì quel sole tascabile che piace ai ladri: “Portato via. Venduto a un vecchio tirafili che ogni inverno passa in città. Ora vattene donna”. E sbatté il portone sulla di lei disperazione.
A seguire tintinnarono le monete del sorvegliante sulle tavole, sempre di meno, come le foglie del calendario, sempre di meno.
Se l’anno è una ruota, fece un giro completo.
“Perché ci sono solo bambini in questo teatrino ambulante?” chiese Marie.
“Perché i bambini vogliono giocare con tutti, anche con la Morte, gli adulti invece no” rispose insinuante la signora del botteghino. E con l’arto intagliato nel mogano scostò la stoffa d’ingresso: “Prego, accomodatevi”.
Il teatrino delle ossa danzanti era tornato in città.
Scheletri manovrati dall’alto saltavano sul palco per la gioia incredula degli spettatori minorenni. La bigliettaia suonava un organo fatto dello stesso materiale dei ballerini. A fine spettacolo Marie, mossa da un macabro presentimento, corse dietro le quinte. “Dov’è il mio Miché?” e picchiò le mani da lavandaia sul petto del vigoroso marionettista. Lui le bloccò: “L’aspettavo. Ora tocca a lei scegliere, sa cosa troverà”. E la condusse davanti ad una porta.
Lei aprì il cuore vedendo quello scheletro accasciato a terra, con una corona d’oro in testa e un lenzuolo bianco come mantello.
“Che ne avete fatto della sua carne?”.
“I corvi ringraziano signora, è stato un duro inverno anche per loro”.
“Cos’è successo alla sua anima?”.
“Non so signora, io sono solo un semplice marionettista”.
Lo stallo della sposa fece capire all’artista il dovere da compiere.
Fece qualche passo, salì sul ponte di manovra, prese il ferretto centrale, i fili.
E Miché iniziò a muoversi. Marie si avvicinò quieta, gli occhi sbarrati.
Miché le fece una dolce carezza. E dalle orbite di Marie sgorgarono gocce d’osso.

Ispirato alla canzone “La ballata del Michè” di Fabrizio de Andrè e al fantasmagorico scheletro che Radis “The Gipsy Marionettist” Nikolic fa ballare durante i suoi spettacoli.

Tratto da “22 arcani circensi, freaks e simili” edizioni Il Cavedio

Racconto di Paolo Negri illustrazione di Eugenio Broggi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Ogni domenica pomeriggio mio padre mi gridava: “Allora, l’hai pulito o no quel carburatore?”. Io, muta, mi perdevo a guardare le macchie di benzina danzare nelle pozze d’acqua.
Quel dì risposi: “Torno subito” e me ne andai.
Un Disperato Erotico Stomp era appena passato davanti casa, teneva un quadro sotto il braccio e la giacca sporca di colori. Decisi di seguirlo.
Giunti al suo atelier, mi tenne la porta aperta e mi invitò ad entrare. Io curiosai nei suoi spazi.Mi chiese chi fossi, non risposi. Mi chiese cosa vedessi nelle sue opere, emisi un flebile “boh”. Mi chiese se volessi imparare a disegnare. Lo guardai e alzai le spalle.
La prospettiva, la profondità, le ombre, le proporzioni, le sfumature.
Nel mentre crebbi in altezza, in domande e in dolori.
“Per fine anno voglio che mi porti qualcosa di tuo, di personale, di autentico. Guarda dentro e fuori di te e miscela tutto quanto, perché vivere è riscrivere cose nuove”.
Passai le giornate a vagare per la città, in cerca di un soggetto. Una sera d’estate, attorniato da tanti bambini attenti, un saltimbanco mi catturò in una piazza. Raccontava fiabe. Gli adulti non gli davano retta, chiacchieravano tra di loro, scrivevano al telefono, si annoiavano. Io mi sedetti in mezzo a quei piccoli ascoltatori, stupefatto dalle loro domande: “Perché sposti un oggetto da una mano all’altra?”, “Anche tu hai avuto tre anni come noi?”, “A cosa servono i mostri?”.
Disegnerò questo giullare! Deciso! Appena torno a casa! Quest’ultima parola, casa, mi rimase in bocca, non voleva scendere giù. Qual era la mia casa? Lo chiesi al mio maestro, nonché affittuario della piccola mansarda in cui vivevo, e lui chiuse gli occhi: “E’ qualcosa in continua definizione sebbene, alcuni, la banalizzino come un semplice luogo fisico che certo non cammina”.
E allora camminai io, diretta alla mia prima casa.
Da quel “torno subito” erano passati vent’anni. Ed ora il garage era vuoto. Niente scaffali, niente banco lavoro, niente moto. C’erano solo delle macchie a terra e dei poster appesi al muro. Mi misi a fissarli, come allora, e risuonò la voce di mio padre: “Mica ho tempo per quei viaggi lì, io!”. Con lo stesso tono, alla domanda “Com’era il nonno?”, mio padre rispondeva sempre “Tuo nonno faceva il meccanico!”. Mai mi disse se avesse avuto dei sogni, se ci litigava, se gli raccontava storie quand’era piccolo, se fosse severo o permissivo, se amasse la nonna o l’avesse mai tradita.
Guardando quei luoghi sterminati, quei deserti, quelle steppe da raggiungere su due ruote, capii che quelle erano le fiabe di mio padre, era il mondo incantato che voleva raccontarsi e raccontarmi, senza saperlo e senza dirlo. Era il suo bisogno di espandersi, di non essere fatto solo di materia, sebbene se lo negasse di continuo. Quando lo capii, dissi grazie.

Dedicato a tutti i papà, che raccontano sempre delle fiabe ai propri figli, anche se non lo sanno.

Racconto di Paolo Negri, illustrazione di Daniela Landini

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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A chi lo elogiava pubblicamente nel grande salone col lampadario dai mille tentacoli, il capitano Gregori rispondeva con un lieve sorriso. In quelle maree di complimenti da anni si orientava con l’unica bussola che gli consentiva di non andare alla deriva: il silenzio.
Il solo movimento verso l’altro (l’issare un calice) lo dedicò a quei due sposini, di classe sociale così lontana e voglia di vivere così vicina, che sul pontile, abbracciati, guardavano la terra promessa. Insomma, la luce della celebrità e l’illuminazione degli applausi lo accecavano. Così cercò ombra nel ventre di un bar, dove sapeva e salpava la ciurma, compagna di quel viaggio che in altro mondo non poteva certo finire.
Ma ognuno ha le sue stanze, e vedere un capitano tra i beoni e i bestemmiatori è cosa ben rara. Eppure nessuno fece caso al suo ingresso perché tutti quanti erano raccolti attorno al mozzo. Seduto su una sedia sgangherata, il mozzo, sudato, raccontava: “In mezzo al mare una donna bianca, così enorme, alla luce delle stelle, che di guardarla uno non si stanca”.
E quando un impertinente “eri ubriaco marcio” chiese: “Hai almeno un testimone senza bottiglia che era con te sul cassero quella notte?”, gli occhi del mozzo, alzandosi, incontrarono quelli del capitano. Il silenzio, così fuori rotta in quel sotterraneo, spostò il faro dell’attenzione su quel lustre ospite che laggiù non aveva autorità.
Il capitano girò le spalle, andò al bancone, e sentì il dito indice del mozzo all’altezza dei reni. Ordinò da bere. Il barista versò un’insinuazione nelle sue orecchie: “Io non ho mai messo piede sull’infinito vivente ma ti assicuro che di tutti gli sguardi che ho visto da dietro questo sbarra, tu sei proprio uno di quelli che la Venere bianca l’ha vista per davvero!”. Il capitano non lo guardò nemmeno, trangugiò, lasciò una banconota tanto grande da far riempire i boccoli agli astanti e se ne andò mentre il brusio per quel racconto inverosimile cresceva d’intensità.
In camera aprì la finestra, si accese la pipa “in questa alba fresca e scura che rassomiglia un po’ alla vita. C’è solo un po’ di nebbia che annuncia il sole. Andiamo avanti tranquillamente”. Fu l’ultimo suo canto.
Lo trovarono la mattina seguente. Era diventato una statua ornata da candide conchiglie. Se lo annusavi riconoscevi il profumo del mare.
Lo deposero al Museo della Marina cittadino.
Leggenda vuole che se si sta innanzi a lui in perfetto silenzio si ode la risacca. Leggenda vuole che l’apparizione della Venere bianca, per alcuni sia una maledizione e per altri una benedizione; per taluni sia voglia di vivere, per altri voglia di morire.

di Paolo Negri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Il Principe di Persia uscì dalla mia testa. A cavallo di un puledro, diretto verso il sole. Poi chiusero il sipario al teatro delle ombre. Mi pagarono per il ruolo da cupola e me andai.
Incrociai per strada il Gran Guignol, mancava poco alla mezzanotte, dovevo affrettarmi!
Era il 31 dicembre 1899, ero a Parigi. Ero l’uomo proiettile! Sparato verso gli astri, tra i fuochi dalla Cina, sarei stato l’ariete che buca il grande chapiteau del secolo! Indossavo un vestito aderente rosso fiammante con al centro una stella gialla e sulle spalle un mantello magico.
La gente ammutolì davanti a quella cannonata e mentre volavo sentivo solo il riso beffardo dell’impresario che mi aveva ingaggiato: Mefistofele!
Scommetto sia stata una sua diavoleria a sospendermi in aria. Per cento anni, di solitudine, immobile. Solo il mio mantello svolazzava e i miei occhi piangevano.
Cento lunghi anni.
Poi allo scoccare del 2000 iniziai una folle caduta a una velocità mai raggiunta da uomo volante. Qualcuno espresse un desiderio. Il mio era di salvarmi e più perdevo quota e più diventavo piccolo. L’impatto, tremendo, fu prima con una finestra (che si ruppe) poi con un portaritratti che cadde dal comodino ma non si infranse. Chi mi trovò rimase allibito: dove prima c’era una gallina, ora c’era il busto di un uomo vigoroso con un elmetto a forma di proiettile e la gallina in braccio: spennata.
Ma la curiosità non bastò per trattenermi. Fui scambiato con un videogioco a un mercatino dell’usato. Ricominciai a girovagare.
Mi pescò, con un sorriso, una ragazza a cui piacquero i miei baffi. E mi regalò a un amico pittore che passava le giornate nel suo atelier. Lui mi appese di fronte all’unico quadro non astratto di tutta quella galleria.
Feci amicizia con l’unico personaggio di quell’immenso dipinto che vedevo tutti i giorni, tutto il giorno: un povero soldato dell’esercito napoleonico, disegnato sconfitto e stravolto. Ci raccontammo le nostre vicissitudini. Lui e la sua campagna sconfinata, io e la mia gallina. Lui non aveva mai visto un circo, io una guerra.
Iniziammo una vita di soli racconti. I nostri e quelli dei ragazzi che si mettevano a parlare, certe volte appartati, dei loro segreti, ignari che noi li potessimo ascoltare.
Di loro non mi sorpresero le nuove tecnologie, sebbene stucchevoli. Ma l’impellente bisogno di guardare il cielo stellato. E quei giovani, che facevano sempre un gran baccano, un giorno colorarono la volta dell’atelier di blu. Ci aggiunsero dei puntini bianchi e si sdraiarono a terra, in silenzio. Io chiusi gli occhi e sognai di perforarlo quel soffitto. Mentre il mio compagno sognava di sciogliersi in un Kandinskij.

di Paolo Negri, illustrazione di Nicolò Piva

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Bruno era un bruco. Dopo un’operazione coi bisturi diventò Lucrezia. Uscita dal bozzolo, si vestì da farfalla e andò a posarsi tutte le sere sulla panchina che guardava villa Selznick. Da una finestra del secondo piano della villa uscivano le nuvole.
Ma un giorno il maggiordomo chiuse le imposte, fermò l’orologio disegnato sulla facciata e spense il lucernario dell’ingresso. Il signor Selznick da mesi andava rinsecchendosi e quella sera diventò definitivamente un’edera rampicante posta sulla parete nord.
Che si era ora condannati al cielo terso?
Lucrezia volle domandarlo e suonò coraggiosa il campanello.
Le fu aperta la porta d’ingresso ma nessuno la accolse. Ispezionò la casa e il giardino circostante. Incontrò due anziani signori dalla forma di grossi bignè. Un cordiale dialogo svelò la causa della loro impazienza: l’oro. Lo cercavano così da averne abbastanza per forgiare un bambino da vendere al mondo. Col ricavato si garantivano una tomba, una volta defunti e sepolti, dello stesso luccicante materiale!
“E tu, bambina, cosa vai cercando?”. “Le nuvole miei gentili signori”.
Lucrezia si era giusto imbattuta nei sarti cucitori che le indicarono dove trovare gli scarti: “Da quella parte, vai, là si conservano tutte quelle non spedite in cielo”.
Nel vecchio capannone Lucrezia attraversò parecchie nuvole e all’uscita, oltre al piacere, trovò attaccati alla suola delle scarpe i disegni di quella massa di vapore acqueo condensato.
Al maggiordomo che bagnava l’edera chiese informazioni a riguardo e lui, con garbo, le diede le chiavi di una stanza al pianterreno dove la ragazza scoprì l’esistenza di una stampante a forma cubica da cui, se azionata, uscivano proprio i disegni che i due bignè poi cucivano.
Rimase delusa Lucrezia: si aspettava la fantasia ad animare meraviglie, non la corrente elettrica! Eppure volle conoscere gli interni di quel marchingegno.
Chiese il come a due astronomi studiosi dei raggi della bicicletta. Ma essi si mostrarono interessati solo al disegno che formavano, se uniti, i nei comparsi sul suo braccio destro: Cassiopea!
Tuttavia furono ben disposti nel recapitarle l’indirizzo di un matematico indiano che una volta esaminato il “cubo artista” disse: “Geniale! Costruito in modo tale che se smontato non può essere rimontato. Dunque: vuoi altri disegni di nuvole o scoprire come vengono creati?”.
Lucrezia nervosa iniziò a scarabocchiare su un foglio. Un orango tango, amico del matematico, le sorrise, le prese il foglio, lo appoggiò al vetro della finestra e con una mano mimò la caduta della neve.

di Paolo Negri, fotografia di Tiziana Titì Barbaro (Instagram: titi_fotoamando)

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Il nostro corridore non dorme, si veste prima dell’alba, e appena suona, va. Non gli importa cosa rimarrà immobile accanto a sé, che siano montagne o grattacieli, lui corre e con lui corre il suo pensiero, per quanto vada forte e per quanto scappi lontano, sa che la sua fuga lo condurrà sempre al suo punto di partenza: sé stesso.
Ieri, a metà della salita, gli è passato accanto il Corridore che arriva, così l’ha battezzato, non sapendo il suo nome. Gli sta simpatico, lo saluta, lo vede guardare di continuo l’orologio, lo vede girare le gambe a mulinello: si starà allenando per qualche striscione da raggiungere il prima possibile? Magari a braccia alzate?
Oggi il nostro corridore vuole incontrare Colui che arriva, scambiarci qualche parola, capire il suo segreto, cosa lo spinge, cosa lo soddisfa. Allora accorcia il percorso, giunge presto all’imbocco dell’ascesa, sale di buon passo e, ad accoglierlo in cima, seduto su una panchina c’è un atleta mai visto prima.
Buongiorno rilassato, “Che incanto la vista da quassù, ci passo tutte le mattine alla stessa ora e sempre mi stupisce!”. Quasi sì, all’incirca d’accordo, ecco fiacca la risposta del nostro sportivo. A lui solo interessa: dove sta quell’Altro? “Non l’ha visto mica passare?”
“Certo! Quello, vestito di nero, tempo per fermarsi non ne ha! S’è infilato il mantello e poi ciao a capofitto! Non gli importa cosa rimarrà immobile accanto a sé, che siano laghi o semafori, lui corre e con lui corre il suo cronometro, per quanto vada forte e per quanto stia nei pressi, sa che la sua corsa lo condurrà sempre al suo punto di partenza: la linea del traguardo!
Se vuoi raggiungerlo, devi allenarti a testa bassa! Ma ricordati che avrai sempre alle calcagna la tua ombra che mai riuscirai a staccare e innanzi l’ombra dell’altro che mai riuscirai a raggiungere!”.
E allora arrivederci e grazie! Tra queste boschive forcelle prealpine con le gambe che son dure come legno e le discese tortuose come lacrime. Con un altro passo e un nuovo incontro, forse tre giovani: uno da mordere il freno, uno da scatto fotografico e uno da regolazione del cambio.
Il nostro protagonista si rasserena poi ricomincia, tra un tratto in pavé che di colpo lo mette in difficoltà (“Com’è possibile sorprendersi dello stesso panorama tutte le mattine?”) e una speranza: raggiungere o essere raggiunto da qualche amico, di quelli un po’ gregari e un po’ tifosi, un po’ allenatori e un po’ meccanici. Sapendo che quei momenti condivisi, siano titaniche imprese o semplici giri del quartiere, entreranno nell’albo d’oro di un Tour speciale, iniziato il giorno della propria nascita e da concludere, come vuole la mitologia a pedali, tra lo sterrato dei Campi in fiore.

Ispirato a “La canzone del ciclista” – Tetes du Bois, 2004

di Paolo Negri, fotografia di Emanuele Abatini (Instagram @Skabart_ig)

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Robert D si voltò. Nessuno lo osservava. La stanza del museo era vuota e nell’incavo del muro una scalinata portava al piano inferiore. Ritornò a fissare quella fotografia appesa al muro: un uomo di spalle percorreva un viale in un parco.
Cosa lo attraeva di quello scatto? Quali particolari lo rendevano così famigliare? La camminata nella solitudine? La bellezza del parco? E se al posto degli alberi slanciati ci fossero state delle case colorate?
La testa china verso il basso era indizio, ricerca di qualche pensiero, impronta lasciata sulle foglie. E allontanava sempre più l’eventualità di uno slancio, una furbizia improvvisa, un movimento tale da smascherare chi lo osservava.
Sapeva il fotografo di chi era quel corpo celato da vestiti da viandante?
E sequestrato quel momento, cos’era successo in seguito?
Dite che ci sia un ritrovo verso cui siano dirette tutte le persone ritratte solitarie in cammino?
Oltrepassato il muro, dov’è appesa l’opera, c’è forse ad attenderli una partita a carte in compagnia?
Robert D uscì dalla mostra e si incamminò tenendo d’occhio le domande.
Giunse in un viale in terra battuta, immerso nel verso, con grandi alberi e fitti cespugli. Lo percorse con attenzione, tendendo le orecchie a ogni rumore e voltandosi in prossimità di una curva.
Ritenne il luogo perfetto. Sedette su una panchina e aspettò un individuo camminante.
Nessuno passò, tranne gli istanti che senza mai fermarsi continuavano a fare il giro del parco.
Gli attimi non lo potevano osservare, ma solo attraversare.
Allora estrasse la macchina fotografica, la poggiò su una balaustra e mise un autoscatto tanto lungo da poter percorrere con tutta calma il viale. (È una splendida illusione quella di raggiungere il tempo).
Vedendosi di spalle nel piccolo schermo della sua reflex, pensò che era esaminato da se medesimo dunque osservatore e osservato. Eppure c’era qualcosa di se stesso che gli era sfuggito via.
Robert D concluse: “Se catturo un soggetto solo, faccio in modo che non lo sia più? La compagnia che gli dono non è forse un’effimera preghiera da voyeur? Lui cammina e sparisce. Io stampo un suo doppio che passerà di sguardo in sguardo su una strada di pellicola. Se si fosse girato, nell’attimo dello scatto, tutto sarebbe cambiato. Ci saremmo incontrati. Quanto mi piacerebbe fotografare un viandante che, voltandosi, mostrasse il mio volto, il mio io.”

di Paolo Negri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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