Dico a mia moglie di prendere dallo scaffale in cantina una bottiglia, di incartarla con un foglio di alluminio, in modo che io non veda l’etichetta, e di portarmela a tavola. L’assaggio, e riconosco il Re dei vini, il Barolo. Mia moglie ha portato un’altra bottiglia, con lo stesso sistema. È un Barbaresco, il fratello minore del Barolo, che io a volte preferisco, perché è meno tannico. E poi lei ha esagerato, e ne ha portata un’altra, il Gattinara lo riconosco da lontano, è il vino che in assoluto preferisco. Sono cresciuto a Spanna e Gattinara, quando avevo quindici anni e s’incomincia a bere vino, dopo quel bicchiere di acqua e vino che mi era stato concesso a dieci.
E adesso fate la stessa cosa con i libri che stanno sugli scaffali della vostra libreria. Non guardate il titolo, prendete e aprite a caso. I romanzi buoni sono ben strutturati, come i vini. I grandi autori si riconoscono. Dal colore, dal profumo, dal gusto delle parole.
Continua il 12 ottobre
Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.
Se leggiamo i critici, com’è giusto che sia, e li confrontiamo nel tempo, ciò che hanno detto fra di loro trent’anni fa e ciò che dicono oggi, leggeremo un po’ di tutto.
La crisi del romanzo che ogni tanto salta fuori, ciclicamente (e non è il ciclo di cui parlava la professoressa di chimica), la ricerca di riferimenti che cadono davanti all’esclamazione del re nudo, i saputelli che condizionano le coscienze, il potere delle case editrici che si adeguano al pensiero dominante, i valori della tradizione messi a tacere davanti al dio denaro… tutto vero!
E ripartiamo da qui, per capire la plasticità del romanzo. Il nostro lavoro quotidiano alla ricerca di formule e di strutture si rispecchia in una visione generale su questo tipo di espressione. Il romanzo è in continuo divenire. Si alimenta di ogni altra forma letteraria e artistica, e non importa se questa vive in momenti di stagnazione, perché il romanzo è in grado di rinnovarla, di donarle ancora il soffio vitale.
Per questo, nella sua essenza, il romanzo appare sempre incompiuto. E sempre attuale.
E poi c’è la tecnologia che avanza e si impone, fa piazza pulita delle improvvisazioni. Il romanzo resiste, e non teme niente e nessuno.
Continua il 5 ottobre
Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.
Il telefono squillò nel mezzo di quello che poteva apparire come un tranquillo tè tra amiche e che invece era un dibattito tra le personalità più importanti del Paese.
Tutte tacquero, a strillare era nientemeno che la linea rossa, di solito in silenzio.
La Presidente si congedò preoccupata, si trasferì veloce nello studio ovale chiudendo la porta. Si sedette e, mordendosi le labbra tra i denti, chiese “Anna, sei tu?”, ignorando ogni cerimoniale.
Dall’altra parte la voce accusò: “Avete passato ogni limite!”. “Con il vostro attacco di ieri, prima i droni, poi il bombardamento, avete rivelato ogni inganno! Basta, è finita, questa volta le vostre azioni non rimarranno impunite!”.
Miss President digitò un codice su un pannello vicino che si aprì rivelando una teca con chiavi e pulsanti che fino a quel momento non erano mai stati premuti.
Tentò di giustificarsi con l’altra donna: “Siamo dovuti intervenire per evitare altri caduti…” ma lei la interruppe prima che potesse finire: “Elizabeth, mi dispiace, siamo arrivati al punto di non ritorno! So bene che non ci saranno né vincitori né vinti ma solo l’apocalisse… e la colpa di tutto questo è solo vostra!”.
Ci fu un lungo silenzio carico d’angoscia, il dito di Elizabeth si trovava sull’interruttore, il primo della sequenza che portava al pulsante rosso, quello da cui non si poteva tornare indietro. Tratteneva il respiro, era certa che Anna dall’altra parte della linea si trovava nella stessa esatta posizione, forse incerta sul da farsi. Forse c’era ancora una speranza.
“Colpa nostra, colpa vostra!” riprese Elizabeth “In verità neanche tu più ricordi chi abbia iniziato questo tragico gioco, questa guerra è costata fin troppo senza dimostrare niente a nessuno. E poi, lo sai, entrambe siamo donne, noi doniamo la vita, non la prendiamo”.
Ancora un lungo, lunghissimo silenzio, poi lo schiocco improvviso della chiamata che viene interrotta. Il dito della Presidente tremava sull’interruttore.
Attese ancora un momento ma non accadde nulla. Rigirò le chiavi, richiuse la teca, portò le dita alla tempia ad asciugarsi il sudore, stava ancora tremando.
La donna più potente della terra provò a riprendere il controllo, cercò di non pensare a quanto il mondo intero fosse stato vicino al tracollo, si alzò e tornò nella stanza vicina dove le altre la fissavano con ansia.
Miss Elizabeth si rivolse al Ministro della Difesa e le ordinò con piglio deciso: “A qualsiasi costo dobbiamo ottenere la pace! So che i droni stanno per alzarsi in volo, fermate subito il secondo attacco! Piuttosto… mettete dei fiori sopra quei droni!”
Daniele Gaeta. Affascinato dalla creatività in ogni forma e curioso fin da piccolo, si ritrova con la “testa tra le nuvole” nei momenti più inopportuni, ha riscoperto la passione di affidare le sue fantasie alla penna grazie alle favole inventate per i suoi figli.
Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)
Ognuno di noi ha un modo di essere, e ognuno ha i suoi problemi. A volte cerchiamo aiuto per risolverli. Abbiamo perso il giusto equilibrio, non sopportiamo la realtà, siamo deboli.
É quello che succede ai nostri personaggi. Li abbiamo pensati in un attimo d’intuizione artistica, li abbiamo creati. Danno soddisfazione, e problemi. Da loro dipende la riuscita del nostro lavoro. Diventeranno famosi o rimarranno imperfetti su una pagina che è solo uno scarabocchio di parole?
Qualcuno la fa comoda. Buoni da una parte e cattivi dall’altra. Psicologie semplici. Storie facili da raccontare, ma spesso superficiali, se non banali. La realtà del mondo e degli uomini è diversa. Le pagine già scritte intorno a noi, e che noi vorremmo interpretare con originalità e ingegno, mostrano personaggi dalla psicologia complessa.
Le brave persone che conosciamo sono davvero brave persone, ma ombre segrete abitano i loro cuori, e quelli che nella quotidianità, per quanto possibile, evitiamo di incontrare hanno qualità che dovremmo considerare. Così è l’umanità.
E per quanto riguarda il nostro impegno di sapere come stanno le cose, siamo in grado di creare psicologie credibili o ci accontentiamo di storielle con stili e strutture che giusto stanno in piedi e ci illudono di essere scrittori?
Continua il 28 settembre
Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.
È una storia speciale quella che mi appresto a raccontare, fatta di angoscia, speranza e stupore.
Lucia, cinque anni, è ricoverata all’ospedale Gaslini di Genova, noto per la competenza dei suoi operatori sanitari. Eppure, la capacità professionale è inutile se il fondo del baratro è vicino e un sorriso è più efficace di un farmaco costoso. Certo, un tumore non può essere sconfitto da una manciata di legumi, ma a Natale, credetemi, tutto può succedere.
La sera del 18 dicembre Babbo Natale entra nella stanza di Lucia; la sua presenza è davvero insolita, dato che al 25 mancano ancora molti giorni. Sarà uno dei numerosi volontari presenti nei reparti, pensano i genitori della bambina. Ma le stranezze non finiscono qui, perché l’uomo vestito di rosso e con la barba bianca, non porta a Lucia dei pacchi, bensì sette fagioli, ognuno appoggiato su una base di cotone idrofilo, all’interno di un vasetto.
«Cara Lucia, ho bisogno del tuo aiuto. Ti chiedo di annaffiare i fagioli tutte le mattine e mentre li bagni immagina sette abeti, addobbati con dei festoni stupendi e tante luci colorate. Se esaudirai la mia richiesta, la mattina di Natale avrai una meravigliosa sorpresa: durante la notte verrà un folletto a prenderli e li pianterà nel terreno a lato dell’edificio. E vedrai, ogni tuo desiderio si realizzerà.»
La bambina, estasiata dalla presenza di Babbo Natale, annuisce, mentre lo vede uscire dalla stanza. Un sorriso illumina il suo viso, è la prima volta dopo tanti mesi di sofferenza. La settimana passa veloce, le crisi sono sempre più frequenti. Per i medici la fine è vicina. Nel frattempo, grazie allo zelo di Lucia, sono nati dei bellissimi germogli.
È la mattina di Natale, la flebile voce della figlia attira l’attenzione dei genitori. I vasetti contenenti i fagioli sono spariti! Lucia chiede di alzare la tapparella. Grande è il suo stupore nel vedere sette abeti, illuminati e addobbati, proprio come li aveva immaginati. Babbo Natale ha mantenuto la sua promessa.
Sono passati ormai 40 anni; i genitori della bambina conservano nei loro cuori il ricordo del miracolo avvenuto in ospedale. E sorridono quando, nell’ultima settimana di avvento, vedono i nipoti preparare sette vasetti, contenenti altrettanti fagioli, che il 25 dicembre saranno piantati nel terreno da un folletto di nome Lucia.
Ovunque i bambini e gli adulti crederanno alle mie promesse, il seme della speranza genererà tanti alberi magici e prodigi inspiegabili. Parola di Babbo Natale.
Gianmarco Pellattiero vive a Malnate. Nel suo repertorio sono presenti numerosi racconti brevi, poesie, monologhi teatrali e alcuni romanzi, tra cui “E mi ritrovai a Malnate” del 2021 e “Cloe e l’enneagramma d’Oro” del 2022.
Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)
Un semplice giro di giostra. Senza neanche pensarci, bastava solo salire. Eppure non si mosse.
Come ha fatto a non capire? Non chiedevo altro che essere seguita. Ma io non chiedevo, non lo facevo mai. Restavo ad aspettare che i sorrisi arrivassero, mi accontentavo di quelli. Sorrisi composti e ben educati. Veri, ma così pallidi da sembrare smorfie sul mio viso.
L’amore è iniziato quando la nostra storia è finita. Amore per me stessa, per la mia vita e tutte le cose meravigliose che ne fanno parte, anche per quello che è stato. Lo penso tutti i giorni, so che non troverò nessuno come lui, e mi sta bene. Finalmente so cosa voglio.
Sembrerà strano scrivere un racconto d’amore senza una storia romantica. Ma il romanticismo è sopravvalutato. Non ho mai voluto promesse, smielate dichiarazioni, baci sotto il vischio e cenette a lume di candela. Non un costoso abito bianco, bomboniere, damigelle e al diavolo i fiori e i fotografi. Nulla di tutto questo. Io voglio le risate, voglio ballare, voglio lasciarmi cadere sapendo di essere presa. Pretendo qualcuno che salga con me su quella stupida giostra, e nulla di meno. Gli anni passavano, i ricordi sbiadivano, la vita procedeva come un fiume in piena, e tra le rapide mi scontrai con qualcuno di inaspettato. Un uomo disposto a fare tutto il necessario per guadare le acque al mio fianco, o così credetti di sentire. Forse lo scrosciare dell’acqua era troppo forte, forse lessi male le sue labbra, forse pensai di udire semplicemente quello che desideravo sentire. Quando scomparve non fui sorpresa.
Non provai nemmeno a seguirlo, sarebbe stato come nuotare controcorrente, sfiancante e assolutamente inutile. Lo sapevo bene ormai, ricordo ancora cosa si prova ad annegare piano, giorno dopo giorno, fino a toccare il fondo. Meglio non opporsi, meglio lasciarsi trascinare via dalla corrente.
E adesso lo capisco, il fato voleva che io oggi fossi qui, e guardassi intorno a me con lo stupore dei bambini. L’acqua riflette il verde brillante degli alberi e una farfalla vi si specchia, il cielo è terso e la canoa mi culla danzando sul fruscio delle foglie. Il vento sta cambiando, ma anche la pioggia sarebbe incantevole in questo momento. Ogni respiro sembra un miracolo, e mentre una lacrima scorre libera, risuonano nella mente le parole del mio anziano maestro. L’amore non usa parole, non ha etichette, non lo si può dare per ricevere. L’amore non è per qualcuno o qualcosa che definiamo nostro. L’amore non ha un fine e non ha fine.
Amore è quel sentimento che proviamo di fronte alla bellezza, puro e semplice. Non porta a nulla, se non alla vera felicità.
Miranda May, classe ‘93, vive in libri e biblioteche, luoghi sacri e venerabili. Impiegata di giorno, studentessa di notte e lettrice a tempo pieno, almeno nei suoi sogni. Talvolta si diletta a imbrattare pagine bianche.
Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)
A distanza di mesi, lì si sentiva ancora un deportato.
Il tempo trascorreva in attesa della domenica (non tutte) in cui i nipoti avrebbero varcato l’uscio col passo indolente – una gita a Mauthausen avrebbe destato maggior entusiasmo.
Nel frattempo, avendone a disposizione in quantità, la mente spaziava su perimetri di ricordi: le balere e le gambe svelte delle donne; la mietitura e le fiasche di vino a fine giornata; la polenta tirata a mano nel paiolo (il suo profumo per tutta la cucina); i semi spansi nella paziente attesa di germogli; le partenze e i ritorni (a volte no ed è tragedia); le mani callose e i volti cotti; la perdita d’un figlio nella pancia, quando nascere non era una certezza; il raccolto distrutto dalla grandine, col figlio appeso al seno vuoto della madre (ed era stato inevitabile vendere la mucca per arrangiare i pasti); l’incendio della stalla che aveva concorso con la grandine, battendola; le nascite e le morti, a chiudere cerchi.
Come imbucati a una festa, lo visitavano persino gli anni della guerra, che aveva strappato a una generazione l’infanzia, la spensieratezza e, più spietata, gli affetti: la paura gialla per la vita della moglie e dei figli, come di chioccia che tenti di schermire i pulcini sotto l’ala; i bombardamenti a gramolare i campi e, in un istante orrido, anche la vita della sua bambina (che non aveva otto anni e non li avrebbe più compiuti); la fame cronica in risalita dal ventre alle tempie; i partigiani nascosti nelle perquisizioni dei tedeschi – che poi erano poco più che bambini anche loro, gli occhi molli sotto l’elmetto duro, e fu solidale rifocillarli con la polenta, figli d’altre madri disperate ad uopo vicariate oltre confine.
Seguì il duro lavoro di rinascere e, con l’amore che si riserva ai salvi, dare un futuro al figlio che, dopo gli studi, migrò a Berlino e si costruì una famiglia bionda.
E quando si potevano dire scampati, la moglie aveva preso a smangiarsi brani di vita partendo dalle bagatelle recenti fino alle memorie antiche – persino il suo volto, ormai per lei straniero, così da sentirsi masticato anche lui da quella maledetta malattia.
Ma peggio era stato il vuoto enorme che l’aveva sfiatato il giorno in cui lei non s’era più svegliata.
Ora, nella sala collettiva, le scene allo schermo lo sconsolavano: conosceva quella disperazione muta di rovine, di pietre sottosopra, di morti riversi, di lacrime e sguardi persi nella paura, nell’angoscia.
Nella rabbia. L’uomo era rimasto lo stesso. Forse sua moglie aveva ragione: la dimenticanza è la sola protezione possibile contro le umane atrocità senza memoria.
Monia Casadei, nata a Cesena, è psicoterapeuta. Scrivere per lei rappresenta una catarsi incoercibile fin dai tempi degli studi classici. Con poesie e racconti consegue il primo premio in diversi concorsi letterari nazionali e internazionali.
Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)
Non riusciva a dormire: un po’perché pensava che il babbo doveva ripartire il giorno dopo per il fronte, la sua licenza era già alla fine. Ma soprattutto non riusciva a dormire per la fame.
Avevano passato quel pomeriggio giù nel rifugio per l’allarme aereo, e a cena, dopo, da mangiare c’era solo una patata a testa. Ora il suo stomaco reclamava e si era alzata al buio per cercare qualcosa nella madia. Il corridoio era gelido, dalle imposte si insinuavano gli spifferi della guerra in inverno, taglienti da togliere il fiato.
Dalla soglia della cucina in penombra per il coprifuoco, intravide le due ombre abbracciate: la mamma, piccola e coi capelli scomposti, il babbo scalzo e le maniche della camicia arrotolate, con quel freddo. Senza musica, si bisbigliavano all’orecchio una canzone e ballavano.
Lei rimase immobile, zitta, non l’avevano vista e si nascose dietro la porta trattenendo il respiro. Il cuore le batteva all’impazzata, lei aveva fame, batteva i denti, e loro ballavano.
Sopra la credenza lì nell’ingresso vide la macchina fotografica di suo padre, grossa, col fodero di pelle marrone. La prese, l’aprì, ci guardò dentro, lui le aveva spiegato un giorno come funzionava, lei non l’aveva mai fatto, ma provò, li vide ondeggiare dentro l’obiettivo e scattò. Non si aspettava neppure lei quel lampo di luce azzurra che li fece voltare di scatto. Corse via, abbandonando la macchina fotografica sulla credenza. Si infilò di furia sotto la coperta, a pancia vuota. E loro di sicuro continuavano a ballare. Non capiva proprio cosa avessero da ballare. Le facevano rabbia, lei era sola, e aveva fame.
Un anno dopo, la mamma con una lettera in mano, seduta al tavolo di marmo di quella stessa cucina, terrea sotto la luce della lampada al neon, lo sguardo perso nel vuoto, le disse che il babbo non sarebbe più tornato.
Sono passati tanti anni. E ancora oggi, lei e sua madre, sono sedute in quella cucina. Ѐ domenica, la badante è libera, e per passare un po’ di tempo, ha tirato giù dall’armadio la scatola delle fotografie.
Si rigira tra le mani quella foto in bianco e nero, i bordi smerlati, le due facce sorprese dal flash. La passa a sua madre, che la prende con le mani che tremano, guarda a lungo, alza uno sguardo senza espressione: “Bei giovani, ballano. Li conosci?” chiede.
“Sì, li conosco bene. Sono bellissimi.”
Solo ora capisce quel loro ballare senza musica, nella penombra della cucina, a piedi scalzi, durante il coprifuoco.
Nicoletta Manetti, fiorentina, avvocato, si dedica da tempo alla scrittura, ottenendo diversi riconoscimenti. Recentemente ha pubblicato, per Ed. Pontecorboli, “Anja e Dostoevskij a Firenze”, “D. H. Lawrence e Frieda a Firenze” e “Gertrude Stein e Alice B.Toklas a Firenze”.
Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)
Come distinguere una buona birra da una ottima? Dalle mie parti c’è la Poretti, che ha inventato i 3, i 4, 5, 6 luppoli. Poi i 7, distinti nelle diverse stagioni, e via con gli 8, i 9 e, incredibile, i 10, esclusivamente in bottiglia da champagne. Più volte mi capita di sentire disquisire sull’argomento, qualcuno che sentenzia sulle differenze dei molteplici luppoli. Chi dice loro che ci sono ottime birre con un luppolo solo? Grande marketing, grande Poretti. Vendono una birra industriale facendo credere che sia artigianale. Tanto di cappello. Ha battuto tutte le altri industriali, che si ingegnano in trovate.
E la stessa cosa per gli scrittori che raggiungono la televisione. Cabarettisti che si trasformano, intrattenitori che primeggiano nelle classifiche. I soliti nomi. Lasciamo perdere, a loro non levo il cappello.
Ma allora come capire la differenza fra una birra e l’altra, fra un testo e un altro? Si procede con lo stesso metodo: il confronto sul posto. Sorseggiate una 4 luppoli, e poi bevete una lagher di proclamata tradizione oppure una buona artigianale (attenzione: non tutte le artigianali sono all’altezza del nome, ma quelle buone sono davvero un’altra cosa), e dite.
Assaggiate un branzino di allevamento, e vicino uno pescato in mare libero.
Leggete una pagina di un raccomandato della tv e quella di un classico. Ecco, questo è il metodo con il quale procedere per migliorare la nostra scrittura.
La nostra scuola propone la riscrittura. Bene. Mettete a confronto la prima stesura con quella che ne è uscita dall’aula del corso o dal vostro stesso lavoro individuale. Confronto sul posto.
Detto ciò, confesso di preferire una vera birra artigianale, un branzino pescato in mare, una pagina scritta che gronda sudore.
Continua il 21 settembre
Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.
Quella lacrima sul viso aveva detto tutto. Raccontava di un amore taciuto per troppo tempo, di tanti “ma si dai poi passa”. Come se fosse un’influenza o uno fastidioso sfogo, che poi tanto danno non fanno. Quante volte Pier incrociando il suo sguardo avrebbe voluto confessarle il suo amore! Le aveva anche contate poiché così facendo, si diceva, avrebbero fatto da sprone alla sua ritrosia. Una, due, cinque, dieci volte, ma niente proprio non ce la faceva. Rimuginava tra sé e sé: “l’altro giorno era di corsa”, “ieri era troppo accigliata”, “oggi poi proprio no, pioveva troppo!”. Quando le scuse si esaurirono iniziò a sfuggire al suo sguardo, quasi i suoi occhi avessero il potere di pietrificarlo all’istante. C’era sempre qualcosa che cascava provvidenzialmente di mano, un passante da salutare o un raggio di sole ad infastidirlo. Gli anni passavano e Pier vide Juliette trasformarsi in una giovane splendida donna, che egli venerava in devoto silenzio, quasi fosse l’incarnazione di una divinità e lui un misero mortale al suo cospetto. Venne poi l’inesorabile giorno in cui la vide scendere le scale per salire nella carrozza adornata a festa. Non era stata mai così bella, pensò, ed in quel momento seppe che mai più avrebbe provato quello smarrimento, quel senso di totale impotenza dinanzi ad un’altra donna. Lei era il suo amore, la sua musa, il suo eterno tormento. E mentre le porgeva dolcemente il braccio a suo sostegno, nell’esatto momento in cui i loro occhi si incrociarono capì di averla perduta per sempre. Lei saliva in carrozza e lui fu come trafitto da mille pugnali. Quel dolore fu così acuto tanto da causargli un mancamento. Juliette se ne accorse mentre si voltava sventolando il suo fazzoletto come si confà agli addii in grande stile. Fece fermare subito la carrozza, scese di corsa quasi inciampando nell’abito e si precipitò a soccorrerlo. Avvicinandosi a Pier, che si era accasciato sui gradini, si inginocchiò dinanzi a lui e fissandolo con occhi indagatori lo vide forse realmente per la prima volta per ciò che era. Quelle lacrime, quello sguardo, valevamo più di mille parole. Ed ella tacque, sforzandosi di mantenere quel regale contegno che il suo ruolo imponeva e per il quale tanto si erano adoperati i suoi educatori negli anni addietro. Asciugò dolcemente le sue gote con un tocco estremamente delicato, quasi temesse sfiorandolo di cagionargli altro dolore. Poi strinse le sue mani e con voce tremolante disse “forse in un’altra vita, in altri luoghi, avremmo potuto essere noi”. E se ne andò.
Natalia Rovera è una varesina di 53 anni. Odia il freddo, i ragni, la prepotenza. Ama il mare, i gatti, la gentilezza. Scrivere per lei è un’esigeza viscerale, che le permette di catturare il suo mondo interiore tanto turbolento quanto sfuggevole.
Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)