Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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La primavera del 1985 era esplosa all’improvviso dopo un inverno rigido e nevoso. Nel giardino di casa le camelie spargevano petali rossi ai loro piedi. La magnolia, alta oltre il balcone, apriva in anticipo i grandi fiori bianchi e il profumo intenso entrava dalle finestre della sala, lasciate socchiuse per far entrare il tepore del sole. Papà aveva dato il primo taglio della stagione al prato e si preparava a grigliare il pesce e le verdure. Mamma infornava le costine di agnello in attesa dell’arrivo di parenti e amici. Due lunghe tavolate apparecchiate vicino al portico, all’aperto: la giornata si annunciava calda e luminosa e c’era aria di festa. Nel frigorifero vino, spumante e una torta di pan di spagna ricoperta di crema pasticcera e fragole. Era la domenica di Pasqua. E io compivo diciotto anni.
“Diventare maggiorenni in un giorno così vale il doppio”, disse mia sorella Ingrid. Il giorno prima, complice la Lory, la mia amica di sempre, ero andata a farmi i buchi alle orecchie e ancora mi dolevano un po’. Io ho sempre avuto paura degli aghi e l’idea non mi era mai piaciuta. Era tempo di fare anche questo. Convinta che le avrei sentite dai miei, rimasi a bocca aperta quando nell’uovo di cioccolata trovai un paio di orecchini d’oro: un piccolo zaffiro circondato da cinque brillantini. E penso che la Lory sapesse già tutto.
Quella settimana avevo fatto anche scempio dei miei lunghi capelli: li avevo accorciati fin sopra le spalle con la permanente. Un gesto importante per me che mi conformavo con facilità alle richieste dei miei genitori. Un taglio con la bambina che non mi sentivo più. Quello sì fu uno shock, specie per mia madre. C’è chi dice che i diciotto si aspettano per cambiare, ma poi sono un anno come un altro. Per me non è stato così.
I miei cugini durante il pranzo parlavano del Luna Park, tappa obbligata del pomeriggio. Carlo, il maggiore tra noi, era silenzioso. Si era lasciato da poco con la ragazza e non aveva voglia di scherzare. Lo capivo, perché anch’io nascondevo una piccola delusione.
Il pranzo andò come al solito per le lunghe. Noi ragazzi decidemmo di abbandonare la tavolata e di investire le mance pasquali di nonni e zii alle giostre, richiamati dalla musica trasportata dall’aria. Casa mia non era molto distante e ci avviammo a piedi.
Comprammo manciate di gettoni per gli autoscontri: il posto migliore per fare nuovi incontri. Carlo seppellì il suo dispiacere nel sorriso di una biondina. Non so più quanti giri facemmo. Però ricordo bene quello che provavo. Davanti allo specchio avevo osato per la prima volta un filo di matita sugli occhi e il mascara sulle ciglia; poi i capelli ricci, gli orecchini veri, il completo giallo che tanto avevo desiderato: mi sentivo diversa. Avevo diciotto anni. Ero diventata grande in una notte.

Racconto di Anna Rosa Confalonieri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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INTENSITÀ E SVILUPPO, altrimenti il lettore si addormenta

E così, attraverso i personaggi e le descrizioni, sviluppiamo la nostra storia. Forse volevamo solo scrivere un racconto, e ne è venuto fuori un romanzo. O viceversa. Avevamo in mente duecento pagine e abbiamo risolto con venti. E a questo punto le domande sono molte. È meglio iniziare quando abbiamo in mente tutta la storia, oppure la inventiamo scrivendo? È meglio così o cosà?

Quello che abbiamo appreso nello scrivere racconti brevi da mettere in vetrina è che la nostra pagina vuole essere letta tutta di un fiato. Se questo non succede, torniamo indietro e vediamo dove il ritmo è calato. Scritta bene una pagina, se ne scriviamo cento, tutte debbono avere la stessa intensità. Non siamo qui per allungare la brodaglia, come diceva l’amico grafico.

Qualunque pagina del nostro romanzo il lettore apre, si interromperà solo con un atto di volontà, perché deve andare dal dentista o a portare il regalo alla suocera, ma alla sera la riprenderà con rinnovato spirito.

Nel passo lungo abbiamo accennato allo sviluppo delle descrizioni e dei particolari, dei personaggi, dei paesaggi, degli ambienti. Anche dei dialoghi, curati in un certo modo. Ci siamo abituati a vedere i sassolini che vanno tolti. Intensità e sviluppo nel romanzo sono macigni. Con umiltà e senso di distacco non possiamo non accorgercene. Rimanendo pieni di noi stessi, della nostra poca arte, immagineremo capolavori che nessun altro vede.

continua il 6 aprile

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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I PAESAGGI, ogni uomo ne ha uno dentro di sé

Alcuni non li considerano nemmeno, scrivono storie lunghissime e non si vede un albero, un fiume, una montagna, un fiore o un prato. Per altri sono irrinunciabili. Non potrebbero raccontare una storia senza un’ambientazione precisa. Per altri poi il vero protagonista è il paesaggio. Come al solito, non preoccupatevi, e fate come volete. Non sono questi i problemi della scrittura, e non chiedetemi il solito elenco di vari tipi di descrizioni.

Sul paesaggio, in un mio libro di guerra sulla Campagna di Russia, quando il protagonista lasciava la sua casa per andare in un territorio sconosciuto, un capitolo lo intitolai Ogni uomo ha un paesaggio dentro di sé (*). Ecco, mi sembra una buona idea. Se sentite importante il paesaggio provate a pensare che ogni vostro personaggio ne ha uno dentro. Pensate a quante finestrelle si aprirebbero. I personaggi osservano e meditano su ciò che li circonda. I paesaggi che voi descriverete sono in relazione e in armonia con il protagonista e con la storia.

In qualche consiglio, fin dall’inizio, ho suggerito di leggere di tutto, dalla poesia ai fumetti, perché tutto torna utile. E anche qualsiasi tipo di arte. A proposito di paesaggi vi direi di guardare i film con un occhio particolare, attento. Al cinema dominano, come pure ogni altra ambientazione. Nella complessa arte del cinema troviamo varie professionalità in un lavoro d’equipe, e il paesaggio è affidato alla fotografia. E non siamo noi, nella complessità del nostro lavoro, non siamo noi anche fotografi?

Siccome ho ripreso a parlare di film, mi allargo un po’, e ricordo il capitolo dei dialoghi. Li seguite con attenzione? So già che siete attenti a come è stata scritta la sceneggiatura, ma il linguaggio del cinema, che non è quello della scrittura, riuscite a entrarvi? Non solo per capirlo, ma per trarvi ispirazione.

Ogni arte confluisce nella nostra. E mi allargo ancora. In realtà tutto quello che ci succede attorno, dalle nostre giornate piene di altri impegni, dalle vacanze, dalle altre nostre passioni, culturali, artistiche o sportive che siano, tutto è motivo di osservazione. Se vogliamo migliorare la nostra scrittura, non siamo mai spettatori occasionali. E il paesaggio ci parla ogni giorno. Scandisce il passare del tempo attraverso le stagioni, e il nostro stesso umore di giornata. Provate a scoprire il paesaggio che alberga nel nostro cuore. 

(*) … ed ebbe inizio quel viaggio che dal Brennero, attraverso la Germania, l’Ungheria e la Romania ci portò al fronte, e su quei treni pensavamo già alle pianure della Bessarabia, ai fiumi i cui nomi presto si sarebbero scolpiti nella mente, Bug, Dnjeper, Do­nez, Don, e guardando una carta militare ognuno se li im­maginava in qualche modo, un panorama di pianure e di fiumi più vasto di quanto fossimo abituati, perché il pae­saggio è qualcosa che ognuno ha dentro di sé, è l’indole stessa, il carattere, è la differenza che si vede subito fra un italiano e un russo, e anche quella fra gli uomini, di chi viaggia e di chi resta, del buono e del malvagio, ogni uomo ha un paesaggio dentro di sé, e noi arrivavamo dai fiumi, dai laghi, dalle pianure e dalle colline che erano le nostre, e così guardando quelle carte l’immaginazione si spingeva avanti e costruiva spazi diversi, ma per quanto questa operazione fosse audace quando conoscemmo dav­vero la vastità di quelle pianure, l’imponenza di quei fiumi dove si sarebbero svolte le più accanite e cruente battaglie, ci accorgemmo che la realtà superava la fantasia, e a que­sta considerazione se ne aggiunse un’altra, che cioè il pae­saggio a sua volta appare diverso a seconda degli occhi che lo guardano, delle circostanze, degli stati d’animo, e così si capisce come quel panorama, che non ci apparte­neva, entrò in modo violento dentro di noi modificando il paesaggio che era proprio dell’animo, e non solo, quelle pianure che sconfinavano nel cielo e quei fiumi a cui si le­gherà per noi l’esperienza tragica della guerra cambiarono la nostra visione della vita.

continua il 30 marzo

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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Nevica nell’oscurità. Mario è in piedi sopra il tetto di un garage, indossa un berretto di lana e una maschera da sub. La barba incolta, gli occhi verdi del padre.
Mario era venuto alla luce trentuno anni fa, dodici giorni oltre il termine, non l’unico ritardo per lui. Sua madre, osservandolo crescere, diceva: forse gli manca un gradino per salire al primo piano, non importa, quello che conta è che sia un bimbo felice. Zio Gino, dal canto suo, asseriva che ragionare su rampe di scale fosse più realistico.
Era solito dirgli: Sei un bravo ometto, ma non prendere mai l’iniziativa. Mario annuiva ignaro del significato. Le buscava dalla mamma, raccoglieva castagne nel bosco dietro via Lozza in autunno, e a volte, anche se gli era proibito farlo, imboccava la strada che porta in centro. Ma l’iniziativa? Quando arrivò la fine del mondo, Mario dormiva. Non si accorse delle grida, delle sirene ululanti, senza l’apparecchio acustico era come fosse in fondo al mare.
Si svegliò e dopo essersi infilato nelle orecchie gli aggeggi che lo riportavano nell’universo conosciuto, fece quello che fanno tutti, anche i più intelligenti, andò in bagno. Dalla tapparella filtravano i primi raggi di sole. Sentì uno scoppio. Pensò a petardi. Si accostò alla finestra. Vide il signor Meo nel piazzale che cercava di salire in auto. Intorno a lui una decina di persone. Strane persone. Una era nuda dalla cintola in giù. Gli si avvicinavano lentamente. Il signor Meo impugnava una pistola, e sparava. Li colpiva e quelli continuavano ad avanzare, poi uno gli afferrò il braccio portandoselo alla bocca. Il signor Meo urlò.
Mario si precipitò in camera della madre e si fermò sulla porta. Zio Gino era stato molto chiaro in merito, “Puoi andare dove vuoi in questa casa, ma se ti trovi davanti a una porta chiusa, bussa”.
Bussò. Attese non meno di dieci minuti immobile poi, non avendo risposta, aprì. Era vuota. Tornò alla finestra del bagno, nel piazzale c’era gente che mangiava altra gente.
Sono passati tre mesi da allora. Adesso nel suo rifugio a cielo aperto sa di aver commesso un errore, scendere in centro fino al negozio di giocattoli di via Corti gli era sembrata una buona idea. Il posto era facile da raggiungere, si percorreva viale Cinto, e dopo la sopraelevata si proseguiva per via Verdi. Ora però sono due chilometri pieni di insidie. Eppure era quasi giunto alla meta, una trentina di passi dal suo regalo di Natale.
Lo individuarono. Corse veloce, era bravo in questo, e gli inseguitori persero terreno. Ma da ogni angolo ne spuntava uno. La piccola costruzione fu la sua salvezza.
Qui si gela. La neve ghiaccia il vetro della maschera. Mario ha paura, tra quelle figure che lo circondano ce n’è una nuda dalla cintola in giù.

di Gian Paolo Zoni

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Ogni domenica pomeriggio mio padre mi gridava: “Allora, l’hai pulito o no quel carburatore?”. Io, muta, mi perdevo a guardare le macchie di benzina danzare nelle pozze d’acqua.
Quel dì risposi: “Torno subito” e me ne andai.
Un Disperato Erotico Stomp era appena passato davanti casa, teneva un quadro sotto il braccio e la giacca sporca di colori. Decisi di seguirlo.
Giunti al suo atelier, mi tenne la porta aperta e mi invitò ad entrare. Io curiosai nei suoi spazi.Mi chiese chi fossi, non risposi. Mi chiese cosa vedessi nelle sue opere, emisi un flebile “boh”. Mi chiese se volessi imparare a disegnare. Lo guardai e alzai le spalle.
La prospettiva, la profondità, le ombre, le proporzioni, le sfumature.
Nel mentre crebbi in altezza, in domande e in dolori.
“Per fine anno voglio che mi porti qualcosa di tuo, di personale, di autentico. Guarda dentro e fuori di te e miscela tutto quanto, perché vivere è riscrivere cose nuove”.
Passai le giornate a vagare per la città, in cerca di un soggetto. Una sera d’estate, attorniato da tanti bambini attenti, un saltimbanco mi catturò in una piazza. Raccontava fiabe. Gli adulti non gli davano retta, chiacchieravano tra di loro, scrivevano al telefono, si annoiavano. Io mi sedetti in mezzo a quei piccoli ascoltatori, stupefatto dalle loro domande: “Perché sposti un oggetto da una mano all’altra?”, “Anche tu hai avuto tre anni come noi?”, “A cosa servono i mostri?”.
Disegnerò questo giullare! Deciso! Appena torno a casa! Quest’ultima parola, casa, mi rimase in bocca, non voleva scendere giù. Qual era la mia casa? Lo chiesi al mio maestro, nonché affittuario della piccola mansarda in cui vivevo, e lui chiuse gli occhi: “E’ qualcosa in continua definizione sebbene, alcuni, la banalizzino come un semplice luogo fisico che certo non cammina”.
E allora camminai io, diretta alla mia prima casa.
Da quel “torno subito” erano passati vent’anni. Ed ora il garage era vuoto. Niente scaffali, niente banco lavoro, niente moto. C’erano solo delle macchie a terra e dei poster appesi al muro. Mi misi a fissarli, come allora, e risuonò la voce di mio padre: “Mica ho tempo per quei viaggi lì, io!”. Con lo stesso tono, alla domanda “Com’era il nonno?”, mio padre rispondeva sempre “Tuo nonno faceva il meccanico!”. Mai mi disse se avesse avuto dei sogni, se ci litigava, se gli raccontava storie quand’era piccolo, se fosse severo o permissivo, se amasse la nonna o l’avesse mai tradita.
Guardando quei luoghi sterminati, quei deserti, quelle steppe da raggiungere su due ruote, capii che quelle erano le fiabe di mio padre, era il mondo incantato che voleva raccontarsi e raccontarmi, senza saperlo e senza dirlo. Era il suo bisogno di espandersi, di non essere fatto solo di materia, sebbene se lo negasse di continuo. Quando lo capii, dissi grazie.

Dedicato a tutti i papà, che raccontano sempre delle fiabe ai propri figli, anche se non lo sanno.

Racconto di Paolo Negri, illustrazione di Daniela Landini

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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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Debora è stesa sul tappetino del bagno, la dose dà i suoi primi, meravigliosi effetti. La volta celeste le gira attorno, c’è solo un puntino che non si muove, è Venere. E lei ripercorre la sequenza di eventi della giornata come in un sogno.
A mezzogiorno, con alcune colleghe, era andata al ristorante giapponese al posto della solita mensa. A un certo punto, lo sguardo di Jessica, la capo-reparto, fu catturato da qualcosa sopra la sua testa. Debora s’era girata di riflesso. Una donna dall’aspetto bellicoso la fissava. “Ho saputo che ti vedi con mio marito”, e la minacciò con tono sprezzante. Lei rimase di ghiaccio, e il gelo si propagò nel locale.
Al pomeriggio, finito il turno di lavoro, andò all’officina dove lavorava l’amante. Lo scorse di spalle chino sul motore di un’auto col cofano alzato. Lo chiamò più volte, senza risposta. Si avvicinò a lui. “Cosa succede?”. “Non possiamo più vederci, mia moglie ha letto i messaggi sul cellulare. Ora vattene, ho una consegna urgente”. Scenata di lei, lui impassibile: “Vai fuori dai piedi”.
Il pensiero di farsi consolare dalle amiche, che al ristorante giapponese l’avevano guardata con disappunto quando la furia se n’era andata, la nauseava.Telefonò invece a Giacomo, il suo vecchio pusher.“Ce l’hai?”, “Si”. Era pulita da un anno, ma aveva conservato il numero. Parcheggiò davanti al cancelletto scrostato del condominio fatiscente e si infilò nell’appartamento che l’uomo condivideva con altri spacciatori.“Dov’è?” chiese appena vide la sua ombra chiudergli la porta alle spalle.
“Prima i soldi”, replicò lui. “Tieni”. Prese la bustina e si chiuse in bagno. “Non qui, capito?”. Troppo tardi.
Un tonfo secco ora la risveglia dal suo trip, una retata. Una divisa nera le si accosta. “Signorina, mi sente?”, la scuote,“Signorina?”.
Una barella la porta fuori tra i colori del tramonto appena sfumato, intravede Venere, più grande e lucente del solito. Da quando è diventata “l’altra donna” si rivolge a lei come a una vecchia amica. Hanno lo stesso problema, lei in secondo piano rispetto alla moglie del suo amante e Venere dietro a Mercurio per distanza dal sole. Veglia su di lei con un sorriso benevolo, è immobile, in ascolto. Debora chiude gli occhi, adesso è serena.

Racconto di Olga Riva Rovaglio (www.ilcavedio.org), illustrazione di Silvia Gabardi: “Riflessi abbaglianti”, calcografia su zinco, 2007.

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Gli amici dell’Accademia preferivano i drammi, le sceneggiate, le commedie. Invece Volodì, un giovane che al cinema vedeva i film di Buster Keaton e Charlie Chaplin, aveva scelto di fare l’attore comico.
– Volodì, sei sicuro? – gli disse il maestro di recitazione – Far ridere è la cosa più difficile che ci sia.
– Ho detto che farò il comico – ribatté Volodì con aria corrucciata, e gli voltò le spalle.
Era solo un ragazzo viziato o davvero sapeva il fatto suo? Di certo la determinazione l’aveva stampata in volto. Non avrebbe recitato nelle sale dell’oratorio.
L’attendevano i più prestigiosi palcoscenici del mondo. Già ne sentiva gli applausi. Bis bis. E lui sarebbe uscito ogni volta da dietro il tendone, il braccio destro piegato all’addome e l’inchino fino al pavimento. Poi, rialzandosi con il busto, sguardo fiero e sprezzante. I poverini non sapevano ancora di che sarebbe stato capace.
Le cose però non andarono come aveva pensato. Il pubblico non rideva. Quei cretini rimanevano con occhi fissi e labbra strette.
– Caro mio, non fai ridere nessuno – gli disse un attore anziano, che voleva dargli consigli.
Volodì lo scostò con la mano e si rifugiò in camerino.
Davanti allo specchio rifece quelle mosse per le quali lui aveva previsto la platea scoppiare in risate, quando in una scena mostrava i muscoli come Superman e saliva l’immaginaria scala del potere prevista dal copione. Si ricordò allora della sua infanzia felice, e delle parole della mamma, quel giorno che non voleva mangiare il borscht e piangeva lacrime isteriche e capricciose:
– Volodì, ma cosa farai da grande?
– L’attore, mamma. Farò l’attore.
– E quale parte reciterai?
– L’eroe, mamma. Farò l’eroe.
– Volodì, gli eroi muoiono in scena.
– È vero, mamma, ma io lascerò morire gli altri. E confortato da quel ricordo riemerso come le madelaine di Proust, abbandonò la carriera di comico e si rigenerò in un nuovo tipo di teatro.
Subito trovò un impresario di fama mondiale, per lui una specie di zio d’America.
Prima campava con mille euro al mese e adesso, dopo soli tre anni, possedeva ville in Italia, al mare e in montagna, e depositi bancari in paradisi fiscali.
Il suo teatro è sempre affollato, e arrivano spettatori da tutte le parti d’Europa, pronti a pagare qualsiasi cifra. Nell’immaginario collettivo ha oscurato tutti gli eroi dei video giochi. – Volodì, stai attento di non fare la fine del rospo nella favola in cui beve tant’acqua per diventare bue – gli disse un giorno il suo maestro di recitazione (licenziato sul posto).
Volodì, da un anno in arte con il nome di TONA, che vuol dire colui che reca pace e democrazia, recita nella vita di tutti i giorni. Indossa l’abito di scena e prepara le sceneggiature, come l’altro giorno quando è andato da un capo di stato, suo ammiratore, che l’aveva invitato. Lui ha organizzato la scenetta dei due amanti che corrono sulla spiaggia, lei da una parte e lui dall’altra, e incontrandosi a metà si abbracciano. Nell’occasione ha studiato un passo che fa intendere di essere stato ferito, come Dustin Hoffman nellUomo da marciapiede. Quando i giornalisti gli chiedono quante persone pensa di aver coinvolto, lui non dice mai il numero totale, ma solo quello dei bambini.
Un critico ha scritto invece che in un solo anno, sommando tutti gli eventi, si può parlare di trecentomila. E non è finita.

di Abramo Vane

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LE DESCRIZIONI, quando ci si prende gusto

So che avete letto libri, alcuni ne hanno letti parecchi, e so che siete rimasti incantati da certe descrizioni. E adesso mi chiedete come posso io? Scrivendo i racconti sui quali abbiamo mosso le prime esperienze di scrittura, e che anzi consiglio come terreno di partenza, non abbiamo trascurato niente, e la cosa più importante che abbiamo fatto è stata quella di mirare al sodo, all’essenziale. Se abbiamo fatto bene questo percorso ci troveremo fra le mani un tesoretto, una piccola lampada magica. Aprendola uscirà un genio che esaudirà i nostri desideri. Dall’essenziale tiriamo fuori tutto, anche il romanzo che sogniamo di scrivere. Lavoreremo dieci cento volte di più, ma la fatica diventa un piacere, e non la sentiamo nemmeno. A chi è veramente interessato alla scrittura chiedo un impegno fin dall’inizio, per essere poi travolti dalla passione. Quello che può servire in un corso di scrittura è l’esperienza che si riesce a trasmettere, ed è soprattutto l’energia che riusciamo a muovere, insieme.

Veniamo alle descrizioni. Ho scritto un raccontino di trenta righe nel quale la protagonista è una ragazza dai capelli verdi. Ho inventato questo personaggio perché mi serviva per sostenere una certa mia idea. Adesso ne voglio fare un racconto lungo, sviluppare la storia e approfondire l’idea. La ragazza l’avevo descritta con i capelli verdi, un piercing al labbro, una ferita all’addome, e così in qualche modo l’avevo caratterizzata. Adesso la vorrei descrivere meglio. È una ragazza minuta, è cicciotta, o è alta e snella? Preferisco alta, come un’indossatrice. Perché si è conciata in questo modo, invece di fare l’indossatrice? Un tempo questo era il suo lavoro, e la mia scelta apre una finestrella dietro la quale scrivere almeno venti pagine, su tutte quelle sfilate. Ha un corpo esile, è magra, però è una ragazza forte, e in qualche modo devo descrivere la sua forza, che non è fisica, ma di carattere. Ha sofferto, viene da un paese dove c’è stata la guerra, ecco altre finestrelle che si aprono. E le sue mani? Non sono le mani di una ragazza, ma di una donna che ha fatto lavori duri, forse ha imbracciato un fucile. Capite, a ogni considerazione si apre una finestrella. Come continuo? Descrivo gli occhi, lo sguardo triste perso nel vuoto. E si apre un portone. Notate tutte quelle pagine che si presentano e s’intrecciano fra di loro? Dove l’ho vista la prima volta, la ragazza dai capelli verdi? Alla stazione, con alcuni amici. Chi sono, da dove vengono, come sono vestiti? E i loro sguardi? I modi di fare. Come si esprimono? E perché ritrovarsi in una stazione? Quell’ambiente così cupo (descrizione), ma anche quei ragazzi sono cupi (parallelismo). I treni passano e se ne vanno, e uno porterà via la ragazza dai capelli verdi. Vi siete annoiati? Immagino di sì. A me è invece venuta la voglia di scrivere un romanzo. Ho già il titolo.

Attenzione. Le descrizioni non servono per passare dal racconto lungo al romanzo. Forse all’inizio le abbiamo pensate con questo scopo, ma presto ci siamo accorti che sono parte della struttura, la parte migliore dell’opera. Ora davvero la nostra storia è completa, e solida. E un’altra particolarità. Abbiamo sollecitato la fantasia, maturato lo stile, scavato dentro di noi.

Poi so che volete il mio intervento. Dopo aver ripetuto un sacco di volte le stesse cose mi chiedete ancora la tecnica, quando vi ho detto in modo chiaro che sarà il metodo, il vostro metodo personale, a risolvere ogni problema e a portarvi a un risultato concreto, di buon livello. Se intervengo in un certo modo sui vostri racconti quasi tutti siete contenti, se supero un pochino il confine, se entro cioè con qualche mio esempio di sviluppo sulle vostre idee, incominciate a dividervi in due. Chi ne è contento, così si trova la pappa pronta, e chi ha fastidio per l’intrusione. Siamo chiari! Quello che voglio è solo portare la mia esperienza. Punto. Di più nemmeno posso. Fatemi avere la vostra ragazza dai capelli rossi.Così non parliamo a vuoto e lavoriamo sul concreto. Questo è un corso pratico. Ed è chiaro che se volete scrivere un romanzo, lo scriverete voi.

continua il 23 marzo

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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