Chi si ferma è perduto! gridano i tenenti. Chi si ferma è perduto! ripetono i sergenti.
Cammino un giorno intero. Sono stanco, ho fame, ho sonno. Fiume ghiacciato. Terreno ghiacciato. Nevica, e la neve si accumula. Un passo dopo l’altro, e con la neve fresca il passo è più pesante. Ho fame. Ho sonno. Voglia di buttarmi in questa morbidezza, e dormire. Per sempre. Addio, mondo fasullo. Mi hai ingannato, e io c’ho creduto. Ho creduto all’amore. È finita, prima di cominciare. Papà, mamma, fratelli, sorelle. Amici. Mi ricorderete. Quella volta in cui. Olga, in un solo giorno ti ho dimenticata. Non sono più un uomo. Cammino e cammino. Ti prometto, però. L’ultima immagine sarai tu. L’amore. Cammino e cammino, cammino. Laggiù una luce, un’isba. Devo arrivarci. Devo. Salvo la vita. Non è la mia terra. Ho lasciato a casa l’amore perché avevo un dovere da compiere. Adesso l’ho compiuto, ci sono passato dentro, al dovere. Ne sono uscito. Sono un uomo libero. Libero. Voglio solo amare.
Cammino cammino cammino. Chi si ferma è perduto. I russi attaccano, sparano. Oggi c’è il sole. Pallido, ha una faccia da funerale. Il nostro. È lì per vedere, per farci le condoglianze. E le pernacchie. Ride di noi, stupidi animali. Incontro alpini che hanno camminato avanti e adesso si sono afflosciati. Feriti, induriti dal freddo.
Uno è steso, rannicchiato. Un modo originale per trapassare. Un feto nella placenta. È già morto, e prega ancora. La morte ama tutti.
Un altro è in croce. Gli è venuto spontaneo stendersi come un Gesù Cristo. Non c’è Maddalena, non ci sono le pie donne, e chi passa capisce. La morte ama tutti.
Un alpino si è inginocchiato, e così è rimasto. Figurante di un presepe. Ma qui è il calvario. Dentro tutta la vita, da Betlemme alle Tre croci. La morte ama tutti.
Vedo il poeta Bernasconi Alvaro seduto nella neve. Alvaro, Alvaro. Non ce l’ha fatta. Gli è bastata una notte di gelo. C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico. La morte ama tutti.
Io no, resisto, e cammino. Vivo il doppio, come quel giorno che mi alzai con Olga nella mente. Io sono quello che morirà, e guardo i morti che camminano con me. Sono cosciente. Il soldato che racconta è un altro. Lui scrive nel vento, e consegna parole all’Infinito. Io ho lo zaino in spalla, il fucile a tracolla.

di Abramo Vane Pagina tratta da “Il soldato inutile” di Abramo Vane Edizioni Il cavedio 

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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La tavola è ricoperta di piatti: carni e verdure spiccano colorati sulla tovaglia bianca, i bicchieri tintinnano allegri e tutti si servono dalle zuppiere stracolme. Rido e mangio senza pensieri quando una voce improvvisa, dura, spegne il mio sogno e i colori. Sono sveglio, devo lasciare andare le ultime immagini. Rifaccio la cuccetta in fretta. Esco dalla baracca in un mondo in bianco, nero e grigio. Fa freddo. Non è ancora l’alba e il cielo è senza stelle. Mi metto in coda insieme agli altri per il pezzo di pane, la razione di un giorno, che mangeremo a piccoli morsi per farlo durare di più e ne raccoglieremo le briciole.
Anche il pane è grigio, senza colore e senza profumo. Ci sembra buonissimo.
Davanti a me il mio vicino di cuccetta, 174517, un ragazzo di meno di vent’anni, barcolla. Cerco di sostenerlo perché non cada, senza farmi vedere da nessuno, con un gesto che si perda nel buio. Lui si volta e mi guarda in silenzio. La faccia è un teschio, le braccia e le gambe sono quelle di uno scheletro. Gli occhi hanno dentro lo scuro del cielo. Non ce la farà.
In lontananza strie grigie di nuvole si confondono con la neve sporca che ricopre il terreno. Dietro i reticolati file di alberi dai rami nudi coprono i campi alla vista.
Prendo il mio pezzo di pane e resto vicino a lui mentre ci allontaniamo dalla zona della distribuzione. Aspetto che l’Unterscharfűhrerse ne vada e che i soldati guardino da un’altra parte. Molte cose sono proibite, qui.
Camminiamo insieme, il suo passo è più incerto e più lento.
Mi decido, stacco un pezzo del mio pane. Grosso. Lo tendo al ragazzo senza parlare. Forse non ce la farà. E nemmeno io.
Ma quando tiene tra le mani il pezzo di pane, per la prima volta lo vedo sorridere anche con gli occhi. Non sono più del colore del fango, ora sono blu.

(Giornata della Memoria, 27 gennaio)

di Angela Borghi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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Ci sono cento, mille, infinite strade da percorrere, e oggi, su una di queste, ho incontrato Samuele Arcangioli, pittore, ma non è che gli ho dato la mano e detto tanto piacere, Samuele l’ho conosciuto attraverso il catalogo delle sue opere, e anche questa è una strada come altre, e anzi, fra le tante, quella dell’arte è privilegiata… e capita che hai un’emozione, una gioia incontenibile, un dolore, e hai una necessità vitale, come il bere o il dormire, devi esprimere, comunicare, ma ciò che hai vissuto è solo tuo, è un’esperienza personale, è come il pensiero di un santo che vive in una grotta su in montagna, nessuno sa di lui, ma quel suo pensiero è così forte che si consegna all’infinito per proprio conto, con spontanea innocenza, e seppure di grande dolcezza è più potente di tutto il potere del mondo… e ci sono cento, mille, infinite strade da percorrere e da ragazzo pensavo di camminare per ognuna di esse, e adesso sono su questa pagina di leonessa e leggo i dettagli, 100×150, immensa, me la figuro su una parete e prendo le misure, qui non ci starebbe nemmeno e allora la collocherei là, ma forse la mia non è una casa adatta, sarebbe come mettere un animale in gabbia, quella leonessa ha bisogno del salone di una villa… olio, carta da pacco e foglia oro su tavola, mi perdo in sensazioni e pensieri che non c’entrano molto con l’esperienza africana dell’autore, ma l’arte è così, apre spiragli, le sue parole sono mute, vanno da anima ad anima, è come se ci si parlasse da vecchi amici, uno scrive, o disegna, e un altro ascolta, e qualcosa si muove, gli stimoli non mancano e dove arriveremo non lo sappiamo. Ci sono cento, mille, infinite strade e forse le percorreremo tutte, forse ne tracceremo altre o forse, con umiltà, ne cercheremo di impossibili.

di Fedele Mozzi, dipinto di Samuele Arcangioli

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Stanotte c’è stato il temporale. Il cielo è ancora grigio e intorno tutto dice che l’autunno è alle porte: lo dice il calendario appeso alla parete, lo annunciano le colline sopra la città che sfoggiano nuovi colori e i negozi che espongono abiti in maglia accanto a ciò che resta dei saldi estivi. Il passaggio di stagione è vicino, ma a lei piace quest’atmosfera sospesa, incerta. Ben si sposa con un carattere indolente. L’aria frizzante del mattino le spettina i capelli sciolti. Si specchia in una vetrina e con un gesto veloce li lega con un elastico. E’ bella Astrid, di una bellezza esotica: capelli ricci corvini, pelle ambrata e grandi occhi verdi. Suo padre non l’ha conosciuto: avventura estiva di sua madre a Cuba, nella vacanza dopo la maturità. Ha un carattere schivo, pochi amici, una storia nata tra i banchi di scuola che dura più per abitudine e pigrizia che per convinzione, un lavoro che non la soddisfa e prossima ai trent’anni. Ha un groppo in gola e mordicchia le unghie. Ha bisogno di cambiamento. Lo pensa, lo dice, ma non trova il coraggio. Si sente in ritardo nella vita. “L’orologio biologico corre”, le fa eco sua madre, che mai per un attimo si è pentita di averla tenuta e sembra una sua coetanea. Ripensa alla proposta di matrimonio di Mario, alla quale aveva risposto in modo ironico con un “Mi metterai sulla croce a trentatré anni, come Cristo”. Lo feriva a volte per punirlo di non essere più capace di stupirla. Si siede al tavolo del solito baretto e ordina il solito cappuccino con poco caffè, mentre sfoglia quel che resta di un quotidiano stropicciato da più mani. L’occhio cade su un trafiletto: il bando per l’estrazione delle 50.000 Green Card messe a disposizione dal governo americano. Le viene in mente un film romantico degli anni ‘90, con quell’attrice dai capelli simili ai suoi. Un matrimonio di convenienza sfociato in un amore impossibile. E’ la fine di settembre, la fine di un’estate monotona trascorsa senza quasi lasciarne ricordo, una delle tante, con poche fotografie e sempre uguali. Chissà prima o poi anche lei andrà a Cuba, magari in viaggio di nozze. Le viene quasi da ridere. Cerca per curiosità la data di scadenza del bando. La tentazione di iscriversi è forte, così come lo è la paura nel futuro, che immagina troppo simile al suo presente. Come dirlo agli altri? A Mario, a sua madre… In fondo c’è tempo per le confessioni: l’estrazione avverrà fra uno o due anni; può anche non dirlo, sarà il suo segreto. Si iscrive per gioco, ma in fondo ci crede. La carta è verde, come la speranza.

di Annarosa Cofalonieri

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“Nonna perché le finestre di quella casetta sono sempre chiuse?” Sara è una ragazzina di tredici anni, molto curiosa. Seduta accanto alla sua dolce nonnina guarda in fondo alla strada. Le nubi grigie di un temporale in arrivo non le permettono di andare in cortile a giocare.
“Sai, in quella casetta viveva una bambina, ora non c’è più nessuno”.
“E perché?” l’innocente curiosità incalza.
Sara si siede in braccio alla nonna per ascoltare il racconto. “Una mattina quella bambina aprì una di quelle finestre, vide le nubi da temporale, come quelle di oggi, e la richiuse. A mezzogiorno erano ancora chiuse. Era molto strano perché la mamma si alzava sempre presto. Io e il nonno abitavamo già in questa casa, mi preoccupai e andai a controllare. Venne ad aprire la piccola, era sporca di sangue, non diceva niente. Entrai e le chiesi cos’era successo, mi prese per mano e mi portò in camera. La scena che vidi era un orrore. Sangue ovunque e i suoi genitori nel letto, morti. Chiamai la polizia, mi fecero molte domande, raccontai quello che sapevo, la mia preoccupazione per le finestre chiuse e come si era presentata la piccola alla porta. La bambina non parlava, lo shock fu tale che rimase muta per molti mesi. Fu affidata a una coppia di sposini, le diedero tanto amore e l’aiuto di cui aveva bisogno. La polizia continuò le indagini, tutti i giorni erano in quella casa per fare rilievi. Trovarono solo lenzuola sporche in modo strano. La piccola era seguita da una psicologa che sperimentò varie terapie, senza successo. Infine tentò con l’ipnosi. Le fece rivivere quella notte e stavolta riuscì. Aveva visto e rimosso tutto. Lo zio Adam, il fratello della mamma, aveva problemi di mente, quella sera era agitato in modo particolare. Aveva rinchiuso in camera da letto i genitori della piccola, picchiati a morte con un bastone e l’aveva obbligata a guardare. Poi li aveva stesi sul letto facendosi aiutare dalla bambina. Le lenzuola erano rimaste candide, tranne dove appoggiavano i corpi. Fece sedere la piccola e le vietò di muoversi, minacciandola di farle lo stesso, lui era in cucina e la vedeva…. “.
“Nonna come sta adesso quella bambina?” Sara era stufa di ascoltare, voleva arrivare alla fine. In quel momento entra la mamma di Sara che le corre incontro per abbracciarla e darle un bacio. “Allora nonna continua, come sta?” Insiste Sara.
La nonna sorride: “Tu che ne dici? La stai abbracciando…”

di Laura De Filippo, illustrazione di Letizia Ghirotto

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Il giorno in cui Nuvola Rossa si inoltrava nel bosco dietro Villa Toeplitz per tornare a casa,io e Cavallo Pazzo ce le stavamo suonando di santa ragione. Il successo nella lotta garantiva il diritto di chiedere a Nuvola Rossa, Mara nella realtà, di diventare la ragazza del vincitore. Si era trasferita con la famiglia pochi giorni dopo la fine della scuola, io e Aldo giocavamo a muro, lei si avvicinò, prese dalla tasca posteriore dei pantaloncini un mazzo di figurine e giocò con noi. Era brava, cazzo se lo era! Nel giro di dieci minuti ci ridusse a ragazzini sfigati con un solo Bettega e un Maldera nelle rispettive tasche. Sorridendo ce le restituì. È così che entrò nelle nostre vite. Mara era la più veloce e agile, sapeva trovare i nidi di tordo sugli alberi, ci aveva insegnato a riconoscere l’erba cucca e a mangiarla, e non temeva di scavalcare la recinzione di ferro arrugginito del frutteto dei Parini dove rubavamo mele, pesche e ciliegie. Lei che, con i suoi occhi verdi e i capelli racchiusi in due treccine amaranto, ci ammoniva di non uccidere i maggiolini o le cavallette, se non siete in grado di ridare la vita, diceva, perché toglierla? Come potevamo non esserne innamorati? Ero sopra Aldo, lo tenevo bloccato. “Arrenditi!” gli urlavo, sentivo ogni fibra dei suoi muscoli tendersi, gli colava sangue dal naso, rivoli simmetrici sulle guance. Lo trattenevo a terra e lui non mollava, strizzava gli occhi da farsi male pur di trattenere le lacrime. Non volevo piangesse, era mio amico. Cacchio! Il mio migliore amico. Allentai la presa e in un attimo mi ritrovai nella posizione opposta. Ora era lui che mi gridava di arrendermi. Sangue sudore e saliva gocciolavano sul mio viso. Mi consegnai al nemico: era il più innamorato. Si alzò, tolse la maglietta e si tamponò il naso. Geronimo, disse, facciamo che sia lei a decidere. Aveva meno forza ma più buon senso di me. Acconsentii. Non servì a nulla, non la vedemmo più. Quello stesso pomeriggio sua madre la caricò sulla Fiat 127 e partirono per chissà dove, volarono lontano da quella casa e da un padre e un marito violento. Sono passati trent’anni da quell’estate, Beatrice, mia figlia, è seduta sul divano con me, ha sedici anni e la voglia di stringersi a suo padre ancora adesso, la ringrazio per questo. Stiamo guardando un documentario, argomento gli insetti. Non ho simpatia per quegli esseri ma sono qui con mia figlia ed è una cosa stupenda. Parlano di cicale, una specie asiatica rimane sottoterra per tredici anni, poi si rivela al mondo e vive nel sole estivo un paio di mesi. Lo sapevi papà? No, le rispondo. Ma ne ho conosciuta una tanto tempo fa, il suo nome era Nuvola Rossa.

di Gian Paolo Zoni

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Il Professore. Così mi chiamano, e questo mi consente di mantenere una certa distanza da quel gruppo di analfabeti che detengono il potere. Magro, basso, occhialetti tondi alla Gramsci, Borsalino e farfallino tutto l’anno. Lo stile non è acqua.
Mi guardano spesso tra il rispetto e l’invidia. Loro, che vanno in giro vestiti in modo dozzinale e con chilate d’oro attaccate al collo. Alla fine sono certo che mi disprezzano. Basta guardarli quando parlottano tra loro, indicandomi.
Gente per la quale il denaro è l’unica cosa che conta davvero. Ma io sono indispensabile. Gestisco tutti i beni della Famiglia, come viene chiamata. A volte mi viene da ridere. Io che una famiglia non l’ho mai voluta, né cercata. E ora mi trovo, obtorto collo, a condividerne una.
Mi ricordo quando arrivai qui nel Meridione da piccolo imprenditore del Nord. I sogni in tasca, la solita burocrazia e i soldi che non bastano mai. Le persone sbagliate presentate dalle persone sbagliate, e in poco tempo un buco finanziario incolmabile. Fino al ricatto di dover lavorare per loro. In quarant’anni ne ho viste di ogni genere. Capitali entrano, investimenti escono, in mercati finanziari che pochi conoscono. Non è più come ai tempi di Al Capone, ora i soldi si fanno con i soldi. E pensare che, da polentone quale sono, questi terroni mi sono sempre stati sulle palle. In occasione dei dieci anni di “onorato servizio” mi hanno anche affiliato alla Famiglia. Sembrava una cerimonia di iniziazione. Mi hanno costretto a indossare questo anello da Padrino che ho sempre odiato. Oro massiccio con una pietra violacea e uno stemma araldico. Che cafonata. E dire che una volta messo non sono più riuscito a levarlo, neanche col sapone. Mi ricorda i legami esistenti, e mi obbliga a non dimenticarli. La Famiglia non si lascia. Mai.
Ed è questo che mi è pesato di più, e mi ha convinto a scappare. A quasi settant’anni, chiuso in una camera a centinaia di chilometri da casa, in fuga. Gli ultimi anni li voglio vivere da uomo libero. Ma ho troppi segreti con me, ho visto troppe cose, sono stato testimone di troppe schifezze. Mi viene da ridere, un Clyde in fuga senza la sua Bonnie.
Quanto durerò? Non lo so, ma ero arrivato a provare disgusto di me stesso. Un semplice cassiere può seminare gentaglia che cerca le persone e le uccide per mestiere? Forse è il caso di fermarsi, e aspettare la fine qui, in un posto anonimo. In fondo, è meglio così. Piuttosto che farsi freddare mentre scappo in un vicolo cieco.
Passi davanti alla porta della mia camera.
Mi scolo le ultime gocce di Bourbon, e chiudo gli occhi.
E pensare che non ho mai sopportato gli spari.

di Gianluca Fiore

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Inserisco la moneta, premo il bottone. Caffè espresso. Le pareti sono bicolore e tra il verde tenue e il bianco si infila una impavida striscia blu. A lato del distributore automatico una bacheca tappezzata di avvisi e messaggi vari. Potrei appenderne uno anch’io, ci scriverei sopra “Mirco è morto, finalmente!”
Quella giornata di luglio iniziò, nei miei ricordi, con uno strofinaccio tra le mani. Alle due di pomeriggio suonai il campanello alla porta di Mirco. Abitava con la madre in un appartamento del terzo piano. Mi aprì, una figura minuta in canottiera bianca e pantaloncini corti. Usciamo, gli chiesi. Devo lavare i piatti, rispose. Aveva nove anni e io undici. Sbuffai, però decisi di aiutarlo. Mi accompagnò in cucina. Sotto il lavello c’era un catino rovesciato, vi salì e fece scorrere l’acqua aggiungendo un po’ di detersivo. Lavò e sciacquò le stoviglie e io le asciugai. Terminate le faccende domestiche scendemmo le scale due gradini alla volta, e poi, in strada, corremmo come se non avessimo un domani. Ai margini della boscaglia prendemmo il sentiero del Coniglio, lo chiamavamo così perché un sabato di maggio scorgemmo una lepre grigia attraversarlo, conduceva alla radura del Grande Menhir, un enorme masso trascinato fin lì da qualche ghiacciaio estinto.
Si fantasticava sul futuro. Il mio sogno era diventare musicista, con il flauto non ero male. Mirco mi rivelò il suo. Rimasi a bocca aperta. Fissai il terreno e quando mi voltai notai le lacrime. Parlava sul serio. Non lo dirò a nessuno, promisi.
Udimmo dei guaiti e delle risa. Ci avvicinammo con cautela. Vidi Pietro e Pinuccio, l’incubo di noi ragazzini, tredicenni dall’anima nera e nel DNA la voglia di fare del male. Bastonavano Botola, un piccolo randagio mite e affettuoso. Ci scagliammo contro di loro, al pari di antichi cavalieri senza macchia e paura. Mirco venne colpito subito alla testa e quasi svenne. Io fui più fortunato, presi solo calci e pugni. Me la cavai con dei lividi e la maglietta stracciata. A lui spaccarono un timpano. Era quasi ora di cena, supini sul prato, a pochi metri da Botola, seguivamo con lo sguardo le nuvole rossastre. Ci alzammo a fatica. Il povero cane non respirava più. Mirco piangendo si mise a scavare frenetico con le mani, per lui, disse. Lo seppellimmo lì, con il cuore morto, accanto al finto menhir. Quel giorno ci strappò dall’infanzia e legò le nostre vite come mai avremmo immaginato.
Sara esce dalla sala operatoria. I medici dicono che è andato tutto bene. È ancora sotto l’effetto dei farmaci, mi vede e sorride. Sorrido anch’io, il suo sogno è stato esaudito. Mi siedo sul bordo del letto, accarezzo i suoi capelli, lunghi, fini, sfioro con le dita l’invisibile apparecchio acustico, lo porta dal luglio di quell’estate di venti anni prima.

di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Daniela Landini

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Era accaduto tutto troppo in fretta: tante cose da fare, decisioni da prendere, non c’era stato il tempo di elaborare il dolore per la perdita della persona che più amava, anzi, aveva amato, doveva abituarsi a usare il passato.
Solo pochi giorni fa erano in montagna a camminare, la loro prima gita senza figli oramai grandi abbastanza per badare a loro stessi.
Un’escursione familiare, un percorso che avevano fatto parecchie volte, da soli, con gli amici, con i bambini, niente di pericoloso, dovevano solo stare un po’ attenti, perché in montagna nulla è mai dato per scontato.
Oltrepassata una forcella Giovanna si era girata a guardarlo, sorrideva, gli mostrò un prato punteggiato di fiori giù in basso, disse qualcosa che in quel momento lui non comprese.
“Cos’hai detto, ripeti, non ho capito”
“È là che voglio stare” rispose, poi si mise a scendere in fretta, come scendono i montanari saltando sui sentieri difficili, un piede qua e uno là.
Un ruzzolone, era inciampata in un sasso, oppure si era buttata giù?
Questo era il pensiero che l’angosciava. Lei era come un capriolo, saliva e scendeva con sicurezza da rocce e tratti impervi, una scalatrice, come aveva potuto cadere in quel punto e finire proprio nel prato? Rivedeva la scena in dettaglio al rallentatore e l’idea che si fosse buttata di proposito diventava quasi certezza, ma non l’avrebbe detto a nessuno, non avrebbe saputo spiegare il perché di questa sua percezione.
La cerimonia era stata bella, centinaia di persone erano intervenute e ora si aggiravano nella piazza chiacchierando a voce bassa. Aveva stretto tante mani, stordito dai fiori nella chiesa non aveva visto veramente nessuno. Gli sembrava di essere sospeso sopra una nuvola e guardando giù vedeva quella gente da estraneo, da spettatore, come se non lo riguardasse. Era vuoto, senza sentimenti, nessuna emozione. I ragazzi vicini a lui, pallidi, spaventati, gli dissero che sarebbero andati dagli zii.
Non ebbe il coraggio di dire: “no, questa sera stiamo insieme”. Avrebbe preferito averli accanto. Invece.
Entrò in casa, era solo. “Com’è potuto accadere?” si chiese per l’ennesima volta riandando a quel momento, rivide nella mente ogni fotogramma della scena, pensò a ogni parola detta durante il giorno, scoppiò a piangere.
Poi notò su di un tavolino d’angolo un mazzo di rose rosse, sedici. Le guardò incuriosito, da quanto tempo erano lì, era sicuro di non averle viste prima, ma forse non ci aveva fatto caso con il trambusto di quei giorni. Pensò: rose rosse, a un funerale, quasi appassite, assurdo. E perché sedici?
Ma, conosceva davvero sua moglie?
Nascosto sotto il vaso trovò un biglietto, lo lesse: “ti amo”

di Elda Caspani

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