Le ultime ore della notte schiarivano il cielo quando i due uomini arrivarono ai piedi della collina e nell’ombra delle grandi sculture. Imhotep, il più valente architetto e astronomo del paese e il gran sacerdote Vennofer, curatore del patrimonio reale si fermarono a guardare l’opera dedicata alla gloria di Ramses II, protettore dell’Egitto, eletto di Ra. Non era ancora terminata ma quel giorno verificavano la riuscita di una magia che avrebbe suscitato la meraviglia del Faraone. Secondo i calcoli dell’architetto all’alba la luce avrebbe illuminato le quattro statue scolpite all’interno del tempio, sulla parete del Santuario. Solo in due giorni all’anno era possibile: nella data di nascita del re e nel mese di Tybi, anniversario dell’incoronazione, giorno d’inizio delle inondazioni.
Entrarono e si sedettero su una pietra. Per l’emozione non sentivano il gelo della roccia e non sprecavano parole.
Quando i raggi del sole penetrarono dalla porta scavata nella montagna colpirono le statue di Amon-Ra e di Ramses, poi si allargarono su quella di Ra-Harakhti ma lasciarono sempre in ombra l’ultima, quella del dio della guerra Montu.
Le parole di Vennofer furono più fredde dell’aria del santuario:
– Come lo spiegherai al Faraone questo errore? Darà in pasto il tuo cuore ai coccodrilli.Hai poche lune per rimediare.Ti consiglio di farlo!
Non aggiunse altro. Lo lasciò lì, sulla roccia, sgomento.
Lo sconforto di Imhotep durò poco, poi nella mente si fece strada una soluzione. Era audace ma non aveva scelta: voleva conservare il posto e la vita. Radunò gli scultori e i tagliapietra più abili e veloci e promise loro un onorario principesco se avessero realizzato la sua idea.
Il giorno stabilito Ramses e il seguito vennero al tempio rupestre. Alla vista della magnifica costruzione bisbigli di eccitazione e meraviglia sorsero tra i dignitari, le donne, le guardie del re. Vennofer aveva il volto duro come la roccia. Il Faraone taceva.
Imhotep tremava.
All’alba i raggi di luce colorarono di rosa la terra del deserto, poi entrarono nella montagna, lambirono il dio del sole con la corona di piume, la testa di falco di Ra-Harakhtie abbracciarono il volto del divino Ramses. Lasciarono ancora in ombra la quarta statua, che non era più quella del dio della guerra ma di Ptah, dio dei trapassati, con la stretta barba e lo scettro.
L’architetto si fece coraggio e disse:
– Ptah, signore dell’oltretomba e amico delle tenebre non può essere toccato dalla luce – Ramses sorrise e mosse il bastone in segno di approvazione. Imhotep riprese a respirare.

di Angela Borghi, illustrazione di Marzia Nigro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Il Principe di Persia uscì dalla mia testa. A cavallo di un puledro, diretto verso il sole. Poi chiusero il sipario al teatro delle ombre. Mi pagarono per il ruolo da cupola e me andai.
Incrociai per strada il Gran Guignol, mancava poco alla mezzanotte, dovevo affrettarmi!
Era il 31 dicembre 1899, ero a Parigi. Ero l’uomo proiettile! Sparato verso gli astri, tra i fuochi dalla Cina, sarei stato l’ariete che buca il grande chapiteau del secolo! Indossavo un vestito aderente rosso fiammante con al centro una stella gialla e sulle spalle un mantello magico.
La gente ammutolì davanti a quella cannonata e mentre volavo sentivo solo il riso beffardo dell’impresario che mi aveva ingaggiato: Mefistofele!
Scommetto sia stata una sua diavoleria a sospendermi in aria. Per cento anni, di solitudine, immobile. Solo il mio mantello svolazzava e i miei occhi piangevano.
Cento lunghi anni.
Poi allo scoccare del 2000 iniziai una folle caduta a una velocità mai raggiunta da uomo volante. Qualcuno espresse un desiderio. Il mio era di salvarmi e più perdevo quota e più diventavo piccolo. L’impatto, tremendo, fu prima con una finestra (che si ruppe) poi con un portaritratti che cadde dal comodino ma non si infranse. Chi mi trovò rimase allibito: dove prima c’era una gallina, ora c’era il busto di un uomo vigoroso con un elmetto a forma di proiettile e la gallina in braccio: spennata.
Ma la curiosità non bastò per trattenermi. Fui scambiato con un videogioco a un mercatino dell’usato. Ricominciai a girovagare.
Mi pescò, con un sorriso, una ragazza a cui piacquero i miei baffi. E mi regalò a un amico pittore che passava le giornate nel suo atelier. Lui mi appese di fronte all’unico quadro non astratto di tutta quella galleria.
Feci amicizia con l’unico personaggio di quell’immenso dipinto che vedevo tutti i giorni, tutto il giorno: un povero soldato dell’esercito napoleonico, disegnato sconfitto e stravolto. Ci raccontammo le nostre vicissitudini. Lui e la sua campagna sconfinata, io e la mia gallina. Lui non aveva mai visto un circo, io una guerra.
Iniziammo una vita di soli racconti. I nostri e quelli dei ragazzi che si mettevano a parlare, certe volte appartati, dei loro segreti, ignari che noi li potessimo ascoltare.
Di loro non mi sorpresero le nuove tecnologie, sebbene stucchevoli. Ma l’impellente bisogno di guardare il cielo stellato. E quei giovani, che facevano sempre un gran baccano, un giorno colorarono la volta dell’atelier di blu. Ci aggiunsero dei puntini bianchi e si sdraiarono a terra, in silenzio. Io chiusi gli occhi e sognai di perforarlo quel soffitto. Mentre il mio compagno sognava di sciogliersi in un Kandinskij.

di Paolo Negri, illustrazione di Nicolò Piva

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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La salita alla baita non finiva mai. Le ruote della Panda 4×4, un modello di dieci anni fa noleggiata in aeroporto, tradivano una scarsa aderenza al terreno coperto da un sottile strato di ghiaccio. Lisa guardò il cellulare: poco campo. Anche il navigatore le era di scarso aiuto: non riconosceva il percorso, ma la voce, che la invitava a svoltare indietro appena possibile, le teneva compagnia. ”Speriamo di non rimanere a piedi in questo deserto bianco”. Pulì con la mano la condensa che si formava sul parabrezza e si piegò leggermente in avanti per vedere meglio la strada. Il paesaggio era magnifico e un po’ inquietante. La neve, scesa copiosa nei giorni precedenti, aveva coperto i rami dei pini che affollavano la vallata. Tutto era candido e fermo. Su una curva la macchina fece un rumore da ferrovecchio stanco di essere al mondo. “Non mi abbandonare proprio ora”. Ma la Panda non l’ascoltò. Lisa batté un pugno sul volante e girò con forza la chiave nel cruscotto. L’auto sussultò e poi si spense. Guardò di nuovo il cellulare: morto. Non poteva nemmeno avvisare Luca. Aspettò qualche minuto, immobile, le mani strette sul volante. Tirò un sospiro, aprì la portiera e scese dall’auto. Allacciò il piumino, infossò la testa nel cappuccio di pelo, mise la torcia in tasca e si avviò a piedi. Camminava a passo svelto per combattere il gelo che veniva dal terreno, le irrigidiva la punta dei piedi e saliva lungo la schiena. Un brivido la scosse, sfregò le mani per scaldarle e accese la pila. Il fascio di luce le diede sollievo. “Perché ho ceduto! Io odio la montagna!” Cosa avrebbe dato ora per essere su una spiaggia tropicale ad aspettare l’anno nuovo con le sue amiche! Sentì un rumore. Si voltò di scatto a scrutare il paesaggio intorno a lei. Trattenne il respiro. “Non è nulla, è la mia immaginazione, magari ci fosse qualcuno”. Riprese a camminare, l’orecchio teso, le gambe pesanti, aveva freddo. Dal cielo gonfio, scendevano leggeri fiocchi di neve, che sul terreno asciutto attaccavano e facevano scricchiolare gli scarponi. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé. I fiocchi, infittiti, creavano un muro attraversato dalla luce della torcia e si posavano sulle ciglia. Gli occhi di Lisa si velarono. Il sapore salato delle lacrime sulle labbra di nuovo le portavano la nostalgia delle spiagge e del mare. Era sola in tutto quel silenzio e non vedeva bene. Scivolò. Un colpo secco alla testa. Qualcosa di caldo le toccò le tempie. Forse una carezza di Luca. Doveva essere arrivata alla baita. Le sembrò di sentire la musica e il tepore del camino. Era contenta di essere lì. Il freddo era sparito. Sarebbe stato un romantico Capodanno. Chiuse gli occhi, mentre la neve si tingeva di rosso.

di Anna Rosa Confalonieri, fotografia di Leonardo Pigoli

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Qualcuno ha fatto la spia, come ai tempi del Kgb in Russia. Il Beppe Colombo l’altra sera tornando a casa è stato bloccato dai carabinieri, e gli è andata bene perché ha pagato la multa di 400 euro. Se gli avessero fatto l’alcol test era peggio. Suo cognato che abita di fronte al bar di Silvano, che quello spiritoso dell’RPK ha ribattezzato Il Bar dei Birla, è stato fermato alle tre di notte e portato in questura come un partigiano della brigata Garibaldi. Non gli hanno dato l’olio di ricino, ma due ceffoni sì. Lui non ha parlato.
– Sono andato da mia mamma che ha ottant’anni e ha preso il coronavirus – ma l’alibi ha funzionato solo quando ha tirato fuori un certificato medico compilato dal dottor Fuscari.
Silvano si è messo al riparo. Ha murato la porta di dietro, che adesso solo lui può aprire dal di dentro e chi non lo sa dall’esterno non la vede nemmeno. La saracinesca davanti in strada è abbassata, e lui il bar a mezzogiorno non lo apre. La vita inizia con l’aperitivo serale, quando gli altri chiudono e i cagasotto vanno a dormire, col coprifuoco, come se fossimo in guerra e arrivassero gli aerei a bombardare gli innocenti. E chi glielo dice a questi che la guerra era un’altra cosa?
Il clima si è fatto più teso ultimamente, e il dottor Fuscari si è messo a scrivere certificati a tutto spiano. Il televisore è spento e nessuno vuol vedere le partite di calcio perché il calcio senza pubblico è un topo morto che puzza.
Fabio Fabian, in questa ultima serata dell’anno, per sciogliere le tensioni, è salito sulla sedia e ha declamato una sua poesia in dialetto veneto.
A conclusione un coro di bravo bravo, al nostro poeta! accompagnato da un’alzata di boccali.
Giò Bassi ha preso la chitarra e Mimì ha cantato canzoni del vecchio west, così la serata ha preso quota. Un brindisi a Fabian, uno a Giò, un altro a Mimì, e il prossimo vedremo.
A mezzanotte la moglie di Silvano è entrata in sala con il cotechino e le lenticchie.
Il Beppe Colombo, che era arrivato in bici passando nei boschi, ha alzato il boccale per il brindisi di fine anno.
– Brindiamo al 21, che sarà senz’altro peggio del 20.
L’Anselmo ha scosso la testa.
– Ma cosa dici? Con il vaccino il terrorismo sulla gente non avrà più senso e le persone torneranno libere.
– Scemo, non hai capito che il Beppe scherza? – l’ha rimproverato l’Ettore Bignante, che poi ha alzato le braccia chiedendo il silenzio.
– Un attimo d’attenzione, prego, un attimo d’attenzione. Adesso consegnatemi tutti i vostri telefonini, smartphone e qualsiasi strumento che possa essere intercettato.
Li ha messi in una borsa dell’Esselunga ed è sparito su di sopra, poi è tornato distribuendo un foglio a tutti con su una lista di nomi.
– Ragazzi, ragazzi – di nuovo l’Ettore ha chiesto il silenzio.
– Al primo della lista ci penso io! L’operazione è questa: ognuno di noi ne fa fuori uno. Qualunque cosa accada noi non ci conosciamo.
– Che bello scherzo – ha detto l’Anselmo, ubriaco sul suo bicchiere di birra.
Nessuno gli ha risposto.
– Questo non è uno scherzo, scemo!

di Abramo Vane

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Mi capitò tempo fa di andare al Pronto Soccorso, mia moglie era caduta da una scala e si era rotta in vari punti. Era imbottita di antidolorifici e dormiva il sonno dei sofferenti e a me, seduto di fianco al suo letto, non restava che osservare la varia umanità che si alternava nello stanzone d’ospedale. Un movimento di lenzuola nel letto accanto attirò la mia attenzione: come una tartaruga dal suo carapace spuntò la testa di un ragazzino. Gli sorrisi con un ciao al quale rispose con un salve che esprimeva tutto il gap di età che ci divideva.
Andai fuori a fumare una sigaretta. Era mattino presto e nel cielo scorsi Venere, luminosissima. La mia buona stella, pensai, giornata fortunata! Al ritorno il letto del ragazzo-tartaruga era vuoto. Un’infermiera azzurra si avvicinò e mi chiese: “Dov’è andato il ragazzo? Lo aspettiamo per la TAC, glielo dica lei, è suo padre?” “No”, e un brivido mi corse lungo la schiena, io non avevo figli, purtroppo. Lui tornò trascinandosi appresso una piantana con la flebo. Visto in piedi notai che era molto magro, poveretto, chissà come mai era lì dentro.“Ti hanno cercato”, gli dissi “devi fare la TAC”. Non sembrò interessato alla cosa e con movenze lente, degne del suo status, si sdraiò, spossato. Prese il cellulare e fece vorticare il pollice sullo schermo come solo i ragazzi sanno fare. Poi con l’unico braccio libero tentò di sistemarsi i cuscini dietro la schiena. “Vuoi una mano?” “Sì, grazie”. “Ci mancherebbe”, sono tuo padre, pensai. Riprese il cellulare: “Ma chi è questo?”. Lo disse per farsi sentire da me? Forse. “Mi scrivono, ma io non li conosco”. Il mio sguardo doveva avere i punti interrogativi al posto delle pupille perché subito dopo aggiunse: “Ho perso la memoria. Ho battuto la testa e non mi ricordo più niente. Mi arrivano dei messaggi, e non so chi sono”. Rimasi instupidito, senza sapere cosa dire, ma l’infermiera azzurra che era tornata mi tolse dall’imbarazzo. Prima di andarsene, il ragazzo-tartaruga mi disse: “A dopo”. Quindi ci sarebbe stato un dopo, avevo il tempo di riordinare le idee e recuperare l’impasse. Ha perso la memoria? Non sa chi è? Mi balenò allora nella mente un pensiero spudorato. E se gli dicessi che sono suo padre? Che anche la mamma è caduta con lui e presto ce ne torneremo tutti e tre a casa? Ci occuperemmo di lui, lo accudiremmo e alla nostra morte erediterà la casa… e immerso nella mia allucinazione vidi con occhi nuovi rientrare il tartarughino: “Mio padre è venuto a prendermi, i medici dicono che sarà questione di qualche giorno, poi mi ricorderò”.
Assaporavo la sigaretta, e nel cielo terso dell’imbrunire brillava la stella della sera, ancora lei, Venere. Che illusione, pensai, Venere non è una stella!

di Ester Tognola

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APPUNTAMENTO CON LA PAURA *

Suspense deriva dal latino suspensum, “in sospeso”. E’ un ingrediente essenziale, nel giallo. Va tenuta viva durante lo svolgimento della trama. Bisogna agire sul ritmo, ma senza rinunciare alle parole per l’ambientazione, alla complessità psicologica, persino alla divagazione, con equilibrio.

Per mantenere lo stato di tensione emotiva, di inquietudine, possiamo ricorrere a espedienti. La minaccia di un’azione violenta o pericolosa. Descrivere avvenimenti che suscitano emozioni o esperienze emotive. Creare ostacoli al protagonista come scadenze di tempo o danni fisici che ne limitino l’azione e lo rendano vulnerabile (come il personaggio di Amnesia di J.C. Grangè). Saper dosare anticipazioni, digressioni, flash-back, dettagli all’apparenza insignificanti, situazioni insensate o casuali.

La suspense è potenziata dall’atmosfera che costruiamo intorno alla storia. Per questo ci serviamo di tutti i sensi a nostra disposizione, gli odori, i colori, i suoni e anche il cosiddetto sesto senso: ad esempio la sensazione di tragedia che avverte un personaggio, senza ragione. Descriviamo le percezioni sensoriali. L’ambientazione diventa fondamentale, pensiamo a luoghi indimenticabili come il treno bloccato dalla neve in Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie o l’Istituto psichiatrico su un’isola disabitata in L’Isola della paura di Dennis Lehane.

Qualche appunto sullo stile, fermo restando il concetto che ognuno ne troverà uno personale, che riflette il proprio modo di essere, anche sperimentando nuove strade. Lo stile è il modo in cui scegliamo di raccontare la storia ed è fatto di varie componenti: la lunghezza delle frasi, che può essere diversa in base alle azioni da descrivere, il lavoro sulle immagini piuttosto che sulle astrazioni, il linguaggio. Qui il discorso si allarga molto: due consigli generali. Per essere efficace il linguaggio deve essere coerente con l’ambientazione e con i personaggi, è intuitivo che non faremo parlare o pensare uno scaricatore di porto come un baronetto inglese (a meno di personaggi sotto mentite spoglie…) oppure che non useremo neologismi in un giallo storico. Forse è un consiglio banale, rilancio suggerendo, come già fatto per i luoghi della storia, di raccontare di ciò che si conosce e di cui si sanno usare le parole. Inutile ripetere che chi scrive impara a “maneggiare” il linguaggio e arricchisce il vocabolario anche con la lettura.

Consigli di lettura su questi argomenti: Quer pasticciaccio brutto di via merulana di Gadda e Dolores Claiborne di Stephen King entrambi per la scelta di linguaggi estremi ma aderenti ai personaggi.

* Agatha Christie  1961

Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.


continua l’11 gennaio 2024


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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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PAROLE GUIDA, trovate le vostre

Ispirazione, concentrazione, e poi metodo e meccanismi psicologici e di scrittura.  E intuizione, che è alla base forse di qualsiasi forma di vita. L’intuizione artistica è inoltre qualcosa di diverso, si muove nella fantasia, e fantasia, a parer mio, è un’altra parola guida.

E poi armonia e unità sono straordinarie. L’armonia della pagina, dei concetti, delle situazioni, delle descrizioni sorregge l’idea di unità. Ma, attenzione, ho detto a parer mio, perché ognuno troverà e si affezionerà a delle espressioni sue proprie che diventeranno davvero una guida originale. Io ho fatto un esempio personale, e tale resta. Il vero suggerimento è di valutare bene il peso delle parole che maturerete e che sentirete come guida. Ma come?

Pensate alla connessione che esse hanno con la vostra vita. Ciò che guida la scrittura guida anche la vita.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


continua il 30 dicembre

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Il suo nome era Mario, ma lo chiamavano Mariolino perché era gracile, trascorreva sempre le vacanze nella casa dei nonni.
Passava buona parte del tempo nel suo rifugio favorito, la soffitta, dove leggeva, e viveva idealmente nel Medio Evo. Si era dato il nome di Bartolomeo, come Bartolomeo Colleoni, il suo modello di cavaliere. Aveva visto una volta a Bergamo la statua equestre rivestita d’oro del condottiero e da allora si immedesimava in lui, inventava storie in cui combatteva e vinceva. Le scriveva e le leggeva al nonno, lui gli faceva da padre. Insieme passavano molte ore.
Il giardino dove giocava era più un bosco che altro, e lì avvenivano le scorrerie più cruente, lui come unico protagonista, oltre a un cane paziente che era, all’occorrenza, un destriero, il nemico, il resto del battaglione.
Il nonno gli aveva costruito un cavallo di legno, come lo usavano ai suoi i tempi, un bastone lungo da tenere in mezzo alle gambe con incollato la sagoma della faccia di un cavallo.
Quando fu più grandicello, costruì una torre di avvistamento in alto sulle acacie, giorni e giorni di tentativi per tenerle insieme, non erano gli alberi più adatti per sostenerla, cadde più volte ma la sua ostinazione nel ricostruirla era più forte del vento. Consumò mille chiodi, corde, martellò ferocemente le dita, ma la torre rimase lassù, ferma e quasi stabile, fino alla fine dell’estate.
Era il giorno del suo compleanno, nove anni. I nonni organizzarono una festicciola, non ci sarebbero stati ospiti, loro tre, la mamma, il destriero.
Scese dalla torre raggiante, aveva sconfitto la Repubblica di Venezia e tornava al castello felice e affamato.
Si fermò, un’auto era parcheggiata nel cortile, sua madre. Ma come, era già arrivata a prenderlo, e la festa?
Da fuori sentì la voce alta della mamma e quella del nonno che urlava, la nonna cercava di mettere pace.
Il nonno accusava la figlia di ricevere in casa uomini.
Uomini? Sì, si era dimenticato della condizione in cui vivevano.
Sapeva che di notte c’era un andirivieni di gente in casa, li sentiva, ma non poteva uscire dalla sua camera. Era un segreto.
Avrebbe preferito vivere con i nonni, qui era libero, felice, non aveva paura, si sentiva protetto, ma non poteva lasciare la mamma sola, a modo suo aveva bisogno di lui.
Urlavano, oh come urlavano.
Tre mesi di felicità cancellati in un solo momento: la realtà. Era stato felice, tanto felice, troppo felice.
Riprese il cavallo e cominciò a correre, galoppare, si fermò sotto il piedestallo del condottiero e guardò su, non era un vero piedestallo ma lo era per lui. Si arrampicò in fretta, dall’alto scorse il nemico che avanzava nel bosco, urlò: “caricaaaa” e con un balzo gli andò incontro

di Elda Caspani, disegno di George Crowhurst

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