Un podcast a cura di Jacopo Bravo


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Caro papà, voglio vivere, o morire, combattendo… come tuo nonno in Africa a El Alamein al grido di Folgore, come i partigiani fucilati dai nazisti, come i rivoluzionari di Zapata per un tozzo di giustizia, come i contadini russi lanciati senza fucile contro il nemico a Stalingrado, come gli spartani alle Termopili, come Giulio Cesare tradito, come tutti gli uomini che avevano casacche diverse, ideali diversi, patrie diverse, come tutti gli uomini che mi hanno preceduto nella storia dell’umanità, voglio vivere e morire da uomo libero.
Sono passato per regioni gialle, arancioni e rosse. Ho attraversato confini, e ti assicuro che non tutte le terre sono omologate, come dicono i mass media. Dove mi trovo adesso la mascherina non la mette nessuno, e se qualcuno mi ordinerà di metterla ho un coltello nello zainetto. Giorgio, il mio grande amico, è con me. Abbiamo deciso insieme, dopo un anno di video chiamate. C’è anche Anna, la sua ragazza. Invece Laura, la Lauretta che ti era tanto simpatica, così rispettosa dei genitori del suo ragazzo, lei non ce l’ha fatta, aveva le lezioni da seguire per l’esame di maturità. Non so come andrà a finire, una cosa è certa: l’aria è fresca, e questo mi basta. Il destino è già scritto, e l’aria è fresca.
Caro papà, ti lascio ai tuoi telegiornali, alle attenzioni per la famiglia, allo smart working, ai decreti ministeriali, ai virologi saputelli, ai giornalisti leccapiedi, ai politici in cerca di voti. Sappi che ti voglio bene, la tua voce mi accompagna sempre, e le tue parole (ce la faremo, speriamo speriamo, il vaccino ci salverà…) mi spronano e danno coraggio. Le ho qui nelle orecchie. Non tornerò indietro a risentirle dal vero. Ti chiedo solo un favore. Non parlare più di guerra, non dire che stiamo vivendo una guerra. A Dresda in soli tre giorni sono morti innocenti tre volte tanto quelli di un anno intero in Italia per presunto covid19. E poi tutti gli altri sessanta milioni, fra dolori e atrocità.
Ti ho apprezzato l’ultima sera quando ti sei commosso ricordando il tuo collega morto d’infarto perché all’ospedale non c’era posto, e il figlioletto della vicina che non vuole più vedere gli amichetti e vive con lo smartphone in mano, e tutta quella gente depressa, quei suicidi che nessuno racconta, quelle storie di miseria e disperazione, di violenza famigliare. Quando hai espresso il dubbio che il nostro amministratore di condominio s’è preso la leucemia a causa dello stato di debolezza che il terrore del virus gli ha procurato, io avevo già un piede sulla porta per uscire, e mi sono fermato. Tu però hai acceso la tele saltando da un talk show all’altro. In quel momento ho risentito la voce virile del padre di quando da bambino mi dovevano operare alle tonsille, Coraggio figliolo, non temere… e così la tua mano mi ha sospinto fuori dall’uscio, verso la vita. Ho raggiunto gli amici.
Vogliamo vivere!

di Abramo Vane

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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“Mancano le lamine di abete rosso”, la matita di Luigi si blocca a metà della conferma d’ordine. Il ragazzo delle consegne sospira “la tempesta Vaia ha spazzato via decine di ettari di bosco in Val di Fiemme. Ci vorranno settimane perché la legna arrivi”. Ma Luigi non lo ascolta più.
Izumi era entrata nella bottega il giorno prima. In città Luigi era noto per l’estrema cura dedicata a ogni strumento, paragonabile solo al suo carattere schivo. Era un uomo dal piglio deciso, in particolare quando l’estro creativo lo invadeva e una scintilla di pazzia gli balenava negli occhi. Trasalì nel vedere i tratti esotici e le labbra un po’ imbronciate della giovane. Dalla borsa di cuoio aveva sfilato alcuni spartiti e aveva eseguito l’Ave Maria di Schubert, con un suono trasparente, quasi liquido. Izumi gli aveva chiesto di realizzare un violino su misura per lei e si era proposta di partecipare per il laboratorio di Luigi al Concorso Triennale Internazionale degli Strumenti ad Arco “Antonio Stradivari”, l’Olimpiade della Liuteria. Luigi accettò, quel liquido si era fatto strada nella sua naturale diffidenza.
Data la scarsità di abete rosso,usato per i piani armonici, sceglie un legno più leggero, adatto a una ragazza esile come Izumi e studia antiche ricette di vernici. Solo due mesi e la competizione inizierà. Lavora duramente e, a una settimana dalla gara, l’opera è terminata.
Di Izumi, però, nessuna traccia. Dal loro primo incontro, non l’ha più rivista. La cerca al conservatorio, ma non risulta tra le iscritte. Prova allora nella biblioteca della scuola e consulta gli annuari dei diplomati. Ed ecco il suo il volto comparire tra le pagine consunte. Sotto la foto scorge incredulo l’anno dello scatto, 1978. Scopre poi che la ragazza era rimasta vittima di un incidente d’auto la notte precedente al concorso di quell’anno, a cui avrebbe dovuto partecipare.
La sera del concerto è arrivata, il salone si popola di abiti da sera scintillanti. Luigi ha un sussulto quando le note dell’Ave Maria di Schubert fendono la platea, e al posto della musicista ingaggiata all’ultimo, appare Izumi. La pelle candida, gli occhi socchiusi, la testa reclinata sulla mentoniera. Per tutta la durata della canzone lei è lì, dopo tanto tempo, avvolta dalle luci del palco. La sua voce danza nell’aria, libera, levigata in ogni dettaglio dalla lima di Luigi. Poi, l’ultimo suono si spegne, e nel locale riecheggia il tonfo del violino, privato del suo sostegno.

di Olga Riva Rovaglio

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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I GENERI, senza problemi

Non penso che i gialli vadano scritti in un certo modo, con determinate caratteristiche o strutture, e le storie d’amore in un altro, e quelle d’introspezione in altro ancora. Nessuno schema, al più qualche indicazione. La storia viene fuori per conto suo, con lo stile adatto e la sua struttura. Con il nostro modo di essere. Lo studio degli autori e la storia della letteratura ci importano fino a un certo punto. Un’opera piace o non piace. Non è il contenitore, ovvero il genere, ad attirarmi, ma il contenuto, ciò che sarò in grado di metterci dentro, al di là del tipo di storia.

Forse qualcuno ha preferenze. Riesce meglio in questo piuttosto che in quell’altro, i suoi interessi sono precisi. Va bene, ci mancherebbe. Anzi. L’unica cosa davvero importante è avere qualcosa che ha bisogno di venir fuori, di esplodere. Se non lo facciamo il rischio è che la scrittura, invece di essere per noi una forza, diviene un problema.

So di essere inattuale, nel momento in cui oggi i generi dominano il mercato, per cui esistono i gialli, il fantasy, l’introspettivo eccetera, ognuno per conto proprio. Leggo un po’ il tentativo, conscio o inconscio che sia, di uccidere la letteratura, che è la più vera e autentica forma di comunicazione. Scrivo perciò di quello che mi piace e, aldilà della storia di genere, la mia visione della vita, il mio io che ha trovato risposte e che è pronto a cambiare ancora.

Uno scrittore è in grado di scrivere di qualunque argomento, di qualunque genere. È la formazione che conta. Gli schemi non servono, distolgono la mente. La libertà della mente contiene l’originalità dello stile.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


Continua il 2 dicembre


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Lo zoo è il parco preferito da Tony, mio figlio, ha dieci anni, oggi festeggiamo il suo compleanno con la giornata degli animali. Ogni anno visitiamo uno zoo diverso, questo è il terzo. Ha deciso che da grande farà il veterinario, vuole curare tutti gli animali feriti. La giornata è ideale: sole, cielo terso e leggera brezza.
Camminiamo lungo un sentiero che, secondo la mappa, ci porterà al lago degli ippopotami. E’ la prima volta che li vediamo. Ci raggiungono due ragazzi che corrono spaventati e urlano che è scappata la tigre e ha sbranato un custode. Corriamo anche noi verso l’uscita, mi preoccupo per Tony. Sbagliamo strada e arriviamo di fronte alla gabbia vuota. La situazione è spettrale, il corpo di un custode dello zoo giace martoriato, quello della tigre è poco distante, abbattuto da un sonnifero sparato da un altro custode che al nostro arrivo sussulta, punta contro il fucile e intima di girare al largo. Ha lo sguardo fisso su un’ascia per terra accanto alla gabbia. Non sanno se è scappata qualche altra belva. Andiamo in un capanno lì vicino e chiudiamo le porte, con noi ci sono i gestori e altri visitatori spaventati. Dopo due ore arriva la buona notizia, possiamo uscire dallo zoo e tornare a casa. Recuperiamo i nostri zaini, ripassiamo davanti alla gabbia della tigre e Tony mi dice… Guarda mamma, c’è una lente di ingrandimento su quell’albero, per cui avviso subito un responsabile.
Fuori dello zoo decidiamo di fermarci in una pizzeria, è stata una giornata pesante, partita per esplorare un parco e finita con il morto. Tony è molto eccitato, non vede l’ora di raccontare tutto ai compagni di scuola, invece io non vedo l’ora di andare a dormire. Il giorno dopo leggo sul Corriere che un custode dello zoo ha confessato l’omicidio. Il resoconto è dettagliato perché lo ha raccontato lui stesso. Ha legato un’ascia a un filo di paglia sopra la gabbia, poi ha posizionato una lente di ingrandimento su un ramo alto della quercia accanto. Ha aspettato mezzogiorno, nascosto fra le fronde dell’albero. A quell’ora il sole è alla massima altezza, il suo raggio attraverso la lente ha bruciato il filo di paglia a cui era legata l’ascia che ha tagliato la corda che assicurava la chiusura della gabbia della tigre. Il collega non ha neanche sentito avvicinarsi l’animale, ed è stato azzannato. Voleva ucciderlo perché era l’amante della moglie, e aveva studiato per mesi la posizione del sole. Un delitto perfetto.
Quando è tornato a casa ha trovato un biglietto della moglie che era scappata con un altro uomo.

di Laura De Filippo

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Lo chiamavano Nuvolari perché al volante era un asso.
Gli avevano cucito addosso quel soprannome da un momento all’altro, però gli piaceva, sapeva di cielo e di sogni.
Ironia del destino, guidava un’Alfa rossa come il grande Tazio. Se c’era qualcosa di cui non era a corto erano proprio i sogni; al contrario i soldi non bastavano mai.
Campava con un misero impiego da meccanico, eppure nessuno meglio di lui sapeva mettere a punto un motore.
Era successo anche con il quattro cilindri boxer di Corsaiola, la sua Alfa, capitata un pomeriggio sul ponte dell’officina.
Millesette, sedici valvole, centotrentasette cavalli, fu amore appena alzato il cofano.
Da quelle parti bazzicavano certi tipi loschi che organizzavano corse clandestine di automobili; aveva bisogno di soldi per mettere le ali ai suoi sogni e quella era la sua occasione.
Ben presto scoprì di avere talento per la velocità e conobbe l’ebbrezza della vittoria.
Di trionfo in trionfo la posta in palio cresceva, gli avversari si facevano più agguerriti e lui sempre un soffio più veloce di loro.
Decise di correre un’ultima volta, poi via per sempre in qualche posto esotico.
Un giro completo del Grande Raccordo Anulare in notturna sarebbe stata la sua ultima gara.
Partenza all’una da via della Magliana e ritorno, per il primo al traguardo un cachet da cento milioni di lire.
L’esplosione di due grossi petardi e le macchine schizzarono oltre la linea di partenza.
I motori ruggivano, affondò sul pedale giusto prima della rampa d’ingresso del GRA e si portò in testa.
Le auto si allargarono fra le corsie, il ritmo di gara scandito dallo slalom nel traffico della notte; lui al comando, gli altri all’inseguimento.
Casal Lumbroso, Aurelia, Montespaccato, nel retrovisore guizzavano i lampeggianti delle pantere: quella sera si giocava a guardie e ladri.
Boccea, Casal del Marmo, Trionfale, i fari degli inseguitori non mollavano, ma non riuscivano ad avvicinarsi.
Non gli bastava vincere, era la sua ultima gara e doveva essere un’apoteosi.
Settebagni, Bufalotta, Nomentana, mille pensieri in testa, persino quell’ex pilota che raccontava di vedere sempre una donna in abito scuro sul sedile accanto superati i duecento all’ora.
Diceva che era a causa di certe endorfine che produceva il cervello sotto stress. Schiacciò a tavoletta per lasciarsi tutti alle spalle.
Non si era mai spinto a tanto; l’anteriore sinistra non resse, il mozzo saltò e la macchina entrò in testacoda. La Donna fece scivolare le spalline del vestito e lo tirò a sé.

d Daniele Bin, illustrazione di Lucia Casavola

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Io sono il Nero. Le dita sporche di terra stringono la testa del cavallo. Osservo il Bianco. Occhi scuri come la madre, poco più alto di uno stocco di granturco ai primi di giugno. Sandy, dodici anni, mia nipote. Giochiamo a un tavolo del pub di Bud, sulla End Street. Il televisore è sintonizzato su un nuovo canale che trasmette notizie 24 ore su 24. Notizie dall’Iraq. Stiamo vincendo.
Se avanzo in C7, in due mosse sarà scacco matto. Lascio la presa, sposto un pedone in A4, che la partita duri più a lungo.
Sulla strada passa un carro funebre, altre auto lo seguono, tutte nere, tutte di grossa cilindrata. So di chi si tratta: John Mann. Un’onesta carriera di compositore a Hollywood e il desiderio di essere inumato accanto al fratello, morto di cancro alla stessa età di Sandy, nel ’49. Si chiamava Robert, una testa troppo grande per quel corpo magro, ti fissava sempre sorridente con i suoi occhi da albino e suonava il banjo. E per noi, che eravamo giovani in quegli anni, era conosciuto come il Re Marziano. Quel soprannome gli piaceva, e se era stato coniato per offendere, perse in breve tempo tale accezione negativa.
Regina in D6. Mi mette in difficoltà la piccola.
Ricordo quando i fratelli entrarono nell’emporio di Jack Prest, entrambi con un strumento a tracolla. Robert impilò sul bancone una dozzina di monete da un centesimo, ordinò una gazzosa, o “gaazzosaa” come la pronunciava lui, in quel modo tutto suo di prolungare la vocale “a”.
Jack gli restituì il denaro. “Oggi offro io”, disse. La reazione del ragazzo fu incredibile. Si scostò dal bancone spingendosi con le braccia, compì una mezza giravolta e al contempo imbracciò il banjo. Gli occhi grigi si illuminarono, ammiccò al fratello, che, sapendo cosa stava per accadere, era già pronto con la chitarra.
L’ambiente si riempì di musica. Accordi su accordi, note su note. Robert toccava e pizzicava le corde a una velocità impressionante con la stessa competenza di un professionista. John stentava a stargli dietro con la sua Fender. Il Re Marziano, che a fatica avrebbe scritto il suo nome su un foglio di carta, si rivelò un musicista fenomenale.
Torre in D2. Difesa a oltranza.
Il povero Robert non entrò più nel locale di Prest, né camminò per le strade polverose di Given. I medici non gli allungarono la vita, come era solito fare lui con le “a”.
Molti anni più tardi, John Mann inserì quello stesso brano nel film Deliverance*.
«Scacco Matto!» Sandy mi coglie di sorpresa. Quel viso pieno di lentiggini mi guarda compiaciuto. Eh già. Il mio pezzo più importante non ha vie di uscita.
Sconfitto, perché distratto da un altro Re.


*Un Tranquillo Weekend Di Paura.

di Zoni Gian Paolo, illustrazione di Mauro Speri

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“Peggio di così non poteva andare” disse il capobarca sistemandosi sullo scoglio per riprendere fiato, aveva perso tutto: la barca e la merce. Anni di fatiche per crearsi un piccolo benessere, era sparito in quella strana notte, gli era rimasta la vita, ma in quel momento non sapeva se esserne contento o meno. Dopo essersi accostati alla motonave, trasbordato il carico e pagato la merce, un’operazione facilitata dal mare calmo, avevano ripreso la via del ritorno. Erano a poche miglia dalla costa, il faro ben visibile, erano in tre, tutti esperti di quel tratto di costa insidiosa, ma era successo qualcosa che aveva sconvolto i loro piani.
Erano certi che fosse andato tutto bene, poi, all’improvviso, le onde presero ad arricciarsi, i mulinelli a gonfiarsi, la corrente diventò quasi una tromba marina, sollevò la barca nel vortice e la scagliò sopra quelle schegge di rocce conficcate in mare che conoscevano ed evitavano sempre con cura: la barca fu tagliata a metà, il carico scivolò in mare e loro nuotarono nell’acqua gelida per salvarsi la vita.
Il mare non è mai buono, prima o poi te la fa, per quello ora erano lì, su quello sperone di roccia a due miglia dal faro e quattro dalla costa, la stessa roccia che a fine Ottocento era stata scelta per costruirvi il faro, e dopo una mareggiata che aveva affondato la nave e ucciso gli operai addetti alla costruzione, il progetto fu abbandonato e chiamarono quella zona “punta maledetta”. Erano in buone condizioni. Qualche ammaccatura, ma non avevano subito danni. La marea stava scendendo e metteva a nudo le punte delle rocce emergenti, fra quelle videro qualche oggetto sbalzato fuori dalla barca, li recuperarono, potevano servire.
La luna piena li guidava, li raggiunsero e li portarono su quella che era stata la base abbandonata del faro: bottiglie con lacqua, scatole galleggianti sparsi qua e là. Poi si stesero sulla piattaforma immersi nei propri pensieri. Era la terza volta che caricavano merce di contrabbando, una vita da persone oneste fino a quando erano stati tentati e si erano detti “perché no?”, molti lo fanno, facciamolo anche noi. Era andata male. Come tornare a terra? Ondate lunghe si precipitavano sugli scogli. La marea stava salendo e il linguaggio del mare si faceva più possente e fragoroso. Pensarono alle famiglie, agli amici, come giustificare quel naufragio? Non c’era un motivo per trovarsi in mare di notte in quella zona. Tutti avrebbero capito che avevano fatto del contrabbando, la vergogna li travolse.
Il rumore di un elicottero li svegliò, il sole era già alto, sventolarono le magliette, furono visti, gli fecero cenno che sarebbero tornati a prenderli. Giurarono di non parlare del carico, era in fondo al mare, avevano pagato per la loro stupidità, avrebbero detto che erano usciti a pescare, improbabile ma non impossibile.
Erano vivi, ripartivano da zero, la vita continuava.

di Elda Caspani

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Mi chiedo quali parole userai,

con che tono me le dirai,

se avrai voglia di ascoltare,

anche le mie parole,

senza sbirciare sull’orologio,

nascondendo a malapena il tuo disagio.

Ci sarà le tele accesa,

e un film scorrerà lontano

e i miei occhi si poseranno

sui tuoi libri sul ripiano,

avrei voluto leggerne qualcuno

per avere un’altra cosa in comune

o solo così per informazione.

“Non è razionale, viviamolo senza guardare lontano

Viviamolo e lasciamo che vada,

tanto prima  o poi scolorirà.

Prendiamolo così com’è senza fare progetti

e d’altra parte che progetti vuoi avere,

così dissimili dai miei”

Avrai gli occhi duri, non ammetterai repliche,

mi dirai che era inevitabile e ti si addolciranno,

per irrigidirsi di nuovo quando ti accorgerai

che non vorrò capire, non vorrò accettare.

E mi disprezzerai per la mia cocciutaggine,

una mano di vernice non toglie la ruggine.

Mi chiedo quali parole userai

con che tono me le dirai,

e se avrai voglia di ascoltare

anche le mie parole.

di Mauro Speri

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LA STRUTTURA, una piccola cattedrale

Lo stile vale molto, la struttura altrettanto. Qualcuno l’ha già in mente fin dall’inizio, qualcun altro la costruisce procedendo. In qualsiasi caso la narrazione si arricchisce di particolari, di personaggi, di descrizioni… e tutto guarda alla struttura che sorregge il racconto. L’abbiamo sempre in mente. Come per lo stile passiamo attraverso imperfezioni. Rimedieremo, di volta in volta.

So che in tanti corsi di scrittura si esaminano le strutture di opere o il modo di portare avanti la narrazione di alcuni autori. Bene, a molti piacerebbe avere delle caselline da riempire.

Ricordatevi che non esistono strutture predefinite.  Una casa, o addirittura una piccola cattedrale, la costruiamo noi.

È il contenuto, lo sviluppo della storia a portarci in modo naturale a una certa struttura. Stile, struttura e contenuto s’intrecciano e procedono insieme.

È il metodo più efficace, non ci sono capitoli a sé stanti. Oggi vediamo lo stile, domani la struttura, e poi la grammatica e così via. Studiamo il tale scrittore, e poi i generi e il trasformarsi della lingua. No. Tutto procede di pari passo. Si parte dalla pagina bianca e si sperimenta. Non ci sono prima la teoria e lo studio e poi la pratica e la scrittura. Cerchiamo il nostro stile, la struttura più idonea, ci informiamo e ci aggiorniamo, studiamo e osserviamo, e allo stesso tempo coltiviamo l’umiltà, e il senso del distacco, e tutte quelle qualità che scopriremo in noi.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


Continua il 25 novembre


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