Robert D si voltò. Nessuno lo osservava. La stanza del museo era vuota e nell’incavo del muro una scalinata portava al piano inferiore. Ritornò a fissare quella fotografia appesa al muro: un uomo di spalle percorreva un viale in un parco.
Cosa lo attraeva di quello scatto? Quali particolari lo rendevano così famigliare? La camminata nella solitudine? La bellezza del parco? E se al posto degli alberi slanciati ci fossero state delle case colorate?
La testa china verso il basso era indizio, ricerca di qualche pensiero, impronta lasciata sulle foglie. E allontanava sempre più l’eventualità di uno slancio, una furbizia improvvisa, un movimento tale da smascherare chi lo osservava.
Sapeva il fotografo di chi era quel corpo celato da vestiti da viandante?
E sequestrato quel momento, cos’era successo in seguito?
Dite che ci sia un ritrovo verso cui siano dirette tutte le persone ritratte solitarie in cammino?
Oltrepassato il muro, dov’è appesa l’opera, c’è forse ad attenderli una partita a carte in compagnia?
Robert D uscì dalla mostra e si incamminò tenendo d’occhio le domande.
Giunse in un viale in terra battuta, immerso nel verso, con grandi alberi e fitti cespugli. Lo percorse con attenzione, tendendo le orecchie a ogni rumore e voltandosi in prossimità di una curva.
Ritenne il luogo perfetto. Sedette su una panchina e aspettò un individuo camminante.
Nessuno passò, tranne gli istanti che senza mai fermarsi continuavano a fare il giro del parco.
Gli attimi non lo potevano osservare, ma solo attraversare.
Allora estrasse la macchina fotografica, la poggiò su una balaustra e mise un autoscatto tanto lungo da poter percorrere con tutta calma il viale. (È una splendida illusione quella di raggiungere il tempo).
Vedendosi di spalle nel piccolo schermo della sua reflex, pensò che era esaminato da se medesimo dunque osservatore e osservato. Eppure c’era qualcosa di se stesso che gli era sfuggito via.
Robert D concluse: “Se catturo un soggetto solo, faccio in modo che non lo sia più? La compagnia che gli dono non è forse un’effimera preghiera da voyeur? Lui cammina e sparisce. Io stampo un suo doppio che passerà di sguardo in sguardo su una strada di pellicola. Se si fosse girato, nell’attimo dello scatto, tutto sarebbe cambiato. Ci saremmo incontrati. Quanto mi piacerebbe fotografare un viandante che, voltandosi, mostrasse il mio volto, il mio io.”

di Paolo Negri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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A scuola lo chiamavamo Iena ridens. Se ne stava all’ultimo banco, capelli attorcigliati, denti verdi, orecchie e unghie sporche. Puzzava già di par suo e in più faceva partire loffie incredibili, per le quali veniva anche chiamato il loffione, e di soprannomi ne aveva un’infinità, da sorcio in avanti, e ve li lascio immaginare… Aveva un cognome che proprio non ricordo, finiva per u, ma per noi era solo Iena ridens e dicevamo… che cazzo ha da ridere sempre. Il primo mese nei corridoi non si parlava d’altro, poi fu dimenticato, là in fondo alla classe, e anche i professori, dopo qualche interrogazione nella quale scoprirono che era intelligentissimo e imparava solo stando seduto ad ascoltare, preferirono lasciarlo nel suo fetore, lontano. Solo la nuova professoressa di scienze, una terrona con i denti all’infuori e le gambe storte, lo interrogava, e anzi finì che interrogava solo lui, perché i due se la intendevano in quella materia, e lui era veramente un mostro e ne sapeva almeno quanto lei. Una domenica in primavera feci una passeggiata a Milano con la mia ragazza e al parco li vidi insieme, seduti su una panchina, mano nella mano. Non ci credevo, e siccome ero un adolescente pronto a qualsiasi scherzo per ridere degli altri incominciai a tramare, e presi informazioni sulla prof, ma quando scoprii che in un solo giorno aveva perso i genitori e l’unico fratello in un incendio, mi diedi del coglione e per espiare scrissi una poesia intitolata Cuori solitari che si incontrano, o qualcosa del genere, e non dissi mai a nessuno quello che avevo visto, nel terrore che la notizia finisse sui giornali, con titoli del tipo professoressa quarantenne aspetta un bimbo da alunno minorenne. All’inizio dell’anno successivo né l’una né l’altro si presentarono a scuola, e in quei giorni la polizia era sempre in presidenza, e un giorno la notizia finì addirittura in televisione, perché il sospetto era che il corpo di donna trovato in un bosco senza la testa fosse quello della professoressa di scienze. Iena ridens intanto era tornato a vivere al paese, fra pecore e capre, e non ha mai saputo, a oggi, di condividere il suo atroce segreto con me.

di Riccardo Ventolin, illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Lisa è una bambina curiosa, sempre intenta a fare qualcosa. Quel giorno si stava annoiando, era irrequieta. Decisi di portarla al parco per distrarla.
Abitavamo a metà collina e in basso, oltre la piazza, c’era il parco. Scendevamo chiacchierando, poi Lisa si divincolò e prese a correre. Era felice, non c’era in giro nessuno, non c’erano pericoli.
All’improvviso tutto cambiò: giù nella piazza un’auto l’attraversò veloce sgommando inseguita da due auto dei carabinieri.
Dissi a Lisa: “fermati”. Ma lei si girò e impertinente, da monella qual era, fece con le mani uno sberleffo. Le auto si fermarono con uno stridio di freni e dall’auto scese velocissimo un uomo e cominciò a correre verso di noi per sfuggire agli inseguitori. Dietro i carabinieri presero a rincorrerlo.
L’intenzione dell’uomo parve subito evidente: raggiungere la bambina e prenderla in ostaggio, lei andava spensierata nella sua direzione. Urlai con voce autoritaria “Lisa fermati”. Si fermò, si voltò, mi guardò incerta, quella voce non la conosceva e la mia faccia era terribile, non sorridevo più.
L’uomo continuava a correre e anche i carabinieri, ma la strada in salita rendeva più arduo il farlo.
Accelerai il passo per raggiungere mia figlia: parve che tutto si svolgesse al rallentatore. Rividi il giorno in cui nacque, un parto difficile che per poco non mi uccise, allora avevo temuto sarebbe cresciuta senza di me; mio marito era alla ricerca disperata di una medicina speciale per far cessare l’emorragia e giunse poi in elicottero; la lunga convalescenza, ora poteva finire tutto, Lisa presa in ostaggio dal delinquente, cosa le sarebbe accaduto, l’avrebbe portata via, l’avrebbe uccisa?
Scendevo con un passo veloce cercando di non spaventarla, Lisa era ferma, mi guardò, intuì che qualcosa stava accadendo, decise di tornare da me.
L’uomo aveva rallentato l’andatura, la salita era ripida. Dietro di lui il maresciallo tolse dalla fondina la pistola e gli ordinò di fermarsi.
Meno di dieci metri lo separavano da Lisa.
L’uomo si guardò attorno in cerca di una nuova via di fuga, la salita, più erta, gli impediva di accelerare la corsa, si fermò.
Raggiunsi mia figlia e la strinsi a me.
Il maresciallo pallidissimo, grondante sudore e paura, acciuffò l’uomo, e mentre lo ammanettava ci guardammo negli occhi per un istante lungo una vita e ci dicemmo tutto quello che le parole non avrebbero potuto dire. Mi fece un cenno di saluto.
Baciai Lisa, mentre tremante sentivo che le gambe faticavano a sorreggermi.
L’uomo disse qualcosa di offensivo ridendo sguaiatamente, poi sparì circondato dagli agenti.

di Elda Caspani, illustrazione di Giorgio Carro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


Cerchiamo il modo, e non abbiamo tempo,

abbandonandoci nell’auto-commiserazione,

per dare un nuovo volto

alla nostra vita priva di soddisfazione.

Cerchiamo il mezzo, ma non abbiamo idea

scostando le tende per vedere nel futuro

per trovare una nuova via

nel nostro cammino insicuro.

Cerchiamo il fine e non abbiamo scelta

spegnendo le candeline ad una ad una

per ritrovare il sorriso di una volta

dopo la tristezza che chiamiamo sfortuna.

Cerchiamo il senso ma non abbiamo voglia

masticando amaro a ogni risveglio

dell’odio che brucia come sterpaglia

che non sappiamo di che è padre e di chi è figlio.

Cerchiamo il vero ma non abbiamo sete

erigendo pareti di pietra grezza

per comprendere le azioni errate

compiute in leggerezza.

Cerchiamo il mistero, ma non abbiamo fede

scomparendo come ombre nel buio

e della tristezza prede

e di noi che non abbiamo pelle ma cuoio.

Cerchiamo il tempo ma non abbiamo più ore

rotolando da un giorno all’altro

per avere ancora un’altra occasione

ora che abbiamo capito, ora che sono pronto.

di Osvaldo Urso

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I giorni di un’agenda sembrano tutti uguali. Hanno un incedere lento e inesorabile. Nascono, vivono e passano. Un disegnatore e un narratore sono affascinati dalla circolarità che creano e vorrebbero raccontarne la storia, ma quando si avvicinano si accorgono che messi uno dopo l’altro i giorni non formano cerchi perfetti. Sono imprevedibili, diversi, in realtà non ce n’è uno uguale. A ben guardare, sono un po’ bislunghi. E ora tutto è più chiaro. Così è la vita e così è l’agenda del giocatore di rugby, fatta di appuntamenti e di partite, il Sei nazioni, il Tri Nations e il Mondiale ogni quattro anni, e ognuno ha la sua da annotare, lì accanto. E i giorni passano, lenti e inesorabili, e alla fine dell’anno sarà difficile gettare l’agenda.. Il piccolo giocatore ha sognato di diventare un campione e il campione di essere come quel piccolo, i valori restano, e questo è un pensiero bislungo. Ogni giocatore ha un suo ruolo e ogni ruolo ha il suo carattere, e questo è un altro pensiero bislungo. E poi ci sono le immagini, come quel cuore, scoperto, che corre per il campo, accanto a una palla ovale, e poi, dopo la doccia, il giocatore indossa la giacca e quel cuore ce l’ha ancora in mano. Alle spalle c’è un amico, e forse adesso l’amico chiede sostegno, e domani invece sarà lui a prendere, prima che cada, quella palla in mano. Ha la forma della vita, dei giorni imprevedibili, diversi l’uno dall’altro.

di Giangiacomo Furù, illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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All’uomo che raccontava storie d’amore veniva facile trovarle, per lui era come andare in un laghetto e gettare la canna con l’amo, e quando gli chiedevano da dove prendeva tutta quella fantasia diceva che bastava guardare, non c’era niente di speciale, e il segreto semmai era quello di cogliere l’attimo, e quando una storia passava lì accanto annotarla su un foglio di carta, perché le storie d’amore, diceva l’uomo che le scriveva, sono come i sogni, svaniscono… e poi si rincorrono le une con le altre, e dicono tutte la stessa cosa, ma in modo diverso, per questo chi non le conosce sostiene che sono una banalità e chi invece è un appassionato non ne trova una simile a un’altra, ma un conto è leggerle e un altro è vederle quando corrono silenziose lì accanto, e l’unico modo per sapere come sono fatte, e quindi riconoscerle, è di averne vissuta una, e se qualcuno non ha vissuto una storia d’amore non le distingue, e così davanti all’indifferenza vanno via come barche su un fiume…
E ciò che l’uomo che raccontava storie d’amore consigliava era di osservare, prender nota, e scriverle subito, e questa, diceva, era l’unica sua abilità, ma c’era una storia che anche lui non aveva mai scritto, ed era quella più importante, forse l’unica che avrebbe davvero messo nero su bianco, ed era la sua… e pensare che per essa avrebbe dato qualunque cosa, proprio qualunque, perché un uomo che scrive è disposto per il suo lavoro davvero a tutto, e ancora non aveva capito se questo impedimento sarebbe durato per sempre o se era solo un tragitto di sofferenza per il quale tutte quelle storie servivano solo per maturare la sua, quell’unica che avrebbe voluto raccontare, e fra le due ipotesi propendeva però per la prima, perché l’essenza delle storie d’amore è il segreto, e lui non ne aveva mai conosciuto una sbandierata ai quattro venti, e per questo, forse, raccontava quelle degli altri e non la sua.

di Anna Bentivoglio, illustrazione di Daniela Di Benedetto

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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È l’alba, Lilly, una femmina di cuculo dal dorso cenerino, si sveglia con le piume intirizzite dal freddo. Attende che il sole la accarezzi con i suoi raggi dorati e socchiude gli occhietti pregustando il suo tepore. Niente. Alza lo sguardo al cielo: cumuli di nembi si spostano minacciosi da nord-ovest e si ammucchiano sopra di lei. Si sgranchisce le ali e le frulla per riscaldarsi.
Poi si dà la spinta con le zampette e spicca il volo dal ramo dell’ontano dove si era riparata e sparisce tra le fronde degli alberi vicini, alla ricerca di un nido e di una madre adottiva che si prenda cura dell’uovo che porta in grembo.
E attirata dal fruscio di un cespuglio di tasso. Con un movimento rapido si appoggia su un sambuco di fronte, e dà una sbirciatina.
Tra le foglie appuntite scorge una capinera dal capo color ruggine. Ha un rametto stretto nel becco e allestisce un morbido giaciglio: è talmente concentrata che non si accorge di essere osservata.
Lilly ne valuta la costruzione, e considera che non sarà completata in poco tempo. Così riparte con un salto leggero.
Lascia il bosco e va verso le sponde di un fiume. In lontananza scorge un forapaglie intrufolarsi tra le fitte canne.
Si avvicina quanto basta per scoprire il nido. L’uccellino però non vola subito al suo nascondiglio, si mette invece su un bambù e controlla che nessuno lo veda.
Lilly conosce questa tecnica, e rimane a debita distanza, ma nell’istante in cui il forapaglie apre le ali diretto alla sua tana, il suo sguardo viene abbagliato dal riverbero del sole sull’acqua. Le nubi sono sparite, proprio adesso!
Quando rimette a fuoco, il volatile è scomparso.
Beh, almeno ora si può scaldare, e si concede un istante per recuperare le forze.
Ancora una volta l’occasione è sfumata, ma non si perde d’animo. Ne troverà un’altra.

di Olga Riva Rovaglio, illustrazione di Silvia Gabardi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Era la mia vicina di banco, era una ragazza uccello, e la sua bellezza per la mia giovane anima fu un vortice fin dal primo giorno di scuola, io cercavo esperienze, e invece davanti a lei ammutolivo, ero confuso … E quella ragazza uccello l’avevo già vista una volta, l’estate prima, al fiume, c’era un gruppo di giovinette e con loro tre o quattro suore di un istituto, passeggiavano con i piedi nell’acqua, i sandali nelle mani, allineate nei loro colori azzurro e bianco, e in quell’insieme di corpi, dall’altra parte del fiume, io vedevo il suo petto risplendere al sole, e lei si staccò dalle compagne, e procedeva da sola, più indietro, aveva le gonne rimboccate ai fianchi e si chinava a raccogliere sassetti nell’acqua, li afferrava con le labbra a forma di becco e li lanciava in alto per giocare, scuoteva il lungo collo e dai capelli si staccavano gocce d’acqua tutto attorno, e camminava con passo lento, le sue gambe erano magre, e poi affrettò il passo, prese a correre e raggiunse le compagne, le sorpassò e tutte si misero a rincorrerla, e gridavano di gioia, lei volava radendo l’acqua e dietro uno sciame uniforme, e anche le suore correvano con le ragazze, e scomparvero alla vista, laggiù all’ansa del fiume… E quel primo giorno di scuola, nella confusione degli studenti, la riconobbi da dietro, dalle ali raccolte sotto la giacca e l’immagine di quella volta al fiume era fissa nella mia mente, quell’immagine era un sogno che non si dimentica… e ogni giorno lasciavo i libri a casa e così avevo una scusa per avvicinarmi al suo banco e seguire la lezione, mi sedevo lì accanto e non facevo che tremare, tutti i ragazzi erano innamorati di lei, e un giorno mi decisi, da tanto tempo preparavo le parole, e la toccai con una mano sulla spalla, era un giorno di pioggia, aveva le piume ancora umide, si voltò verso di me e mi guardò con i suoi occhi che erano gli occhi di un uccello, ebbi paura, le sorrisi appena e lei avvicinò il suo viso al mio e mi diede un bacio su un sopracciglio, e il sangue mi gocciolò nell’occhio, alla sera nello specchio guardavo quel segno, e quella cicatrice l’avrei portata per tutta la vita…e la mattina dopo mi alzai e sentivo di essere speciale, ero unico, e non temevo più la bellezza della ragazza uccello, ma il suo banco era vuoto, e tutta la settimana rimase così, nessuno sapeva niente, e allora andai dritto in presidenza, anche lì non avevano notizie, ma sul registro, accanto al suo nome, qualcuno aveva scritto che era volata via.

di Abramo Vane, illustrazione di Renato Pegoraro

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LA FORMAZIONE non esiste senza riscrittura

Prima dobbiamo creare dentro di noi un lettore attento e distaccato, una specie di chirurgo, freddo ed esperto, che con i suoi interventi non farà altro che il proprio lavoro, con professionalità, ammirato da tutti.

Il lavoro di riscrittura all’inizio è un vincolo difficile e fastidioso. Richiede concentrazione e l’acquisizione di qualità assopite, della cui forza e indispensabilità non avevamo coscienza. Sembrerà scoraggiante per noi che ci credevamo scrittori arrivati, ma quando l’apprenderemo e metteremo in pratica avremo aperto la porta più importante per il nostro percorso di formazione.

Da questo momento, e solo da ora, scriveremo sul serio. Ricordatevi che nessun grande scrittore ha evitato questo passaggio. Il neofita dice buona la prima. Tale lui resterà, un principiante, molto spesso presuntuoso. E non confondete la riscrittura con le correzioni o l’editing. Queste lasciatele agli amici caritatevoli e all’editore, se ne trovate uno capace che non vi venda fumo per arrosto.

La riscrittura è l’uovo di Colombo. Una volta scoperta l’uovo starà in piedi.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


Continua il 4 novembre


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