Di Ezio Boero

Iniziò per caso, l’amore. E poi furono lacrime e nostalgia. Una manciata di minuti più tardi e avrei vissuto un’altra vita. Invece sono di nuovo qui, alla fermata del tram. Lascio passare una corsa dopo l’altra. Appoggiato alla palina. Aspettando di vedere lei. Come la prima volta. In quel tempo passato, i pensieri stavano tornando all’ascensore aperto sul pianerottolo.

Di fronte a me, la studentessa colle efelidi che viveva in mansarda.

Sali? – chiese lei, la voce melodiosa di un usignolo –   Sali o no? Sveglia! – Quasi le stesse parole. Ma quale differenza d’intonazione, quella del barbuto tranviere! Scontrosa, come la porta che richiuse sul mio viso attonito.

Fu allora che la donna emerse tra l’aere impregnato di emissioni nocive. Imperiosa come un cartello di divieto d’accesso, slanciata come un’onda di tsunami, affascinante come una diva del cinema muto.

Ma parlò! S’avvicinò come se m’avesse individuato con una ricerca di mercato. Mi fissò coi suoi occhi color testa di moro e chiese:

Fumi? –

Mentii spudoratamente: – Sì, due pacchetti –  

Dammene uno! –

Sarei molto felice di esaudirla ma per sfortuna le ho consumate tutte. È stata una giornata intensa –

Amico, caccia fuori una cicca o ti spacco la faccia!

I nostri rapporti parevano ora esser più intimi. La conversazione aveva raggiunto un che di sinceramente ruvido. Ne fui lusingato. – Ti do 5 euro. Così puoi comprartele –

Mi prendi per il culo? Allora dammi il portafoglio, faccia di trota. Verrò a sapere dove abiti. Se non vuoi grane, dimmi il PIN della tua carta bancaria! –

Ormai ero in contatto ravvicinato. Il tacco della sua scarpa mi premeva l’unghia dell’alluce. Quella che doleva ancora dal torneo di calcetto, quando un energumeno m’aveva pestato il piede come fosse un mozzicone esausto.

Declamai le cinque cifre, attratto dallo sguardo magnetico di lei, mentre dalle sue labbra nervose uscivano denti aguzzi che mordevano il lobo del mio orecchio destro.

Un’anziana claudicante ci guardò sorridendo: – Che bella la gioventù! – Ricordando il fidanzato, principe delle balere, disperso in guerra nella steppa russa.

Grazie, amore. E non ti venga in mente di denunciarmi – furono le sue ultime parole.

Una lacrima sofferente mi spuntò sul viso. Che donna! Capii che non l’avrei mai dimenticata! Me la ricordarono i prelevamenti dal conto bancario dei primi successivi giorni e le sue telefonate notturne, così colme di lusinghe minacciose che provai un’acuta nostalgia quando non giunsero più.

Torno a frequentare quella fermata del tram. Tutti i giorni. La speranza di rivederla non morirà mai!

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Kenji Albani

   1996

   “Allah o’akbar”.

   “Allah o’akbar”.

   “Allah o’akbar”.

Fu tutto un ripetersi di quelle sante parole. Jamal ci credeva. O quasi…

Corse al MiG, indossò il casco con la maschera per l’ossigeno, saltò dentro l’abitacolo. Furono i serventi di terra a chiudere il cupolino, il meccanismo automatico non funzionava più. Da quando il regime di Najibullah era finito, dalla Russia non arrivavano più pezzi di ricambio. E figurarsi: i russi dovevano pensare alla Cecenia, non a sostenere il regime talebano in Afghanistan.

Jamal decollò. Lui era il Solitario, l’ultimo pilota militare del paese.

Si sollevò di decine di metri fino a centinaia di metri sopra le montagne tanto da perforare le nuvole. Lasciò Kabul e si diresse verso Mazar – i – Sharif.

Ci arrivò in dieci minuti, trovò tutto molto noioso, si era augurato un po’ di difficoltà, ma purtroppo lui era l’ultimo pilota in Afghanistan. Almeno militare. Neppure l’Alleanza del Nord disponeva di apparecchi d’attacco, figurarsi da ricognizione o da trasporto.

Jamal incominciò il bombardamento della città ribelle. Vide più in basso dei fiori di fuoco diventare pennacchi di fumo, si divertì a pensare quanto fosse divertente bombardare e uccidere i nemici dell’Islam.

Anche se poi, negli ultimi tempi, un tarlo gli rodeva la mente. Non aveva apprezzato che la sorella del suo migliore amico, Nadia, fosse stata lapidata a morte nello stadio di Kabul. Lui aveva assistito alla scena: durante una partita di calcio i giocatori in tute a maniche e pantaloni lunghi e le barbe incolte che si erano ritirati negli spogliatoi per dissetarsi visto il caldo, allora erano arrivati degli uomini che avevano scavato una buca per poi infilarci una donna in burqa. Avevano richiuso la buca lasciandola scoperta dalla vita in su, intrappolata. Davanti alla condannata si erano parati dei talebani, sei in tutto, e come un plotone d’esecuzione avevano preso le pietre caricate su un pick-up entrato in campo.

Un mullah aveva detto al megafono: Nadia Nizamuddin ha commesso adulterio. Ecco la sua punizione!

Non è vero, mi sono solo tolta il burqa nel cortile di casa…

Non aveva potuto concludere che la prima pietra l’aveva colpita. Era stato il mullah a lanciarla.

Il plotone d’esecuzione aveva iniziato a scagliare i sassi contro la poveretta.

A Jamal era venuto da vomitare. Le voleva bene, era una brava ragazza.

Adesso che stava bombardando Mazar – i – Sharif, prese la sua decisione perché quella era una storia vera che non gli dava pace. “Meglio fuggire in Uzbekistan”.

Capì che i talebani non si sarebbero mai più serviti del Solitario.

Kenji Albani è nato a Varese il 13 novembre 1990 (il suo nome è giapponese, ma lui è italiano). Nella vita fa l’articolista, pubblica con Delos Digital ed è arrivato in finale alla 6a edizione del Premio Altieri Segretissimo.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Gianfranco Casadei


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di Gianluca Fiore

Meno male, è giovedì. Oggi dovrebbe arrivare la coppietta di liceali, escono e vengono sempre a mettersi qui sotto, pioggia o sole. Ah, eccoli. Che teneroni…mano nella mano, si parlano fitto fitto, come se non si vedessero da un’eternità. Beh, ve lo devo confessare. Mi sento un po’ chioccia con questi due innamoratini qui sotto. È uno dei momenti più belli della settimana. Poi certo, c’è anche il weekend ma è una carica continua di bambini urlanti, sì, soprattutto quei maschietti votati all’arrampicata a tutti i costi, che barba…ce lo diciamo spesso tra di noi: meglio i giorni infrasettimanali, quando c’è poca gente e ti puoi godere la vicinanza delle persone.

Non credete che riusciamo a dircelo? Eh già, perché voi vi ritenete i soli bravi ed in grado di poter comunicare, vero? Ma io posso attraversare l’intero parco per farmi sentire dalle altre, sapete? Abbiamo tutto un sistema di comunicazione che a voi, bipedi inventori di inutilità, lascerebbe di stucco. A voi la parola – a cosa poi vi servirà mai, dato che spesso e volentieri neanche vi capite – a noi gli impulsi elettrochimici, che non sbagliano di una virgola. È così che la Quercia all’ingresso del parco mi dice chi sta arrivando. Lontano? Certo, l’ingresso è lontano, ma noi siamo tante! La parola d’ordine è inclusione, e anche aiuto. E pure se tra me e la Quercia all’ingresso c’è di mezzo l’Ontano, il Carpino, Il Leccio, le aiuole di Sassifraga, il gruppo di Betulle e il Faggio pendulo, beh, insieme facciamo la differenza.  Lo avevo letto nel giornale del vecchietto che viene qui sotto ogni venerdì: una roba tipo il telefono senza fili. In realtà, del telefono ne ho appena sentito parlare, ma ve lo posso garantire: tra noi ci capiamo benissimo.

E poi lo sapete che possiamo anche godere della forza reciproca? Ora vi stupisco: qualche giorno fa è arrivato il senza tetto che ogni lunedì passa di qui per farsi un pisolino. Beh, non è arrivata la solita nuvola rompipalle a dar fastidio? Ci siamo detti ma guarda che insolente, ora ci pensiamo noi. Sarebbe sufficiente un po’ di sforzo per piegare le nostre chiome e proteggere il dormiglione. Oh: detto, fatto. Mi è arrivata un’ondata di energia dalle altre e questo mi ha aiutato a piegare i rami fino a proteggerlo. Forte, eh? E pensare che tutti ci credono senza anima, esseri immobili con una vita senza pensieri, senza sforzi, senza empatia. Se solo ci si fermasse un po’ più a ragionare…

Beh ora scusate, a proposito di esseri vegetali ora ho un mucchio di cose da fare. Sto giusto aspettando al varco il gruppo di giovani scoiattoli che da qualche tempo ha preso casa qui nel parco. Corrono a tutte le ore, e quando c’è da passare da una all’altra di noi non chiedono neanche se si può. E va bene un po’ di sfrontatezza giovanile, ma insomma chiedere permesso mi sembra il minimo, non trovate? Ora li fermo e gliene dico quattro.

E poi? E poi niente, continuo la mia intensa giornata di relazioni. Mica siamo come voi, che a un certo punto vi spegnete senza un motivo apparente. Beh, arrivederci. E tornate a trovarmi, eh, tanto…chi si muove?

Gianluca Fiore. Uno dei pochissimi romani che ha deciso di fuggire dalla Capitale, che oramai ritiene un luogo invivibile, per contaminare il Nord con la sua romanità. Amante, tra le tante cose, della bella scrittura: mezzo per esplorarsi, conoscersi e riconoscersi.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Agnese Ilaria Telloni

C’era una volta una margherita, in un grande prato verde. Era spuntata un giorno di primavera, di mattina presto, dopo uno scroscio improvviso.

Le era capitato di nascere sul bordo di un campo di calcio di provincia. In quel prato si sentiva una delle tante, e mai nessuno che si accorgesse di lei. Se non ci fosse stata, di sicuro non avrebbe fatto differenza.

Lì ogni domenica tante scarpette colorate le passavano vicino. Quando arrivavano veloci, con tutta la loro foga, facevano tremare la sua corolla, e ogni volta pregava di non essere travolta. Sentiva un rumore sordo quando colpivano il pallone o si scontravano fra loro. Le grida che riempivano l’aria le mettevano paura, ma erano sempre meglio del silenzio che la avvolgeva negli altri giorni della settimana. Di domenica non pensava e tra tutti quei colori, quelle urla, quell’energia, la vita le sembrava dolce.

Un giorno qualsiasi se ne stava assopita sotto il sole tiepido, quando sentì dei passi leggeri. Due scarpe bianche, anzi, quattro.

Non correvano, non facevano rumore. Il loro incedere sembrava una danza.

Si muovevano lente e in certi momenti si fermavano, vicine vicine, a far cosa non riusciva a vederlo. Due di quelle scarpe a volte, di fronte alle altre, si alzavano sulle punte.

Non calciavano un pallone. Non c’erano grida, non c’erano tonfi, né boati.

Solo quelle quattro scarpe, intrecciate a due a due.

Solo dei sussurri lievi e ogni tanto, così le pareva di sentire, il fruscio di una carezza.

A un certo punto accadde una cosa inaspettata: quelle scarpe le si avvicinarono, vide un ginocchio a terra e una mano che piano piano si accostava a lei. Quella mano le sfiorò lo stelo. Ebbe un brivido, la colse il terrore di essere strappata via. Pensò al prato, ai suoi giorni tutti uguali e in un attimo se ne innamorò. Le piombò addosso come un pugno l’indifferenza del piccolo mondo che abitava, e ne provò dolore.

Poi udì una voce che diceva: “Questa è per te, ma la lasciamo qui, la lasciamo vivere”.

Un’altra voce, soave e calda come la luna nelle notti d’estate, rispose: “È nostra, ricordatela, torneremo a vederla”.

Quel giorno la margherita scoprì di essere felice.

Non era più una delle tante. Era lei, proprio lei il fiore vivo che le quattro scarpe bianche avevano scelto. Era felice che quei passi attenti, grati di ogni raggio di sole e di ogni alito di vento che potevano condividere, si fossero accorti di lei. Sarebbero tornati, era certa.

Da quel giorno, ogni giorno li aspetta, coi suoi petali bianchi, inebriati di luce, finalmente fieri della propria preziosissima unicità.

Agnese Ilaria Telloni, ricercatrice in Didattica della Matematica, è sempre in bilico fra la fascinazione della matematica e la passione per la letteratura. Ha pubblicato articoli e saggi di ricerca scientifica. Nel 2011 ha vinto il premio L’Oreal Italia “Per le Donne e la Scienza”.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Mi è bastata una foto per innamorarmi e capire il rugby da spettatore, Jacques Fouroux, un metro e sessanta, un piccolo caporale, come veniva chiamato, in mezzo a quei giganti, e tutti con il capo chino, e lui a rimproverarli come scolaretti, a comandarli, a incitarli. Che meraviglia comprendere la vita così, senza leggere trattati filosofici, né versi stucchevoli, e nemmeno romanzi introspettivi, oppure leggere tutto ciò e ammettere con umiltà che il coraggio di un piccolo grande uomo esprime questo e altro, che lo sport è arte, e permettetemi, il rugby più di ogni altro, e dovendo scegliere un simbolo io penso a lui, a uno che non fa distinguo fra sentimento e ragione e ci mette tutto sé stesso… E Jacques Fouroux nel campionato di Francia scrisse solo brevi racconti, roba da appendice letteraria, i romanzi li consegnò direttamente alla Nazionale francese, da capitano prima e allenatore poi, e sempre quell’immagine con lui piccolo grande uomo in mezzo a quei giganti a capo chino… e il gioco della vita è descritto bene da Benedetto Croce nel suo Breviario di Estetica quando dice che l’opera d’arte apre spiragli attraverso cui guardare, l’artista promuove questo e lo spettatore ne usufruisce andando oltre, con la sua interpretazione… E l’imprevedibile ovale esce da quella mischia nella quale tutto è avvenuto, ma solo chi c’era dentro sa davvero che cosa è successo, lo spirito supera ogni cedimento, e Jacques mette la mano dove altri non osano e poi si distende, vola a filo d’erba come un cormorano sull’acqua, e plana nel fango, o sulla terra dura, e subito si rialza a sostenere l’azione, immagini e parole, note musicali e silenzi, colori e bianchi neri, ognuno di noi attraverso quegli spiragli ha visioni e conquiste proprie, e della vita si fa un’idea.

Continua il 31 agosto

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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Di Gaetano Lo Castro

“Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi...” Genesi (2, 9)

C’era una volta, vicino a un paesino di campagna, un castagno millenario.* Il proprietario del terreno su cui sorgeva non era certo un tipo simpatico. Infatti una mattina apparve armato di una grossa motosega.

“Sei una montagna di legno, mio caro castagno. Il tuo pregiato legname mi farà guadagnare molti soldi.”

E mise in moto la rumorosa motosega. Proprio allora giunse un gruppo di ragazzi del paese vicino che era solito sostare sotto il vetusto vegetale. Tutti capirono il cattivo proposito del proprietario.

“Ma ha davvero intenzione d’abbatterlo?!”

“Io non devo render conto a voi di ciò che voglio farci del mio albero.”

“È un castagno millenario, e non ce ne son molti nel mondo!”

“Andate via dal mio terreno!”

I ragazzi gli si pararono davanti, determinati a difendere il raro albero, al quale erano assai affezionati. “Non lasceremo tagliare il castagno.”

“Per noi lui è come un vecchio compagno.”

“E arricchisce tutta questa campagna.”

L’uomo avanzò puntando contro di loro i rotanti denti della sua motosega.

“Qualcuno corra a cercare aiuto!”

“Ci vado io!”

Vennero diverse persone, tra cui alcune guardie municipali e il sindaco. L’uomo agitava la motosega sempre più da presso ai ragazzi, addossati contro il tronco del castagno. Fu disarmato. “Non potete proibirmelo! È di mia proprietà! Voglio vedere l’avvocato!”

“Questo è vero.” disse il sindaco. “Secondo la legge gli è lecito, anche se è una barbarie abbattere un albero millenario.” “Allora l’albero è perduto?” gli domandò con tristezza una ragazza.

“Purtroppo il proprietario è lui e può farne quello che vuole.” L’uomo ridacchiò.

“Un modo ci sarebbe per salvare l’albero!” esclamò un ragazzo. “Se il castagno lo compra il comune nessuno potrà più gettarlo giù!”

I presenti assentirono entusiasti. Il sindaco chiese al proprietario se era disposto a vendere il pezzetto di terreno interessato. L’uomo pensò che in questo modo poteva ottenere lo stesso un ottimo guadagno, risparmiandosi la fatica di tagliare il castagno. I due si misero d’accordo sull’importo. Tutti rimasero soddisfatti. In particolare i ragazzi, felici per esser riusciti a salvare il loro amico albero. Si presero per mano e cinsero il suo grosso tronco con un unico abbraccio. Il vecchio castagno sentì sulla sua rugosa corteccia il calore e l’amore delle loro giovani braccia.

“Non cade foglia, che Dio non voglia.” commentò commosso.

* Il Castagno dei Cento Cavalli si trova sulle pendici dell’Etna.  Con i suoi circa 4.000 anni è uno degli alberi più longevi d’Europa.

Gaetano Lo Castro. Autore siciliano, scrive romanzi, racconti, pièce, poesie. Molte sue opere sono state premiate e pubblicate in antologie. Un suo romanzo si è classificato 1° in un premio per inediti, è stato pubblicato, ed è giunto finalista in un altro concorso.

elezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Anna Marabelli


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di Valentina Ciocca

Mi accingo a scriverti questa lettera mentre tu sarai già salito sul treno.

Dopo la tua partenza gli ingranaggi del tempo devono essersi inceppati, sono passate solo poche ore o forse tutta l’eternità? Mi stringo al desiderio di te, immagini e pensieri indelebili scivolano via insieme alle lacrime. Ci siamo giurati amore eterno, rammenti? Sotto le fronde del salice piangente abbiamo suggellato il nostro impegno.

Sulle mani tracce invisibili di te, nel cuore il solco profondo della tua assenza.

Sorrido, ripensando ai nostri primi incontri, mani intrecciate e grandi speranze, baci umidi sotto la pioggia, ritagli di felicità nel grigiore quotidiano. Ci siamo amati fin da subito, con trasporto e dedizione, protagonisti di una storia romantica d’altri tempi, fatta di corteggiamenti, dichiarazioni, boccioli di rose. Un amore da favola, temo però che non avrà un lieto fine. Ti amo tra le ombre della sera e il sorgere del sole, quando l’anima è più fragile. Sei il mio tutto che riempie la vita di sapore. Conosco il suono del tuo cuore, onda dell’oceano che ritmicamente si infrange sugli scogli. Ti amo così, incessantemente. Sei dentro di me, presenza indissolubile, ti sento addosso mentre lascio fluire il respiro e la nostalgia di te. In fondo cos’è l’amore? Sentimento e dono, emozione e impegno. Siamo anime erranti legate da un filo invisibile, siamo l’urgenza di appartenerci e la necessità di incatenarci i cuori. Il destino ha disegnato per noi una trama diversa, ma io non sono pronta a lasciarti andare.

Il tempo forse mitigherà la sofferenza, modellando i ricordi, restituendomi un’immagine di te ancor piu’ dolce e forse ci darà le risposte che cerchiamo.

Mi immergo nella malinconia, mi lascio cullare dal calore dei ricordi.

Se l’amore è un viaggio, il nostro non è ancora giunto al capolinea, ma ha preso una deviazione, inaspettata o forse no. Provo ad accettare quello che non sarà.

Vorrei abitare nei tuoi sogni e sussurrare al vento la nostra melodia.

Sono certa che se ti metti all’ascolto, mi puoi sentire. Avverto segni inconsistenti di te nella brezza della sera, nella luce calda del tramonto. Cercami nell’andito più segreto dei tuoi pensieri, mi troverai lì, paziente, ad attenderti e forse ci ritroveremo ad accarezzarci le anime.

Arrivederci, amore mio. Abbi cura di noi.

Valentina Ciocca è laureata in giurisprudenza, vive in Val d’Ossola e fin da bambina coltiva la passione per i libri e la scrittura. Nel 2024 ha ottenuto due riconoscimenti all’interno della settima edizione del Premio letterario Dentro l’amore.

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RUGBY E ROMANZO, connessioni

Amo il rugby, più di qualsiasi altro sport di squadra, per i valori che esprime. Siamo in tanti, tifosi per questi motivi. La maggior parte però del pubblico che segue gli eventi sportivi non lo conosce e ignora le regole. Non ve le spiegherò. Le accennerò solo per sostenere il paragone, utile al nostro romanzo.

Oggi c’è Francia-Italia, accendiamo il televisore. Notiamo che spesso i giocatori sono in una mischia, otto francesi che spingono da una parte e otto italiani dall’altra. Non c’è spettacolo. Che cosa succede la sotto? Lo sanno solo loro, i sedici giocatori coinvolti, e noi non capiamo.

Poi la palla ovale esce da quella mischia e, anche per chi non ci capisce niente e non sa le regole, inizia lo spettacolo, rugby champagne. Un giocatore prende la palla, evita due avversari, ma non ce la fa ad andare avanti da solo. La palla per regolamento deve essere passata indietro, e così c’è un compagno a sostenere l’azione. Se non c’è, l’azione finisce lì.

La stessa cosa per le pagine che stiamo scrivendo. Un personaggio porta avanti la narrazione, ma la meta è lontana e non ce la fa da solo. Ha bisogno di altri personaggi, di descrizioni, dialoghi. Le pagine in questo modo procedono, a volte rapide, altre faticose. Insieme, vogliono diventare romanzo.

E quella mischia dove non c’era spettacolo? Tutto è nato là sotto, la fonte del gioco. È la nostra idea, che vuole esprimersi. Se vogliamo giocare il gioco della vita, l’energia compressa nel nostro cuore e nella nostra mente deve trovare il modo per venir fuori. Altrimenti rimarrà là sotto, inespressa.

Ecco che la palla esce, è ovale, quando rimbalza sulle pagine bianche è imprevedibile. Come la vita. I fogli si riempiono di parole, e corrono veloci.

Continua il 3 agosto

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