Di Luigi Stefanazzi

Nelle luminose giornate somale la maestosa Palma, ai miei occhi di bambino, si stagliava gigantesca, mi affascinava, la guardavo da sotto e non ne vedevo la cima per l’imponenza della ramificata chioma.

Ci giocavo vicino e cercavo di abbracciarne invano il possente tronco. Sedevo sotto la sua ombra protettrice e, appoggiato al tronco leggevo, fantasticando sul magico volare di Peter Pan e sulle misteriose profondità marine, violate dal capitan Nemo. Ogni anno attendevo la stagione della nidificazione dei Tessitori che, a stormi si impossessavano del grande isolato albero e per ore osservavo maschi giallo vivo con la testa nera fare la spola fino all’Albero di Fuoco, nel mio giardino, per spogliarlo delle foglie paripennate e portarle sui rami della Palma.

Dopo mille baruffe per i posti migliori, prendevano forma, abilmente intrecciati, nidi tondeggianti aperti verso il basso, nei quali entravano femmine di color giallo smorto mentre incessante era il cinguettio, che aumentava dopo la schiusa e, che via vai per saziare i pulli. Che chiasso poi lo sbatter d’ali degli uccellini che, artigliati al nido, le rinforzavano per i primi voli.

Una mattina, come sempre avveniva, tutto era silenzio, i condomini della Palma erano volati via, restavano solo i nidi che si disfacevano al vento, mentre l’Albero di Fuoco prima di cacciare nuove foglie, fiero del suo contributo, festeggiava il buon esito della nuova covata con una fiammante fioritura, nella quale “mi era dolce il naufragar”, a cavalcioni sui rami più alti.

Nel giardino vi erano Pervinche del Madagascar, Plumerie, Melograni “dai bei vermigli fior” e una Thevetia che faceva da palcoscenico ad acrobatici colibrì che suggevano il nettare dei suoi fiori gialli. C’era poi un alto Ficus dalle grandi foglie sul quale, da adolescente mi arrampicavo fino alla cima, oltre il tetto di casa, per spaziare lo sguardo fin sul vicino villaggio di Tucul.

“Per fare l’albero ci vuole il seme”: era un giardino creato da mio padre in un ambiente semiarido ed il seme di quel giardino era stata la sua passione per gli alberi, questi poi divennero miei quotidiani compagni di gioco, educatori riguardo la sacralità della natura e dell’interdipendenza nell’ecosistema.

Luigi Stefanazzi è nato nel 1949 a Samarate, ove vive. Dall’età di 3 anni a 16 anni ha vissuto in Somalia. Tornato in Italia, dopo gli studi, ha lavorato in banca a Gallarate, Como e Varese. Pensionato, ama la lettura ed il giardinaggio.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Di Stefano Minari

Quel pezzetto di carta dorme appallottolato dentro al cestino da ieri. Il confine fra la felicità e la delusione sta nei pochi centimetri di una strisciolina di cellulosa e non so se buttare tutto nell’immondizia o dichiarare finalmente guerra al me stesso di sempre, timido, bloccato, incapace di fare il primo passo. Dieci cifre scritte su un tovagliolo possono essere la combinazione della cassaforte dove sto rinchiuso, eppure non riesco a decidere se comporle sulla tastiera del cellulare o giocarmele al Lotto, dove forse avrei più possibilità di successo.

Quando Marco mi ha chiesto di partecipare alla cena, per festeggiare i dieci anni dalla maturità, gli ho vomitato addosso un “no” di getto. Chiama proprio lui, a cui ho sognato mille volte di spaccare la faccia in mille modi diversi! Se sono passati anni senza vederci né sentirci, perché mai incontrarsi per ricordare la fine di quello schifo di liceo? Nel frattempo, nessuno ha sentito la mia mancanza ed io ho contraccambiato volentieri.

A casa dei miei c’è ancora l’impronta dei pugni che ho dato al muro dopo una festa di compleanno, maledicendo il mondo e la mia timidezza. Simona era diventata il mio pensiero fisso e Lia, un’amica comune, aveva manipolato il sorteggio dei balli di coppia, per mettermela fra le braccia. Si erano messe d’accordo? Era partito un lento anni ’80, tirato fuori da chissà dove. Le braccia di lei sul collo e gli occhi neri a una spanna dai miei. Un calcio di rigore a porta vuota.

Quel rigore non l’ho calciato. Ormai ho un ricordo frammentario di quel momento, nonostante che mi abbia tenuto compagnia per centinaia di notti. Rivedo solo quello stronzo di Marco che rapisce le mani di lei, appoggiandosele sulle spalle. Ed io lì, in mezzo alla stanza, indeciso se offrire il mio naso ai suoi pugni da rugbista o aprire la porta ed andarmene.

Alla fine ho accettato l’invito, nonostante lo stomaco attorcigliato al pensiero di incontrarla, perché anche se la cicatrice ormai è vecchia, ogni tanto, quando cambia il tempo, si fa ancora sentire. Ci siamo persi a parlare tutta la sera ed ora il suo numero di telefono è là, sepolto nel cestino. Rivedere quegli occhi neri col rimmel che cola sulle guance, mentre mi confida la sua ricerca inutile di un punto fermo, mi ha riportato in quella stanza, con il lento in sottofondo, ma stavolta coi pugni chiusi, pronto a farmi massacrare.

Marco stavolta non c’è. Devo solo dare un pugno a me stesso, digitare per l’ennesima volta quelle dieci cifre e finalmente premere il tasto verde.

Respiro.

Un solo squillo e …: «Ciao Simona, sono Micky. Ti porto a ballare.»

Stefano Minari ha riscoperto da poco la passione per la parola scritta e la voglia di raccontare storie. Quella che nei sogni di ragazzo voleva essere una professione, ora sta rinascendo come fonte di relax e di tante soddisfazioni inaspettate.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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L’INFINITO, non è di facile comprensione

Una parola che da ragazzo non capivo. Faceva paura, l’Infinito. Era ciò che c’era dopo la morte, mentre io volevo solo vivere la vita. Vivere. Vivere, e non morire. 

Poi scoprii che la vita continuava in chi veniva dopo, e allora conveniva essere grandi uomini, generali, presidenti, artisti. Uno scrittore vive sempre, e per questo ancora oggi leggiamo Omero e tutti gli altri.

Ecco il significato di Infinito: continuare a vivere negli uomini.

E quando gli uomini saranno morti tutti quanti?

Continua il 20 luglio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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Di Gianmarco Pellattiero

Oblast di Kharkiv. Un colpo di obice colpisce una jeep con a bordo quattro giovani militari ucraini. Il caporale Artur è a terra, stordito dalla deflagrazione ma incolume. La scena che si presenta davanti ai soccorritori è drammatica: tre vittime e l’inizio di un incubo per le rispettive famiglie.

Inerme su un lettino il sopravvissuto fissa il vuoto. Vicino a lui un altro soldato geme di dolore, il giorno precedente ha subito l’amputazione di una gamba. Roman, Taras, Victor, come un mantra Artur ripete dentro di sé i nomi dei compagni deceduti. Roman, Taras, Victor, nella sua testa esiste un solo e paranoico pensiero: la vendetta.

È ormai notte, dopo avere recuperato la carabina il caporale si mette in marcia verso il fronte. Roman, Taras, Victor, il frastuono dei nomi è più assordante delle bombe. Il terreno è umido, le scarpe affondano. Nonostante le difficoltà arriva in prossimità della linea nemica. Gli ultimi cento metri sono i più pericolosi. Compie un’azione di aggiramento, striscia come un serpente e si muove come un felino. Roman, Taras, Victor. È la resa dei conti.

Artur è immobile, osserva il militare di guardia in prossimità dell’obice.

Ancora pochi metri. Paura. Rabbia. Follia.

La canna della carabina preme sulla guancia del soldato russo, il caporale desidera guardarlo negli occhi prima di eseguire la sentenza. Una cicatrice sullo zigomo attira la sua attenzione. Un’espressione di stupore ne illumina il viso.

Un brivido sconvolge i due uomini.

Boris?

Artur?

Il silenzio bombarda i loro cuori.

Stessa scuola. Stessa classe. L’adolescenza sconvolta dalla forza dell’attrazione. Timidi baci conservati fra i ricordi più intimi. Poi la separazione a causa del trasloco, a Donetsk, deciso dai genitori di Boris, capolinea di un legame spesso soffocato dalla vergogna.

Una lacrima compare sul viso di Artur; due, cinque, dieci… testimoniano la bellezza e l’immortalità della loro storia di amore, fatta di sussurri e parole non dette.

Le armi scivolano al suolo. I corpi si incontrano, si attraggono, si esplorano. 

Una voce ostile interrompe l’idillio, un soldato russo punta il kalashnikov contro di loro. Uno sguardo di intesa è sufficiente, come sui banchi di scuola. Boris e Artur escono dalla trincea, mano nella mano, noncuranti del pericolo.

Un colpo di avvertimento risuona nell’aria. Minacce. Insulti.

Il dito pronto sul grilletto.

Un boato. L’artiglieria pesante ucraina colpisce l’obice.

Fuoco. Devastazione. Morte. Due anime si allontanano felici. È l’alba di un nuovo giorno.

Gianmarco Pellattiero vive a Malnate. Nel suo repertorio sono presenti numerosi racconti brevi, poesie, monologhi teatrali e alcuni romanzi, tra cui “E mi ritrovai a Malnate” del 2021 e “Cloe e l’enneagramma d’0ro” del 2022.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)


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DI Carlo Battaglini

Emma era sempre stata una ragazza distratta, ma non avrebbe mai creduto di riuscire a perdere l’amore della sua vita tre giorni dopo averlo trovato; e la canzone che ora usciva dalla radio non faceva che amplificarne la rabbia: “Bello, bello e impossibile, con gli occhi grandi e la tua bocca da baciare…”. Una vera presa per il culo.

Emma si tappò le orecchie e maledì se stessa per aver dato retta a Lucia. “Non vorrai telefonargli, vero…?” aveva detto.

“Lascia che lo faccia lui, pensa alla tua dignità”.

Accidenti a lei. E anche alla dignità.

Emma aveva guardato prima Lucia e poi la banconota sulla quale Lui aveva segnato il suo numero di cellulare. Nessun nome. Solo dieci cifre che, ovviamente, adesso lei non ricordava. Ma questo non sarebbe stato un gran male se non avesse ficcato quella dannata banconota nel taschino dei jeans finiti in lavatrice due giorni dopo. Accidenti a lei. E anche alla lavatrice.

Se è vero che si vive solo da giovani, e che dopo la vita non è altro che un lungo ricordo, Emma ci avrebbe ripensato per il resto dei suoi giorni.

La voce della Nannini, alla radio, era implacabile. Emma pigiò le orecchie fino a sfondarsi il cranio, ma non riuscì a cancellare le ultime parole della canzone: “forte, forte forte ti vorrei!” Emma uscì sperando di non pensare a nulla. Non ci riuscì. Bello. Quando si erano sfiorati era scoccata la scintilla, ne era certa. Bello… con gli occhi neri e la sua bocca da baciare… Un’opera d’arte, una canzone da hit parade… Bello… e impossibile, accidenti a lei, e anche a Lui che non telefonava. Eppure si era perfino fatto segnare il numero di Emma sulla custodia degli occhiali col pennarello.

Lei ricordava perfettamente: si stava avvicinando alla cassa, con la maglietta che aveva deciso di acquistare e che continuava a rimirare. Era andata a sbattere su quel torace giratosi di colpo. Si era ritrovata contro quell’uomo, con la maglietta stesa sul volto che, come un sipario, si era abbassata lentamente rivelando a lei il volto di Lui e a Lui il volto di lei. La maglietta era rimasta tra di loro a lungo, sospesa dai loro corpi che non volevano staccarsi.

Emma ritornò al negozio. Riconobbe la commessa, la divertita testimone del loro scontro, e anche lei la riconobbe. “Il tuo amico non è più tornato…” Non aveva dubbi, accidenti.

La commessa le allungò qualcosa. “Posso darli a te?” Emma la guardò incuriosita e subito riconobbe la custodia col numero da lei segnato. Sembrava ancora più marcato.

Lo osservò a lungo.

Bello e impossibile.

E sbadato come lei, per giunta. Proprio l’uomo della sua vita.

Carlo Battaglini nasce a Milano il 23 maggio 1960. Si laurea in geologia nel 1985. Lavora in tutta Italia, ma perde la vista nel 2017. Scrive da sempre. Finalista in vari Premi Letterari, ne vince tre. Ha pubblicato racconti, articoli e un romanzo.

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di Gaetano Lo Castro

Nella misura in cui vi aprite, coglierete i frutti.

(Da un messaggio di Medjugorje)

Una volta c’era un fico d’India.

Era una giovane cactacea spontanea nata da un semino. Si trovava nel giardino d’una casa di provincia con prospettiva sul mare e sul vulcano.

Nell’abitazione ci viveva uno scrittore. Scrittore almeno nella sua intenzione. Perché scriveva un po’ di tutto, ma non riusciva a pubblicare un bel niente. Il suo scrivere non produceva frutti utili.

Come diversivo gli piaceva accudire al suo giardino. Prediligeva le piante grasse, in particolare il piccolo fico d’India. Col tempo esso crebbe e divenne una pianta alta dalle pale piene di spine. Ma di fichidindia non si scorgeva manco l’ombra. “Non devi abbatterti se sei infruttuoso. Non è da tutti dare buoni frutti.”

Lo scrittore decise di rinunciare alla scrittura. Avrebbe cercato altrove la realizzazione della propria natura. Il suo sguardo andò verso la vetta innevata innalzata nel cielo blu. Sentì nascere un desiderio d’ascesi.

Dispose con precisione l’ultima pietra lavica e quindi osservò con soddisfazione la propria opera appena terminata. Di fianco al fico d’India, nella nicchia di nera sciara, troneggiava la statuetta bianca e azzurra della Madonna coronata di stelle. Colse alcune rose, le mise in un vasetto pieno d’acqua e gliele depose dinanzi.

“Ora il nostro giardino ha la sua Regina! È una sovrana che bisogna amare!”

Il fico d’India ammirò la figura minuta e regale, riposta dentro la piccola grotta sotto le sue ispide pale. Gli ispirava tanta tenerezza.

“E che occorre omaggiare, non solo coi fiori, ma ancor più con la preghiera.”

Si sedette sopra la panchina, si tolse dal collo la corona e cominciò a recitare il rosario. Contemplava Maria, il mare, il vulcano. Meditava i fondamentali interrogativi esistenziali. Sentiva emanare energia tutt’attorno dalla statuetta di Maria. Era come un fluire di linfa nutriente. Era come uno scorrere d’ispirazione trascendente. Ebbe l’impulso di trascrivere tutto. Concluso il rosario corse in casa, prese il PC, lo pose sul tavolino vicino alla Madonnina, l’accese e con lena iniziò a scrivere.

“Complimenti, hai fatto tanti bei frutti!”

La pianta n’era fiera. Le sue pale erano piene di grossi frutti rossi. Usando un guanto l’uomo ne spiccò un poco e li sbucciò. “Sono molto dolci.” disse assaggiandone uno.

Si sedette sulla panchina e aprì il suo libro appena pubblicato. “Ti faccio gustare la mia prima opera. Spero davvero che ti piaccia.”

Lo scrittore prese a leggere al vegetale il suo romanzo, mangiando fichidindia e occhieggiando Maria.

Lei gli sorrideva.

Gaetano Lo Castro. Autore siciliano, scrive romanzi, racconti, pièce, poesie. Molte sue opere sono state premiate e pubblicate in antologie. Un suo romanzo si è classificato 1° in un premio per inediti, è stato pubblicato, ed è giunto finalista in un altro concorso.

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di Alessandro Giulianelli

“È permesso?” Arturo spinse la vecchia porta cigolante. La casa era ridotta male, nessuno ci entrava più da anni. L’uomo guardava in giro rammaricato mentre aiutava la signora dell’agenzia immobiliare a superare la soglia.

“Non ci torno da quando ho preso il mare come soldato semplice”.

“È arrivato molto lontano” constatò lei mentre lui scansava le seggiole.

“Forse anche troppo”.

La donna lo vedeva giù di morale: “Ha belle memorie di questa casa?”.

“Bellissime: ci ho vissuto coi nonni. Lui era sempre alle prese con i rottami, mi portava in giro per l’isolato a vedere se qualcuno stava facendo qualche mestiere per dargli una mano e dirgli come si faceva”.

“E sua nonna?”.

“Lei passava le giornate in giardino. Venga”.

Arturo aprì la porta che dalla cucina dava all’esterno. “La nonna trascorreva la vita a combattere un albero con i fiori rosa”.

“Combattere?” curiosò lei mentre Arturo la portava dall’altra parte del cortile.

“Sì” esclamava “Perché l’albero d’estate metteva un tripudio di fiori rosa e il vento li spargeva per il giardino e in casa. Lei impazziva, lo rimproverava come un figlio” ma l’allegria di Arturo si spense tutta insieme: dove si ricordava, ora spuntava solo un tronco mozzato.

L’uomo si ficcò le mani in tasca: “Già: non è rimasto proprio nulla di questa casa che voglio tenere”.

Arturo continuò il giro mentre l’agente faceva domande:

“Quand’è che i suoi nonni se ne sono andati?”

“Bah” rispondeva aprendo la porta del bagno, “L’ultima lettera è di cinque anni fa”.

“Avevano altri parenti?”.

“Un paio” ribatté Arturo mogio e passò all’ultimo corridoio. Questo dava alla camera dei nonni dove Arturo una volta si ficcava sotto le coperte con loro.

Si fermò, la voce gli tremava: “Senta, non dovrei dirlo a lei ma avrei voluto davvero mollare tutto e tornare quando ancora potevo. Una vita è volata e non me ne sono accorto. Ho pensato che a fargli compagnia ci sarebbe sempre stato quell’albero che impegnasse la nonna, ma immagino che alla fine fosse diventato insostenibile. Doveva vedere come sorrideva quando riusciva a tirar via tutti i fiori”.

Arturo strinse la maniglia, “Ma indietro non si può certo tornare” la abbassò.

Allora spalancò la porta e una fittissima tempesta di fiori rosa lo travolse come un’onda.

“Guardi! La finestra che dava sull’albero era stata lasciata aperta! I fiori si sono accumulati qui!”.

Arturo era pietrificato.

La camera dei nonni era completamente sommersa.

“E come hanno fatto a restare così, senza appassire?”.

“Non lo so” rispose la donna, “Forse la stavano aspettando”.

Alessandro Giulianelli, nato a Roma nel 2003, ha vissuto infanzia e adolescenza tra Bergamo e San Felice Circeo. Attualmente studia e vive a Milano e frequenta la facoltà di Giurisprudenza presso l’università Statale.

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di Alice Mantegazza

C’è un albero piantato nel giardino di casa mia.

Alto, rigoglioso, maestoso.

Questa è la prima immagine che mi viene in mente ripensando alla mia infanzia, quell’albero che mi ha sempre regalato avventure.

Sdraiata sotto le sue fronde verdeggianti mi sentivo immersa in una foresta, o arrampicandomi sui suoi rami diventavo un pirata di vedetta.

Quell’albero è stato a lungo il mio compagno di giochi preferito.

Poi, crescendo, ho sostituito i giochi con lo studio e anche in questo quell’albero mi ha accompagnata, donandomi la sua ombra come rifugio dove trovavo maggior concentrazione. Infine è venuto per me il tempo iniziare la mia avventura nel mondo.

Mi sono ritrovata in una grande città, io ragazza di paese.

Tutto mi è apparso subito troppo.

Troppo grande, troppo rumoroso, troppo pieno di gente, di palazzi, di strade, auto.

Solo gli alberi non mi sono sembrati mai troppi.

Anche ora quando sento la mancanza di casa o il senso di infinita piccolezza mi assale, allora trovo un momento per uscire e rifugiarmi sotto un albero.

Ne ho bisogno come dell’aria che si respira.

Basta toccare il fusto di una pianta per farmi ritrovare la pace. Mi piace sentirne la rugosità della corteccia, ammirarne il colore di foglie o fiori, cercare tra le fronde qualche frutto, annusare l’aria per coglierne l’essenza.

E così è scoccato l’amore: un giorno di inizio autunno mi sono ritrovata inebriata da un dolce profumo, qualcosa di simile alla pesca.

Intorno a me, sotto il cielo grigio e una lieve pioggia, solo alberi incendiati dai caldi colori autunnali e qualcuno ancora con le sue foglie verdi.

Annusavo il cielo come se avessi fame d’aria, volevo capire da dove arrivasse una fragranza tanto intensa e inebriante. Eccolo lì: un piccolo arbusto con le foglie verdi e dei piccoli fiori riuniti a grappoli.

Piccoli sì, ma che delizia per le mie narici!

Da allora ogni autunno mi piace giocare alla caccia all’Osmanto, questo il nome del mio amato albero. Ovunque mi trovi, giro col naso intento a captare quel delizioso profumo capace di strapparmi un sorriso nonostante l’aria grigia e infreddolita dei primi freddi di stagione.

E mentre gioco mi domando se questo mio amore per le piante dipenda dal fatto che deriviamo entrambe da un piccolo seme. O possa essere il preannuncio per la mia reincarnazione in una pianta.

Se ci credessi davvero, non mi dispiacerebbe svettare col mio fusto verso l’alto del cielo e con le mie fronde sovrastare i tetti delle case e le persone che passeggiano.

Ah…

A meno che non mi tocchi reincarnarmi in un bonsai. Senza nulla togliere al bonsai, sia chiaro.

Alice Mantegazza è nata nel 1976 a Saronno dove vive e lavora come insegnante di scuola d’infanzia. Le piace inventare storie, soprattutto quelle da raccontare ai suoi piccoli alunni. (Presente in antologia anche con vignetta).

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di Daniele Crotti

Nell’ospedale da campo appena fuori Mariupol, a ogni colpo di tosse del dottor Vladimir Ivanov, Anton Kovalchuk si passava sul viso la mano destra graffiata. Disteso su una branda, lo fissava per qualche istante, in uno stato d’assenza che solo i soldati sfiniti lasciano intendere. Aveva pena nel vedere il suo vecchio compagno di stanza all’università curare soldati feriti da tre giorni, senza pause e con una tosse insistente. Otto anni prima avevano vissuto nello stesso appartamento a Mosca, per qualche mese. Vladimir Ivanov veniva da Samara, nella Russia centro-orientale. Anton da Odessa, nell’Ucraina del sud. Uno studiava medicina, con una passione per le malattie dello stomaco. L’altro faceva ingegneria, ma con più interesse nel farsi distrarre dalla gentaglia nelle vicinanze dell’università. Pochi giorni prima che Vladimir andasse a vivere con lui, Anton era nervoso. Non ne poteva più di stare da solo. Voleva un compagno di stanza, soprattutto per giocare a scacchi. E lui e Vladimir cominciarono a farlo spesso. Quando vinceva una partita, Vladimir gli diceva sempre: – E Karpov batte ancora Kasparov! – Anton era ucraino, non era nato in Azerbaigian come Kasparov. Ma a Vladimir bastava per poterlo prendere in giro. Questo era il gioco. Per lui, solo i russi erano bravi con gli scacchi. E quando perdeva, dava la colpa alla stanchezza. Lui studiava medicina. Nessuno doveva dimenticarselo. Poi però, passato l’inverno, Anton aveva cominciato ad uscire da solo la sera. Girava con persone che gli avevano promesso molti soldi e che non avrebbe dovuto ascoltare. Ad un certo punto, lasciò l’università e Vladimir non lo vide più. Fino a quando, durante le visite del pomeriggio, se lo era ritrovato nell’ospedale da campo, con una ferita profonda al fianco. Nonostante la barba lunga, Vladimir aveva riconosciuto Anton al primo sguardo. La ferita non era mortale ma servivano antibiotici e un po’ di sangue. Vladimir lo disse all’infermiere. Antibiotici e sangue, così disse. Poi se ne era andato dagli altri soldati feriti, senza dire nulla ad Anton, che ora stava aspettando da tre giorni la visita di controllo. Gli antibiotici cominciavano a fare effetto. Il sangue era arrivato il giorno prima. Giunto il turno di Anton, Vladimir si avvicinò, reprimendo un colpo di tosse. Controllò la ferita, fece un cenno all’infermiere e proseguì. Anton avrebbe voluto che Vladimir gli ripetesse ancora per una volta la storia di Karpov. Che lui era russo e lo aveva curato perché era il più bravo di tutti. Dopo pochi passi, Anton lo sentì tossire e piano piano si addormentò.

Daniele Crotti è un ricercatore universitario in Economia, con la passione per le arti espressive. Quelle che liberano l’energia e la poesia dentro noi stessi. Musica jazz e racconti fulminanti sono le cose di cui si nutre con maggior curiosità.

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