di Ingrid Confalonieri

Scosto la tenda della cucina, è mattina. Molti di noi sono già usciti di casa, chi al lavoro, chi a scuola, accecati da lampade a led. I miei cani raggomitolati come gatti sulla brandina del balcone. Il freddo umido della città li unisce, la coperta in pile arruffata, stanno al caldo. Sollevo gli occhi, cielo grigio oggi, unico spicchio tra i palazzi, grigi pure loro. Le previsioni meteo ci illudono sempre, l’aspettiamo da un po’. Da anni. La neve dell’infanzia, la ricordo e sorrido. Guardo l’orologio. Abitudine. Gli alberi spogli, il vento ha spazzato via le ultime foglie, paiono scheletri. Le siepi sono ancora verdi, lo sono sempre. I pini in giardino soffrono, troppo caldo quest’estate, la poca acqua li ha provati, dovrebbero stare lassù sul Monte Rosa, nel gelido bianco. Mi volto, il calendario è appeso sul fianco del frigorifero, non ho pareti degne di accoglierlo, di carta, nasce da un albero, amico-nemico dello scorrere del tempo, parente lontano del mio orologio elettronico, smart. Uno sguardo fugace alla ricetta del mese riletta mille volte nei trenta giorni passati. Devo voltare pagina, nuovo mese, nuova ricetta, ultima del 2023. Una torta. Tanti giorni rossi! Le feste di Natale si avvicinano. I parenti, gli amici, i regali. Cosa manca, a chi. Cosa serve. Dove. Le clementine nel cartone del supermercato, le ho lasciate al freddo della notte, frutti di piante del caldo sud, a Gianluca piacciono così, ai miei denti no. Faccio entrare i cani. Il maltese, nel cappottino imbottito rosso, ringrazia. Un campanello, il microonde suona, il mio latte è caldo, poco caffè, zucchero di canna, giusto una punta di cucchiaio senza esagerare. Caffè, canna da zucchero, ma come ci sono finiti nel mio latte? Piante nel latte, che bontà. E le clementine dalla Calabria, viaggiano in camion, raccolte immature. Dovremmo tutti avere una pianta del cuore. Che ci faccia stare bene, in sintonia col tempo, il clima e gli umori. Tante nuove piante che ci riportino le stagioni di quando ero bambina. Oggi ci sono bambini che non hanno mai visto la neve, non tanta quanta ne ho vista io, nel 1986! Clic, si accende una luce, un’idea in testa. Il motivo di una canzone che cantavo da piccola, con mia sorella e la mamma. Quest’anno regalerò alberi, ad ognuno il suo. Mi divertirò a sceglierli. Li pianteranno per noi, piccoli semi, e li lasceremo crescere là dove devono stare, dove è giusto che stiano, nella loro terra, bagnati dalle loro acque e riscaldati dal loro sole. Che respirino con noi, per noi. Per il futuro della Terra.

Ingrid Confalonieri. Nata a Milano, classe 1970, vive a Varese, studia e lavora come ragioniera, ma da sempre coltiva una passione per l’arte, la poesia e la letteratura gialla. Amante degli animali e del giardinaggio oggi si diletta a scrivere poesie e racconti brevi.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)


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di Silvia Faini

C’erano giorni, lassù in collina, in cui le raffiche di libeccio erano così forti da far gemere di dolore le canne. La salvia e la lavanda, invece, assaporavano il profumo salmastro del vento che solleticava loro le foglie.

Io – radici salde come funi – me ne stavo piantato in mezzo al giardino, incurante delle folate che mi scompigliavano la chioma e strappavano piccole olive verdi dai rami più esili. Guardavo zia Santa, che usciva in fretta da casa, sprangava le ante e sfiorava con dita premurose i gerani. Aspettavo una sua carezza, che non mancava mai, poi la osservavo rientrare, sedersi accanto alla finestra, inforcare gli occhiali e leggere, lasciandosi andare al sonno, nei pomeriggi afosi, quando attorno al rosmarino in fiore ronzavano ansiose le api.

Dal poggio il mio sguardo si spingeva, oltre il borgo di case in pietra, fino al lecceto, all’uliveto grande e infine al mare, lucente e liscio come seta nei giorni di bonaccia, infuriato e livido nei giorni di maltempo.

Il fuoco, però, non lo vidi arrivare. Lo sentii nell’aria, me lo sussurrarono ginestre e lentischi terrorizzati che avvistarono le lingue rossastre lambire i primi cespugli. Tremavo.

Folle di paura, inerme e impotente, lo guardavo salire, mangiarsi sorbi e allori, carpini e sambuchi. Avrei voluto sradicarmi da lì, fuggire, salvarmi.

Zia Santa, trafelata, i corti capelli bianchi ritti sul capo, pompava l’acqua dalla cisterna e ci bagnava, ci bagnava in continuazione, mormorando fra sé: “Fatevi coraggio, fatevi coraggio”. “Vattene almeno tu!” le gridai, ma lei mi passò accanto, mi accarezzò il tronco nodoso, poi, quasi avesse capito, scosse la testa e mi restò accanto, guardando insieme a me il fuoco che lambiva il borgo, respirando con me l’odore acre del fumo, piangendo.

Inatteso, un frastuono esplose sopra la collina e un enorme elicottero, gravido d’acqua, si precipitò verso le lingue roventi e le annegò in una cascata di pioggia. Zia Santa, stordita e felice, cominciò a ridere asciugandosi le lacrime, poi, con dolcezza, batté la mano sul mio tronco. “Siamo salvi – mi disse infine sospirando – siamo salvi!”.

Silvia Faini ha lavorato come insegnante, traduttrice, redattrice; ha scritto fiabe, racconti, romanzi brevi. Ha partecipato a numerosi concorsi letterari classificandosi al primo posto e ha pubblicato con Mondadori e con editori meno noti.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Il presente microracconto è un tributo a una delle coppie più controverse e mai ufficializzate dall’autrice all’interno del Fandom potteriano: lasciando correre la fantasia a briglia sciolta, Draco Malfoy suona in memoria del suo amore, Hermione Granger, perduta a causa dell’inesorabile. A causa dell’Oscuro Signore.

Di Jessica Tommasi

Sollevò il mento, la cinerea luce ne investì il viso quando dense ombre marcarono i lineamenti del giovane, consunto dal dispiacere.

La tramontana ne sferzò gli zigomi affilati come pugnali, ululò tra i merli del mastio, scompigliò le vesti del pianista. Questi sfiorava con trasporto lo strumento d’ebano: ogni gesto, ogni postura eseguita con plateale austerità.

Per un istante pensò di essere perduto e vacillò, poi però gli sembrò di percepire quell’odore, quell’effluvio di pino. Il ricordo era nitido, un indelebile affresco nel flusso della memoria.

Lame di luce gli offuscavano lo sguardo, colori caleidoscopici giocavano creando riflessi sui propri capelli biondissimi. Ciononostante…

Lei era lì, e ciò era sufficiente.

Lei era lì, avvinghiata a lui sopra una trapunta di aghi secchi. Per Merlino se pungevano la schiena, ma lei era di nuovo lì, con lui, e ciò rappresentava più di quanto avrebbe mai potuto desiderare. Sussurrò qualcosa all’orecchio, quindi baciò le labbra di lei.

Teneri petali vermigli, vellutata materia dei sogni.

«E se dovessi spiccare il volo? Se dovessi raggiungere le stelle, lassù, e unirmi a esse per vegliare su di te?»

La voce riecheggiò carica di turbamento, le braccia risvegliate da un tremito, i riccioli bruni scossi da un Oscuro Presagio. Eppure ebbe la determinazione di stringerlo a sé, annegando nel pregnante profumo di colonia e di verdi mele appena colte.

In quell’algida atmosfera ove tutto è destinato a concludersi o forse a rinascere, v’erano i loro cuori a sancire un ritmo differente: vivace, andante, poi largo e presto.

Battiti che si incespicavano in sinusoidi (im)perfette. «Ti accompagnerei senz’altro. Continuerei a comporre sinfonie che portino il tuo nome. Nel perpetuo perpetrarsi.» Un gufo bubolò in lontananza.

Dischiuse gli occhi, rivelando due abbacinanti acquitrini azzurri, ed ebbe la fugace visuale delle dita in movimento, degli arti in preda alla trascinante passione che nutriva per il pianoforte.

Era come estraniato dal mondo, distaccato dalla mesta, caduca dimensione terrena.

Scrutò gli astri rifulgere nell’incommensurabile volta celeste, al cui confronto ognuno non è che un chicco di miglio, rivolgendo loro una preghiera muta.

Ardono ora le lacrime, tizzoni ardenti, con l’ennesimo cingere d’arti che doni all’atmosfera, l’ennesimo sospiro che vira nel tacito nulla di parole trattenute a stento.

(Soprav)vivi nell’infimo spazio a cui altri ti hanno designato.

La solitudine sarà l’unica ad attenderti, senza sconti di sorta. E in ogni momento una stilla di cadmio liquido lorderà il tuo cuore, reso di fuliggine, goccia dopo goccia.


Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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LETTURE E ALTRE ARTI, con una finalità

Il consiglio dato tante volte, e che chiunque vi potrebbe fornire, è di leggere. In particolare ho specificato di rileggere più volte l’autore e le pagine preferite. Vorrei andare a fondo, nel consiglio.

A noi interessano solo le letture che ci danno uno stimolo. Non siamo semplici lettori che leggono per piacere. Vogliamo diventare scrittori, e quindi tutto sarà in funzione di questo, a partire proprio dalle letture, che sono certo alla base dei nostri desideri e che ci hanno incoraggiato.  Selezioniamole e, come abbiamo imparato a fare con le parole superflue, interrompiamole se non rispondono alla nostra esigenza. Un invito alla fantasia.

Finalizziamo la lettura a uno studio di stile e struttura. Cerchiamo di capire come sono formate le frasi, i periodi, i singoli capitoli e come tutto il romanzo e la storia stanno in piedi. Non per imitare, ma per trovare incitamenti.

Ugualmente le altre arti. Un quadro ci ispirerà idee narrative, così come l’ascolto della musica o l’andare a teatro. Di un film non ci interessa più di tanto il giudizio della critica o del pubblico, ma quali ispirazioni promuove in noi. E anche in questo caso rivediamolo senza contare le volte.

Cinema, arte, musica, teatro accompagnano la vita di tutti. La nostra in modo singolare.

continua il 6 luglio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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di Mita Bolzoni

Morivano tutte all’ombra delle nostre foglie.

Si accovacciavano senza un lamento e lasciavano che la vita le abbandonasse.

Nessuno riusciva a capire perché.

Noi potevamo solo custodire tra i rami il silenzio che le avvolgeva e le conduceva lontano, nel posto da cui nessuno torna. Vennero uomini vestiti di bianco, parlavano sottovoce, compievano i pazienti gesti necessari per scoprire le cause, per rimuovere i corpi che di giorno in giorno aumentavano. Anch’essi godevano della nostra ombra, nel duro lavoro senza risposte.

La recinzione che proteggeva la riserva, di cui gli uomini vestiti di bianco andavano fieri, in quei giorni finì per delimitare un misterioso inferno.

Sono state avvelenate, dicevano, qualcuno vuole distruggere il nostro paradiso.

Le nostre foglie oscillavano giocose nel breve vento del mattino, cullando i loro dubbi rabbiosi.

Intanto i corpi si ammucchiavano con solenne dolcezza ogni notte, sotto una stupefatta luna, poggiando le lucide schiene ai nostri tronchi nodosi, tentennando le grandi corna ritorte, guardando un punto distante.

Indagarono, capirono, non era come sospettavano.

Nessun bracconiere le aveva avvelenate, i loro stomaci erano risultati vuoti.

Le antilopi si erano lasciate morire di fame.

Fu così che la recinzione del paradiso cominciò ad essere guardata con occhi nuovi, perché avrebbe dovuto preservarle da ogni pericolo ma si era rivelata la loro tomba.

Erano morte le antilopi, sempre di più, erano morte ai nostri piedi e nessuno aveva potuto fare nulla.

Tra i nostri rami restava impigliato soltanto il loro ultimo desiderio: fuggire.

Ma anche noi non possiamo fuggire, siamo alberi di acacia, e le antilopi prigioniere in quel paradiso non facevano che nutrirsi di noi, continuamente.

Non avevamo scelta, dovevamo difenderci.

Le nostre foglie predate oltremisura reagirono producendo tannino, che le rese impossibili da digerire, mentre dai nostri pori si sprigionava rapido il gas etilene, che raggiunse le nostre sorelle e le avvertì del pericolo, cosicché anch’esse potessero difendersi nello stesso modo.

La tossina aumentava nelle foglie, ogni giorno di più. Nessuno poteva fermarci, eccetto le antilopi, che avrebbero potuto bloccare la produzione di tannino semplicemente spostandosi a cercare altre piante.

Ma non potevano.

Prigioniere della riserva, si nutrirono di noi finché capirono che eravamo cambiate.

Allora pur di sfuggire al veleno si lasciarono morire di fame. Cadevano all’ombra delle nostre foglie, cercando con gli occhi umidi alberi irraggiungibili, che crescono solo dove la terra è libera.

Mita Bolzoni è nata a Como il 24 giugno 1970. Si occupa di teatro, scrittura e pittura. Il lavoro sul corpo in scena guida e ispira anche i suoi racconti e i suoi quadri. Vive sulle montagne del Lario e la natura è la sua fonte di ispirazione quotidiana.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Guarda me. Gli occhi mi sfiorano, viola, con una luce intensa, misteriosa. Il colore dei fiori di lavanda. La sconosciuta è così vicina da sentirne il profumo. Ricorda i prati e le corse nel vento. Posso vedere il gesto nervoso con cui si aggiusta i capelli. Biondi. Però è lontana, perché non posso andare accanto a lei. A ogni mio tentativo si confonde di nuovo tra la folla. Una macchia bionda e viola tra questa gente chiassosa. La folla dell’Ippodromo, la sera.
Non ho mai visto tanti spettatori come per questa corsa e non ho mai visto una donna così bella. Deve avere mani morbide e tiepide, per accarezzarti. Invece stringono il programma delle corse.
Si allontana distratta, con l’attenzione ormai catalizzata altrove. Eppure mi ha visto, ho sentito uno sguardo viola bruciarmi sul collo anche mentre non ero più rivolto a lei. Forse mi ha scelto.
È sola, nessun maschio in giacca di lino e portafoglio rigonfio al fianco.
Va verso il picchetto, a puntare sulla prossima corsa. Non riesco proprio a seguirla. Ho già nostalgia di quello sguardo e delle carezze che non mi ha dato. Ma potrebbe. “Fantini in sella”. Chiamano i cavalli per la quarta corsa. La corsa a vendere. “Cavalli in pista”. Gli altoparlanti sono fastidiosi, stasera. Vorrei avere nelle orecchie solo il rumore di ruscelli che scorrono, nei prati viola di fiori. È salita in tribuna, ha un piccolo binocolo. Forse lo punterà su di me. “I cavalli sono all’ordine dello starter”. Inizia la corsa. “Partiti”. Zoccoli, frustini, zolle d’erba, le urla dei giocatori. Partiamo: le mie zampe, più leggere che mai. E veloci. Corrono come sui prati. Dove sono gli altri? Sento, dietro di me, rumore di fango calpestato, lontano. Non i respiri umidi dei cavalli, solo le redini leggere sul collo e le piccole cosce del mio amico in giubba colorata. Qualche voce dalla tribuna.
Ho vinto, esultano i pochi che avevano puntato su di me. Le mani del fantino mi sfiorano il collo: cuoio bagnato di sudore. O sono io che sono fradicio e il suo calore si confonde con l’eccitazione che il piccolo trotto degli zoccoli non calma, e neppure l’aria profumata che mi fischia nelle narici.
Ho vinto e il fieno croccante sarà doppio. Forse lei ha vinto con me, ed è una corsa a vendere. Eccola. Sventola felice il programma e mi fissa con i suoi occhi viola. Esco dalla pista accanto a lei. Avevo ragione: ha mani morbide.
Ci avviamo insieme al tondino. Sfilerò con gli altri mentre inizierà l’asta. E lei sarà la mia compratrice e io il suo nuovo amore.

di Angela Borghi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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E I “DIRITTI SENZA PACE”

di Davide Maria De Filippi

Per andare alla radice dell’attuale situazione di urgenza e di fatica nella realizzazione della pace in Ucraina dovremmo partire dall’analizzare il complesso rapporto tra guerra e pacifismo.

Pacifismo e pacificazione sono le due facce di un’unica medaglia il cui fulcro centrale è, da sempre, la storia dell’idea che la “guerra giusta” non esista.

Oggi la “pace spezzata” non è il vero problema dell’Unione Europea perché il suo vero problema è la “pace impossibile”.

Per poter ambire ad una “pace per tutti” urgerebbe l’instaurazione di un “nuovo umanesimo” basato proprio sui concetti di pace e di giustizia.

La vera “patologia” della contemporaneità, oggi, infatti, è l’evoluzione etica delle istituzioni politiche e del loro patrimonio valoriale, come la vera “sfida politica” è tradurre l’assioma che segue la linea che parte dal Kant, del “Progetto per una pace perpetua”, e passa per il Kelsen, de “Il problema della sovranità”.

Il processo di democratizzazione del sistema internazionale, tappa fondamentale per il raggiungimento della “pace perpetua”, non può discostarsi dalla “cura” di questa “patologia” in una dimensione sovranazionale.

La guerra in Ucraina ha bisogno “dell’astratto” perché essa stessa, almeno nella modernità, scaturisce “dall’astratto” poiché altro non è che una “rivolta” compiuta contro “l’immanente”, contro uno “stato di cose” ed un “determinato” stato dei fatti.

Le organizzazioni delle Nazioni Unite si sono poste, a salvaguardia dello “jus gentium” proprio per evitare che la guerra diventasse una aggressione immotivata che calpestasse il diritto internazionale che, nella contemporaneità, ha sostituito il cosiddetto “vincolo religioso”.

Effettuare una riflessione sul senso della pace necessita inevitabilmente farne anche una sul concetto di “spiritualità di guerra” interrogandosi sul senso ultimo di cosa, realmente, rappresentino la spiritualità e la pace.

La pace, quindi, come “il risultato” della priorità delle esigenze spirituali su quelle materiali e sulle disuguaglianze sociali, vere “radici” dei conflitti moderni.

Effettuare una riflessione sul “senso” della pace e della spiritualità non può, pertanto, che partire proprio dal concetto di “vivere in uno spirito di cooperazione e di servizio”, condotta che, da sola, potrà cambiare le coscienze e riuscire a trasformare il mondo intorno a noi.

Compiere un atto gentile e disinteressato ha sempre un impatto enorme, anche se semplice, perché il potere accumulato da questi “gesti invisibili di servizio” potrebbe definire l’intera vita di una persona, lasciando “le cose” in una condizione migliore di quella di partenza.

I due polmoni d’Europa, Mosca e Roma, hanno avuto, negli anni scorsi, davanti a loro l’occasione di ricomporre la secolare frattura fra occidente ed oriente cristiano, nonostante i peculiari caratteri dell’identità e della geopolitica ortodossa.

L’ennesima occasione, ad oggi, purtroppo, mancata con una faglia che si allarga sempre di più giorno dopo giorno, esplosione dopo esplosione, vittima dopo vittima. La realtà, purtroppo, è sempre quella e continuerà ad esserla anche dopo che il “teatrino del bene” avrà chiuso il sipario. Perché la società alla fine è solo un gioco le cui regole sono scritte nel codice morale anche se nella vita forse ci dovrebbero essere delle cose più importanti degli “sfregi”. Ci dovrebbe essere, per esempio, il pensiero con la p maiuscola, quello “della teoria e della giustizia”. Quello di una Ucraina pacificata, ricostruita e “migliore” di quella di prima.

Davide Maria De Filippi è nato a Marsala l’8 settembre 1983. Nel 2006 consegue il titolo di dottore in Relazioni e politiche internazionali alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Palermo. Appassionato d’inchieste giornalistiche, ha vinto premi in vari concorsi.

Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)


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di Alda M.C. Torri

Boschina di Crenna, autunno 1996 Mi trovo in tinello nella casa dei nonni di Sabrina. Ho un piano decorato di foto, tre cassetti e due sportelli. Tazze da tè, pacchetti di biscotti, bicchieri di ogni tipo e una grappa al miele all’interno delle ante. In un cassetto ci sono i centrini lavorati a uncinetto dalla nonna, bottoni e delle lettere. Nell’ altro si mescolano i coltellini da intaglio, le sigarette e altre cianfrusaglie del nonno.

Nel cassetto centrale c’è il mio segreto.

I nonni non riescono ad aprirlo. Non possono. Hanno smesso di provarci e ritengono che sia bello così. Nonna Vittoria ha avvitato un pomello in rame con al centro un cuoricino azzurro smaltato. Ora è perfetto.

Il mio destino va oltre all’immaginazione, perché io, in realtà, non sono ciò che si vede in questa casa.

Primavera 1973

Sabrina è una bimba di otto anni e vive dai nonni in campagna. Gioca in solitudine, disegna o lavora a maglia con la nonna sempre all’ombra di un maestoso albero di noce, vicino alla casa di Vittoria e Dino.

Si accuccia tra le radici del fusto e racconta all’albero tutto quello che le passa per il cuore. Il noce l’ascolta e lei percepisce le sue risposte. Gli anni passano, Sabrina cresce, il mondo intorno è cambiato e un po’ lo teme. Una delle certezze, che vibra nella sua anima, è la pace che avverte tra le fronde, i malli e l’ombra del suo albero di noce.

Quella pianta sono io.

Estate 1994 In un afoso lunedì Sabrina cammina in città e una macchina non la vede. Ci vorrà più di un anno per recuperare i danni subiti. Durante la convalescenza torna sempre nel mio abbraccio e le sue lacrime si confondono tra questi forti rami. Una notte, però, la mia sorte arriva violenta. Il temporale si abbatte per la campagna e un fulmine mi squarcia il tronco. Il fuoco è stato un’implosione dolorosa. Nonno Dino mette insieme quello che rimane di me e costruisce ciò che sono ora. Non è possibile, tuttavia, aprire il cassetto centrale. È lo spazio sacro del segreto che devo custodire.

Inverno 1997

Una sera Sabrina coglie il mio richiamo.

Si avvicina e con delicatezza disegna i contorni del cuore inciso sul pomello. Guidata dalla nostra magia, prova a tirare il cassetto che si apre. Trova un pacchetto di carta velina nel quale è avvolto il maglioncino fatto da lei tre anni prima e che, da allora, è sparito. Lo stringe stretto al cuore.

Capisce che dal giorno dell’incidente lo spirito del suo bambino ha dimorato nell’albero tanto adorato, il Signore delle Drupe.

Sente l’amore pervadere ovunque in un intenso profumo di mallo e ritrova la pace.

Alda M.C.Torri, 56 anni, vive in provincia di Varese. Ama disegnare e scrivere. Nel 1990 vince un concorso con la raccolta di poesie “L’epopea dell’illimite ” edito da Lalli Editore. Scrive di sogni, stranezze e ironiche avventure per chi ha voglia di stupirsi e di essere imprevedibile.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Sabrina Colombo

Da qualche anno mi racconti di te, di quanto tu sia infelice e delusa.

Hai condiviso le tue emozioni in una primitiva rabbia ma poi sei sempre tornata la donna piena di attenzioni che un tempo mi teneva tra le mani e che, con un piccolo gesto d’amore, mi ha fatto fiorire.

Mi hai curato e potato con immenso rispetto. Sapevi sempre quale era la cosa giusta da fare fino a trasformarmi, con una fitta chioma, in un bellissimo faggio.

Nei lunghi anni passati insieme mi abbracciavi ed io, con movimento impercettibile, mi muovevo nell’aria per avvicinarmi a te con ogni piccola frasca.

Meditavamo insieme e mentre sentivi la musica delle foglie mi sussurravi che ero il tuo maestro. Il tuo respiro è diventato il mio e nel mio c’era il respiro della vita.

Un rumore assordante mi fa sussultare e sento svanire il leggero ed universale filo di unione tra me e gli altri alberi del bosco.

Non posso più tenerti all’ombra dei miei rami perché sono stato abbattuto da chi pensa di averne il diritto.

Ora non sono altro che un foglio di carta, dedicami ancora le tue più intime emozioni e magari scrivi una lettera d’amore, per me.

Sabrina Colombo ama stare nella natura, osservarne i dettagli e ascoltare il suo silenzio. Disegna e dipinge ma le sue passioni più grandi sono la cucina e la fotografia.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Di Anna Di Narda

La maniglia girò lentamente senza fare rumore, la porta d’ingresso si schiuse lasciando fuori la notte giovane e argentata. Mi infilai nell’ ingresso odoroso di fumo come un fantasma, una creatura angosciata che voleva nascondersi. Puzzavo di vomito e vergogna. Non so se quest’ultima abbia veramente un odore, non lo saprò mai, ma io me la sentivo addosso: qualcosa di dolciastro e acre al tempo stesso! Ti vidi riflessa nello specchio vicino alla porta del bagno. Non mi colpì solo l’innaturalezza della tua posizione, qualcosa brillava alla luce gialla dell’abat-jour. Una lacrima si faceva strada, piccola e luminosa, là dove le ciglia si diradano e lo smeraldo dei tuoi occhi si accende. L’immagine mi si stampò in fondo alla cornea, attraversò il nervo ottico e si riprodusse nel mio cervello: fu come ricevere un pugno diritto nello stomaco, un colpo basso inatteso, una realtà che volevo dimenticare, stordendomi di fumo e alcool. Da maledetto giocatore d’azzardo incallito, per quattro assi avevo venduto tutto: la mia casa, il mio matrimonio, la mia vita. Mi ero umiliato elemosinando soldi, costringendoti a fare più lavori per pagare l’affitto. Tu, che non meritavi uno come me, incapace di vincere la sua ingorda speranza!  Perché in fondo noi non facciamo altro che credere che la prossima volta andrà bene, che non è possibile che vada ancora male. L’attesa, è il tormento più grande. Non t’importa neppure che carte usciranno nella prossima mano, se tu chiuderai una volta per tutte i sospesi. No! Nella tua mente sei impegnato a pensare dove trovare altri soldi, dove giocarli e con chi!”. “Vale ancora la pena di vivere? Che domande ti fai Gino, certo che vale – mi risposi senza pensarci su. “Ma c’è qualcosa di strano! Giada è troppo tranquilla, non ha alzato lo sguardo pur avendoti sentito – continuai a dirmi. Ero sicuro di questo ci avrei scommesso una mano a poker persino!  Ma non avevo più nulla da dare in pegno, nulla! Mi ero giocato la nostra utilitaria il giorno prima e quella sera chiesto un prestito al “Nero” un personaggio che speculava sulle dipendenze altrui. “Cinquecento euro e a fine serata te ne do mille”! – lo avevo supplicato a lungo. E lui a non crederci e io a promettere, a dare il mio indirizzo di casa, a giurare che mia moglie aveva i soldi nel cassetto, lo stipendio appena riscosso! Neppure i vermi strisciano così in basso. L’ho fatto e all’una di notte ero fuori dal “Chris” disperato che piangevo come da bambino quando vedevo mio padre lanciare piatti e stoviglie, assestare due sberle a mamma e a me e poi sbattere la porta di casa diretto al pub. “Non diventerò mai come lui” – avevo giurato a me stesso! Sulla soglia della camera, i capelli appiccicati al viso, ti guardai. Fu allora che mi accorsi di cosa nascondevi nell’incavo fiorato del copriletto, tra le ginocchia: la mia berretta di guardia giurata, per anni custodita in cassaforte era tra le tue mani, puntata verso me. Sorrisi, alzai le braccia quasi a schernirti, ma tu non dicesti nulla. Silenzio… e solo quel clic, un piccolo rumore a finire la mia vita all’improvviso, come quando nei film appare la scritta “End” mentre ci aspettiamo una spiegazione, un chiarimento, vogliamo ancora capire. “Non che non me lo fossi meritato!” – pensai e negli occhi mi rimase quell’ultima immagine: un grande squarcio attraversava il cassetto bianco accanto al letto, come se qualcuno con forza lo avesse sfondato!

Anna Di Narda, impegnata nel sociale e innamorata del suo Friuli e dell’Italia, scrive in italiano e in friulano. Ha pubblicato poesie e racconti, e il suo primo romanzo “Storie ordinarie di donne straordinarie” nelle Edizioni La Gru. Ultimamente “I colori del tuo amore”.

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