di Monia Casadei

Sono stata pienamente felice fino a nove anni.

La guerra m’ha ghermita che non avevo dismesso i calzettoni ed i codini.

La prima ad arrivare fu la cavalleria.

Avevano muli, cavalli, carri.

Sembrava un accampamento di gitani in divisa.

All’inizio mi colse uno sbalordimento d’occhi, come di circo allestito in mezzo all’aia.

S’insidiarono da noi per la posizione svettante, una guelfa di zolle a presiedere la valle.

Dopo di loro arrivò il commando radio.

Divenimmo un presidio militarizzato, nostro malgrado. Le galline sgambavano confuse, innervosite dalle strumentazioni spanse nel cortile. Per un po’ smisero di deporre.

Vagavano disordinate, spaesate.

Poi s’abituarono, come noi.

Per cogliere le uova scavalcavo una rete di cavi, di parole incomprensibili.

I soldati mangiavano con noi, dormivano nella stanza di mio fratello, parlavano una lingua tagliente, spigolosa. Non capivamo nulla.

Col tempo furono gli occhi, i gesti ad affratellarci.

Erano giovanissimi, disorientati quanto noi alla fin fine.

Con parole ibride (che non conoscono nazionalità distinte, se non quella che si crea tra profughi d’origini diverse, come eravamo tutti in quel contesto sospeso) ci fecero capire che il nostro rifugio non era sicuro.

Scavammo un recesso più remoto, dove ci rifugiammo poi, salvandoci dall’offesa aerea americana, che, per sgominare il nemico in fuga, non si fece scrupolo di sterminare italiani innocenti, finanche partigiani resistenti. Il giorno di San Pietro le bombe cadevano dal cielo come rovesci.

Sotto la pianta di noce non riuscivo a distogliere lo sguardo.

Sembravano gocce d’oro contro sole.

Ma quando arrivavano a terra radevano al suolo tutto.

S’alzava un fumo disperato da valle, di morte e rovina.

A noi distrussero la casa. Rimase in piedi solo la stalla.

E il cavallo, dentro.

Tremò forte, a lungo.

La guerra ha leggi inumane, per antonomasia. Legittima un’empietà che l’uomo dissimula meglio in tempo di pace.

Le pene dei crimini cambiano in base al contesto.

La pena dei morti e dei superstiti, invece no.

Un vicino sparò a un tedesco introdottosi in cortile per un’operazione di perquisizione.

La regolamentazione di quella guerra voleva che, per ogni tedesco ucciso, venissero sacrificati dieci italiani.

Lo salvò (ci salvò) un conterraneo che intercedesse dichiarando che il colpevole era un mentecatto.

Fortunatamente il soldato in questione non era morto, ma solo ferito. La cosa si risolse lì, raggelante.

Oggi questi racconti sembrano iperboli. Ma basta guardare il telegiornale e li ritroviamo intatti, indeclinabili.

Io piango i miei cari assieme agli ucraini, affratellati.

Piango Dio che ogni volta muore.

Monia Casadei, nata a Cesena, è psicoterapeuta. Scrivere per lei rappresenta una catarsi incoercibile fin dai tempi degli studi classici. Con poesie e racconti consegue il primo premio in diversi concorsi letterari nazionali e internazionali.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

di Alice Mantegazza

Un giorno, all’improvviso, ho capito che cos’è l’amore. Non che io non abbia mai provato prima questo sentimento, ma forse non lo ho mai capito appieno come ora. Certo, mi sono innamorata nella mia vita, come tutti. Prima di un giocattolo, di un cantante, magari anche di un’idea, di un’amicizia, di un ragazzino.

E oggi ho pure al mio fianco un uomo che amo con tutta me stessa. Ma in questi anni, forse, ho semplicemente vissuto l’amore, senza averci mai pensato fino in fondo.

Poi sei nata tu.

Anche qui… amore… amore a prima vista!

Amore nell’accudirti neonata, nel rispondere prontamente ad ogni tuo bisogno.

Amore nel ninnarti e nell’allattarti.

Amore nel leggerti le storie, amore nell’ammirarti mentre dormivi, amore nelle nenie che ti cantavo.

Amore nel vederti crescere.

Amore. E paura. Tanta.

Di perderti. Di vederti soffrire. Di non saperti proteggere.

Poi, l’illuminazione.

Sono al parco con te, bambina mia, che scorrazzi avanti e indietro sulla tua biciclettina rossa.

E all’improvviso mi sono rivista bambina. Mi sono rivista in sella anche io alla mia bicicletta, con la mamma che mi guardava da lontano, seduta sotto l’ombra di un grande albero. Come me bambina, anche tu ora pedali e pedali, veloce come una forsennata, in gara con te stessa e con il tempo. Io ti guardo, col cuore in gola, spaventata per tutta quella velocità. E tu a spingere sui pedali ancora con più forza, come se avessi fretta di arrivare chissà poi dove.

Pedali e pedali e pedali, senza preoccuparti di niente.

D’un tratto perdi il controllo della tua biciclettina. Sbandi di qui e di là, ma non smetti di pedalare.

Inevitabilmente ruzzoli a terra, tu, e la bicicletta con te. Anche tu mamma lo sapevi che sarebbe finita così, quando la piccola ero io. Lo sapevi ma non hai fatto niente.

E io solo ora ho capito il perché.

Ti vedo, bambina mia, lì a terra, con le ginocchia sbucciate, il sangue che cola fino a insanguinare le tue calzine bianche coi volant. Poi vedo una lacrima sul tuo viso. E capisco.

Capisco che non posso preservarti dai fallimenti. Non posso evitarti i dolori e le frustrazioni. Non posso sostituirmi a te perché tu non conosca mai la sofferenza. No. Amare non è questo. Amare è saper tenderti la mano dopo una caduta, dopo averti lasciato provare a farcela da sola sapendo che potrai anche sbagliare.

Amare è esserci sempre ma lasciarti trovare la tua strada. Amare è camminare sempre un passo dietro a te, come un’ombra silenziosa, e asciugare quella lacrima che inevitabilmente ti solcherà il viso, perché di certo piangerai.

E riderai. E cadrai. Ma so che ti rialzerai.

Alice Mantegazza. Nata nel 1976 a Saronno dove vive e lavora come insegnante di scuola d’infanzia. Le piace inventare storie, soprattutto quelle da raccontare ai suoi piccoli alunni.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

di Gaetano Lo Castro

Nella misura in cui vi aprite, coglierete i frutti.

(Da un messaggio di Medjugorje)

Una volta c’era un fico d’India.

Era una giovane cactacea spontanea nata da un semino. Si trovava nel giardino d’una casa di provincia con prospettiva sul mare e sul vulcano.

Nell’abitazione ci viveva uno scrittore. Scrittore almeno nella sua intenzione. Perché scriveva un po’ di tutto, ma non riusciva a pubblicare un bel niente. Il suo scrivere non produceva frutti utili.

Come diversivo gli piaceva accudire al suo giardino. Prediligeva le piante grasse, in particolare il piccolo fico d’India. Col tempo esso crebbe e divenne una pianta alta dalle pale piene di spine. Ma di fichidindia non si scorgeva manco l’ombra. “Non devi abbatterti se sei infruttuoso. Non è da tutti dare buoni frutti.”

Lo scrittore decise di rinunciare alla scrittura. Avrebbe cercato altrove la realizzazione della propria natura. Il suo sguardo andò verso la vetta innevata innalzata nel cielo blu. Sentì nascere un desiderio d’ascesi.

Dispose con precisione l’ultima pietra lavica e quindi osservò con soddisfazione la propria opera appena terminata. Di fianco al fico d’India, nella nicchia di nera sciara, troneggiava la statuetta bianca e azzurra della Madonna coronata di stelle. Colse alcune rose, le mise in un vasetto pieno d’acqua e gliele depose dinanzi.

“Ora il nostro giardino ha la sua Regina! È una sovrana che bisogna amare!”

Il fico d’India ammirò la figura minuta e regale, riposta dentro la piccola grotta sotto le sue ispide pale. Gli ispirava tanta tenerezza.

“E che occorre omaggiare, non solo coi fiori, ma ancor più con la preghiera.”

Si sedette sopra la panchina, si tolse dal collo la corona e cominciò a recitare il rosario. Contemplava Maria, il mare, il vulcano. Meditava i fondamentali interrogativi esistenziali. Sentiva emanare energia tutt’attorno dalla statuetta di Maria. Era come un fluire di linfa nutriente. Era come uno scorrere d’ispirazione trascendente. Ebbe l’impulso di trascrivere tutto. Concluso il rosario corse in casa, prese il PC, lo pose sul tavolino vicino alla Madonnina, l’accese e con lena iniziò a scrivere.

“Complimenti, hai fatto tanti bei frutti!”

La pianta n’era fiera. Le sue pale erano piene di grossi frutti rossi. Usando un guanto l’uomo ne spiccò un poco e li sbucciò. “Sono molto dolci.” disse assaggiandone uno.

Si sedette sulla panchina e aprì il suo libro appena pubblicato. “Ti faccio gustare la mia prima opera. Spero davvero che ti piaccia.”

Lo scrittore prese a leggere al vegetale il suo romanzo, mangiando fichidindia e occhieggiando Maria.

Lei gli sorrideva.

Gaetano Lo Castro. Autore siciliano, scrive romanzi, racconti, pièce, poesie. Molte sue opere sono state premiate e pubblicate in antologie. Un suo romanzo si è classificato 1° in un premio per inediti, è stato pubblicato, ed è giunto finalista in un altro concorso.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

di Alessandro Giulianelli

“È permesso?” Arturo spinse la vecchia porta cigolante. La casa era ridotta male, nessuno ci entrava più da anni. L’uomo guardava in giro rammaricato mentre aiutava la signora dell’agenzia immobiliare a superare la soglia.

“Non ci torno da quando ho preso il mare come soldato semplice”.

“È arrivato molto lontano” constatò lei mentre lui scansava le seggiole.

“Forse anche troppo”.

La donna lo vedeva giù di morale: “Ha belle memorie di questa casa?”.

“Bellissime: ci ho vissuto coi nonni. Lui era sempre alle prese con i rottami, mi portava in giro per l’isolato a vedere se qualcuno stava facendo qualche mestiere per dargli una mano e dirgli come si faceva”.

“E sua nonna?”.

“Lei passava le giornate in giardino. Venga”.

Arturo aprì la porta che dalla cucina dava all’esterno. “La nonna trascorreva la vita a combattere un albero con i fiori rosa”.

“Combattere?” curiosò lei mentre Arturo la portava dall’altra parte del cortile.

“Sì” esclamava “Perché l’albero d’estate metteva un tripudio di fiori rosa e il vento li spargeva per il giardino e in casa. Lei impazziva, lo rimproverava come un figlio” ma l’allegria di Arturo si spense tutta insieme: dove si ricordava, ora spuntava solo un tronco mozzato.

L’uomo si ficcò le mani in tasca: “Già: non è rimasto proprio nulla di questa casa che voglio tenere”.

Arturo continuò il giro mentre l’agente faceva domande:

“Quand’è che i suoi nonni se ne sono andati?”

“Bah” rispondeva aprendo la porta del bagno, “L’ultima lettera è di cinque anni fa”.

“Avevano altri parenti?”.

“Un paio” ribatté Arturo mogio e passò all’ultimo corridoio. Questo dava alla camera dei nonni dove Arturo una volta si ficcava sotto le coperte con loro.

Si fermò, la voce gli tremava: “Senta, non dovrei dirlo a lei ma avrei voluto davvero mollare tutto e tornare quando ancora potevo. Una vita è volata e non me ne sono accorto. Ho pensato che a fargli compagnia ci sarebbe sempre stato quell’albero che impegnasse la nonna, ma immagino che alla fine fosse diventato insostenibile. Doveva vedere come sorrideva quando riusciva a tirar via tutti i fiori”.

Arturo strinse la maniglia, “Ma indietro non si può certo tornare” la abbassò.

Allora spalancò la porta e una fittissima tempesta di fiori rosa lo travolse come un’onda.

“Guardi! La finestra che dava sull’albero era stata lasciata aperta! I fiori si sono accumulati qui!”.

Arturo era pietrificato.

La camera dei nonni era completamente sommersa.

“E come hanno fatto a restare così, senza appassire?”.

“Non lo so” rispose la donna, “Forse la stavano aspettando”.

Alessandro Giulianelli, nato a Roma nel 2003, ha vissuto infanzia e adolescenza tra Bergamo e San Felice Circeo. Attualmente studia e vive a Milano e frequenta la facoltà di Giurisprudenza presso l’università Statale.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

CINEMA E SCRITTURA, chi è nato prima?

Il cinema lo cito spesso. Qualcuno suggerisce di immaginare, scrivendo, le proprie pagine come se si vedessero sullo schermo. Bene. Molto bene.

Ci esprimiamo con parole, e le parole diventano immagini. A volte sono scenette da rappresentazioni amatoriali, ma in esse a ben guardare c’è la ricerca iniziale d’immagini forti, ben visibili. Esagero: epiche.

C’è ancora oggi qualcuno che si ostina a non considerare il cinema un’arte. Qualcun altro, al contrario, lo definisce la più autentica delle arti, perché moderna. Unisce il lavoro di molti, dal fotografo al costumista, dallo sceneggiatore al regista. Un lavoro d’equipe.

Condivido l’idea di uno scrittore che nella scrittura vede tutte le altre arti, dalla musica all’architettura, dalla poesia alla scultura. E il cinema nasce dalla scrittura. La mancanza di autori e di sceneggiatori si riflette nella sua crisi.

continua il 13 luglio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Il presente microracconto è un tributo a una delle coppie più controverse e mai ufficializzate dall’autrice all’interno del Fandom potteriano: lasciando correre la fantasia a briglia sciolta, Draco Malfoy suona in memoria del suo amore, Hermione Granger, perduta a causa dell’inesorabile. A causa dell’Oscuro Signore.

Di Jessica Tommasi

Sollevò il mento, la cinerea luce ne investì il viso quando dense ombre marcarono i lineamenti del giovane, consunto dal dispiacere.

La tramontana ne sferzò gli zigomi affilati come pugnali, ululò tra i merli del mastio, scompigliò le vesti del pianista. Questi sfiorava con trasporto lo strumento d’ebano: ogni gesto, ogni postura eseguita con plateale austerità.

Per un istante pensò di essere perduto e vacillò, poi però gli sembrò di percepire quell’odore, quell’effluvio di pino. Il ricordo era nitido, un indelebile affresco nel flusso della memoria.

Lame di luce gli offuscavano lo sguardo, colori caleidoscopici giocavano creando riflessi sui propri capelli biondissimi. Ciononostante…

Lei era lì, e ciò era sufficiente.

Lei era lì, avvinghiata a lui sopra una trapunta di aghi secchi. Per Merlino se pungevano la schiena, ma lei era di nuovo lì, con lui, e ciò rappresentava più di quanto avrebbe mai potuto desiderare. Sussurrò qualcosa all’orecchio, quindi baciò le labbra di lei.

Teneri petali vermigli, vellutata materia dei sogni.

«E se dovessi spiccare il volo? Se dovessi raggiungere le stelle, lassù, e unirmi a esse per vegliare su di te?»

La voce riecheggiò carica di turbamento, le braccia risvegliate da un tremito, i riccioli bruni scossi da un Oscuro Presagio. Eppure ebbe la determinazione di stringerlo a sé, annegando nel pregnante profumo di colonia e di verdi mele appena colte.

In quell’algida atmosfera ove tutto è destinato a concludersi o forse a rinascere, v’erano i loro cuori a sancire un ritmo differente: vivace, andante, poi largo e presto.

Battiti che si incespicavano in sinusoidi (im)perfette. «Ti accompagnerei senz’altro. Continuerei a comporre sinfonie che portino il tuo nome. Nel perpetuo perpetrarsi.» Un gufo bubolò in lontananza.

Dischiuse gli occhi, rivelando due abbacinanti acquitrini azzurri, ed ebbe la fugace visuale delle dita in movimento, degli arti in preda alla trascinante passione che nutriva per il pianoforte.

Era come estraniato dal mondo, distaccato dalla mesta, caduca dimensione terrena.

Scrutò gli astri rifulgere nell’incommensurabile volta celeste, al cui confronto ognuno non è che un chicco di miglio, rivolgendo loro una preghiera muta.

Ardono ora le lacrime, tizzoni ardenti, con l’ennesimo cingere d’arti che doni all’atmosfera, l’ennesimo sospiro che vira nel tacito nulla di parole trattenute a stento.

(Soprav)vivi nell’infimo spazio a cui altri ti hanno designato.

La solitudine sarà l’unica ad attenderti, senza sconti di sorta. E in ogni momento una stilla di cadmio liquido lorderà il tuo cuore, reso di fuliggine, goccia dopo goccia.


Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

di Mita Bolzoni

Morivano tutte all’ombra delle nostre foglie.

Si accovacciavano senza un lamento e lasciavano che la vita le abbandonasse.

Nessuno riusciva a capire perché.

Noi potevamo solo custodire tra i rami il silenzio che le avvolgeva e le conduceva lontano, nel posto da cui nessuno torna. Vennero uomini vestiti di bianco, parlavano sottovoce, compievano i pazienti gesti necessari per scoprire le cause, per rimuovere i corpi che di giorno in giorno aumentavano. Anch’essi godevano della nostra ombra, nel duro lavoro senza risposte.

La recinzione che proteggeva la riserva, di cui gli uomini vestiti di bianco andavano fieri, in quei giorni finì per delimitare un misterioso inferno.

Sono state avvelenate, dicevano, qualcuno vuole distruggere il nostro paradiso.

Le nostre foglie oscillavano giocose nel breve vento del mattino, cullando i loro dubbi rabbiosi.

Intanto i corpi si ammucchiavano con solenne dolcezza ogni notte, sotto una stupefatta luna, poggiando le lucide schiene ai nostri tronchi nodosi, tentennando le grandi corna ritorte, guardando un punto distante.

Indagarono, capirono, non era come sospettavano.

Nessun bracconiere le aveva avvelenate, i loro stomaci erano risultati vuoti.

Le antilopi si erano lasciate morire di fame.

Fu così che la recinzione del paradiso cominciò ad essere guardata con occhi nuovi, perché avrebbe dovuto preservarle da ogni pericolo ma si era rivelata la loro tomba.

Erano morte le antilopi, sempre di più, erano morte ai nostri piedi e nessuno aveva potuto fare nulla.

Tra i nostri rami restava impigliato soltanto il loro ultimo desiderio: fuggire.

Ma anche noi non possiamo fuggire, siamo alberi di acacia, e le antilopi prigioniere in quel paradiso non facevano che nutrirsi di noi, continuamente.

Non avevamo scelta, dovevamo difenderci.

Le nostre foglie predate oltremisura reagirono producendo tannino, che le rese impossibili da digerire, mentre dai nostri pori si sprigionava rapido il gas etilene, che raggiunse le nostre sorelle e le avvertì del pericolo, cosicché anch’esse potessero difendersi nello stesso modo.

La tossina aumentava nelle foglie, ogni giorno di più. Nessuno poteva fermarci, eccetto le antilopi, che avrebbero potuto bloccare la produzione di tannino semplicemente spostandosi a cercare altre piante.

Ma non potevano.

Prigioniere della riserva, si nutrirono di noi finché capirono che eravamo cambiate.

Allora pur di sfuggire al veleno si lasciarono morire di fame. Cadevano all’ombra delle nostre foglie, cercando con gli occhi umidi alberi irraggiungibili, che crescono solo dove la terra è libera.

Mita Bolzoni è nata a Como il 24 giugno 1970. Si occupa di teatro, scrittura e pittura. Il lavoro sul corpo in scena guida e ispira anche i suoi racconti e i suoi quadri. Vive sulle montagne del Lario e la natura è la sua fonte di ispirazione quotidiana.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

SI VIVE E SI MUORE, tutto il resto è letteratura

La penso proprio così. Quel tale che nacque in un quartiere malfamato della periferia romana, e che poi studiò in seminario, e infine fu uno dei primi produttori di film porno è un romanzo che ho in mente di scrivere. È una storia che già esiste, come quella citata sopra della ragazza dai capelli verdi, con un piercing al naso, bellissima, e con le ferite sul corpo di una guerra vicina… e non basta? E allora dirò di quei due ragazzi di Lecco che volevano sposarsi ma un ricco signore, invaghito della fanciulla, ne ostacolò le nozze, e poi successe l’epidemia causata dal coronavirus 19, e i cattivi morirono compreso il riccastro e i due giovani si sposarono, benedetti da padre Cristoforo… e via via tutti gli altri, i fratelli Karamazov, il Processo, la Commedia Umana e quella Divina, non sono forse storie di tutti i giorni? La letteratura è fuori dei libri, la vita di ognuno è un romanzo.

Raccontatela, e liberatevene. L’Infinito vi aspetta.

Continua il 29 giugno

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

I caccia si rincorrono e si sfuggono tra virate e cabrate. Mitraglia puntata, giro della morte e via. Alle spalle una scia di fumo. Abbattuto! Non sempre il nemico muore. Forati a più riprese i serbatoi, il nostro Cavallino rampante costringe un pilota rivale a scendere. Anche il vincitore atterra e gli si pone accanto. È un segno di rispetto. Si sincera che sia illeso e gli stringe la mano. Coglie l’espressione avvilita e gli fa coraggio. È un giovane austriaco che porta sull’uniforme azzurra la Croce di Guerra e la Medaglia al Valore.
“Me le sono guadagnate in Russia”, dice con orgoglio in un italiano dal forte accento tedesco. “Qui non sono riuscito a sfuggire alla sua caccia. Complimenti HerBaraka”. La voce rotta dalla stanchezza e dall’umiliazione.
“Sei fortunato, per te la guerra è finita. Tornerai a casa dalla tua famiglia”, lo conforta l’Asso italiano. “Meglio morto”, risponde l’altro, “con onore, in battaglia, abbattuto da lei, non salvato”. Impugna la pistola. Francesco deglutisce. Nell’aria la paura lascia il posto alla baldanza. Ma qui, con i piedi a terra, la morte sembra più vicina. Non è preparato. L’austriaco capisce.
“Un difensore della Patria non deve avere paura” gli dice. Lo guarda negli occhi e in un attimo una scia di sangue e cervello sporca il cavallino nero. Il corpo cade scomposto, gli occhi sbarrati. Baracca è stordito. Stringe i pugni. Poi sfila il guanto dalla mano destra e abbassa le palpebre dell’aviatore.
Rulla di nuovo il motore, dà gas, l’apparecchio prende velocità. Passione, genio, follia, come aveva detto suo padre. “Un difensore della Patria, non deve avere paura”, ripete. Non gli importa più nulla. Accada quel che deve accadere. A volo radente scende con il suo Spad S.VII in appoggio ai nostri fanti, esposto al tiro dei soldati nemici.

Francesco Baracca 9 maggio 1888 / 19 giugno 1918

Racconto di Anna Rosa Confalonieri, illustrazione di Alda M.C. Torri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org

Era l’anno della maturità classica, e anche quello dei mondiali di calcio, e fu pure l’anno in cui nella nostra palazzina era venuta ad abitare, al quarto piano, una coppia di sposini, lui era un tipo burbero, non parlava mai e si interessava solo di calcio, lei… lei non posso descriverla, aveva una trentina d’anni ed era speciale, non era come le mie compagne di classe o come la mia ragazza che mi dava i bacini della buona notte sotto il portone, lei era una donna, e quando a me toccava il turno delle pulizie e lavavo le scale al piano terreno, e stavo chino con gli stracci in mano, lei scendeva e mi scavalcava senza chiedere permesso e con la gamba si strofinava sulla mia schiena, e i miei amici dicevano che era una troia, a me però faceva certi sorrisi che toglievano la parola, e infatti restavo muto, ero un ebete, e un giorno che il pianerottolo era ingombro dei miei secchi di acqua, lei per passare mi afferrò in mezzo ai pantaloni e mi spostò da una parte, e io da quel momento non pensai che a una cosa sola… E quella sera che c’era la partita ITALIA-GERMANIA tutta la palazzina venne a casa mia per fare il tifo insieme, e c’era anche quel citrullo del marito, e dopo il primo tempo io andai in cucina a bere un’aranciata e dal balcone guardai in su e la vidi affacciata alla finestra che ammirava il cielo, e così ebbi in quell’istante la più grande intuizione che finora avevo avuto, e quando salii le scale le gambe mi tremavano… E come poi è finita quella partita lo sappiamo tutti, e ci riversammo nelle vie e nelle piazze della nostra cittadina, e se qualcuno ricorda bene c’era uno che era più matto di tutti e stava in piedi sul tetto delle auto con il rischio di rompersi il collo, e poi, lo stesso, fu il primo a tuffarsi nella vasca della fontana in piazza, seguito da tutti gli altri, e sempre lui intonava I-TA-LIA I-TA-LIA, e quando seppe il nome del giocatore che aveva segnato il gol del 4 a 3 nessuno poté trattenere la sua gioia, e a squarciagola propose il nuovo coro… RI-VE-RA RI-VE-RA.

di Yuri Sansilvestro, illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


IL CAVEDIO associazione culturale e sportiva dilettantistica APS ———————————————– segreteria1997@ilcavedio.org