Di Ilaria Mainardi

La porta del vecchio bistrot era quasi del tutto scolorita. Resisteva un pizzico di rosso sulla cornice superiore. Era stata risparmiata dalle intemperie grazie alla preminenza di una tettoia, fissata appena sopra, sul resto della soglia. E poi si notava qualche screziatura bluastra, virata ormai al grigio antracite, intorno al pomello d’apertura. La conformazione casuale delle scrostature di vernice imprimeva sull’impiallacciato il senso di macchie di Rorschach: pianeti ignoti all’astrofisica, continenti sommersi, l’Isola del Diavolo, che assomiglia a un cucchiaino da tè. La donna entrò, lasciandosi dietro una brutta giornata. Si sedette nel posto di sempre e ordinò un caffè lungo. Non aveva mai notato che sul ripiano alto dei liquori stava incastrato un piccolo mappamondo le cui condizioni non erano troppo migliori di quelle degli infissi.

«Quello? Eh, quello me lo ha regalato un viaggiatore. Saranno… quarant’anni, almeno. Se esci di qua e vai verso la fontana, ecco, lì c’era una specie di ritrovo di camminatori, gente che abbandonava le strade come le speranze, ma non si perdeva d’animo. C’erano parecchi rifugi come quelli lungo il fiume.» Il proprietario agguantò uno sgabello e solo una volta sopra si rese conto che una delle gambe era più corta delle altre di almeno un paio di centimetri. Imprecò, ma riuscì ad agguantare il suo reperto.

L’ellissoide di legno, imbrunito dal tempo, emanava un intenso odore di alcol, che copriva a stento quello di muffa. La donna fece un respiro profondo. L’asse doveva essersi cementato per le incrostazioni. Forse invece era colpa di alcune schegge rialzate che ne inibivano il movimento: per risolvere l’empasse galileiano si correva il rischio di ferirsi. Tanto valeva accettare il fatto che la terra non girasse più intorno al sole, almeno non in quel bistrot di provincia. Il viaggiatore aveva segnato delle croci rosse in corrispondenza di ogni luogo che aveva visitato (o che avrebbe voluto visitare, chi lo sa).

«Sembra una costellazione di viaggi. Non ti sembra la forma di Orione, questa?»

«No, no, stai a sentire, la particolarità è dentro. Non mi dire che non si riesce ad aprirlo da sotto… dai qua, fai vedere.» All’interno del mappamondo era conservato un foglietto ripiegato in due parti. Giallo, rigido: dalla cellulosa era nata una pietra graffiata dall’inchiostro, rosso, come le croci. Le parole non si leggevano più, scolorite, ammucchiate, quasi un cimelio svanito fra i recessi della memoria.

La donna si terse gli occhi umidi e provò da sola a decifrare l’enigma: “amore mio, ci rivediamo su Rigel”.

Ilaria Mainardi è nata e vive a Pisa, ma grazie a viaggi mentali si sente cosmopolita. Passioni: calcio e cinema. Ha pubblicato libri di narrativa, anche per ragazzi e bambini, e saggistica. Pep Guardiola e Quentin Tarantino l’aspettano da tempo.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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PENSIERO UNICO, non ci appartiene

Oggi lo chiamano mainstream. In questi ultimi tempi ha avuto grande successo.

Pandemia e guerra in Ucraina hanno contribuito a un suo quasi incontrastato dominio.

Non entro in merito agli argomenti. Non voglio discutere sui lockdown e sugli effetti dei vaccini, né sulla guerra e l’invio di armi. Quello che difendo è che ogni medico, addetto ai lavori, scienziato che sia possa esprimersi in libertà su fatti di medicina, così come ogni storico e giornalista possa dare la propria versione su avvenimenti di attualità.

Su come scrivere un romanzo ognuno dice la sua. Nelle pagine scritte abbiamo cercato noi stessi, ci siamo formati grazie a quei fogli bianchi. L’entusiasmo di vivere li ha riempiti di parole che sono nostre. Tanti uomini hanno combattuto per la libertà, tanti sono morti. La libertà non è un regalo. Se rinunciamo al pensiero non condizionato, mettiamo a rischio la nostra vita.

Qualcuno si prenderà il diritto di dettare le leggi della scrittura, di dire questo è bene e questo è male, ma noi abbiamo il dovere di dire la nostra, di difendere la libertà. Di combattere.

continua il 22 giugno

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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di Carlo Battaglini

Prima dell’alba il cielo si capovolse; poche stelle vi palpitavano, liberate di tanto in tanto da nuvole invisibili. Il soldato Rudy le guardò attraverso la pioggia di polvere, e le vide lontane, sconosciute. Non aveva mai guardato davvero il cielo, non aveva mai avuto bisogno di sperare in qualcosa. E ora aveva fallito: per la prima volta non si era accorto di una mina, forse perché pensava a lei.

Lei.

Lei era salva; per la prima volta Rudy si era ribellato al comandante Rugoj che voleva mandarla a esplorare il campo minato sulla strada del plotone sovietico diretto verso l’Hindu Kush Afgano, dove stavano le statue del Buddha di Bamiyan.

“Sono la nostra storia…” aveva detto Rugoj parlandone.

La nostra storia.

No. La storia di Rudy era l’essere stanco di quel cerchio vizioso di guerra eterna che lo riportava sempre sopra un campo minato, sempre più stanco, più vecchio, più ignaro del futuro, almeno fino a quando lei gli aveva rivelato di avere in grembo i suoi figli. Il suo futuro. Il loro segreto.

Rugoj guardò Rudy rantolare. Non sapeva se fosse più scosso dalla sua morte o dalla sua prima disubbidienza. Era come se Rudy avesse avuto una premonizione e si fosse sacrificato per Laika. Ma perché? Rugoj li aveva addestrati a non provare emozioni, né soprattutto sentimenti. E ora scopriva che nessuno, neanche lui, l’inflessibile capitano Rugoj, ne era immune. Ripensò a Rudy quando era un cucciolo, e a quando divenne il migliore del gruppo cinofilo di sminamento. Tornò a guardare la piantagione di morte che andava illuminandosi, e la vide sfocata. Ebbe un attimo di distrazione, e Laika ne approfittò per sfuggirgli, per correre verso Rudy. E Rugoj capì. E non fece nulla se non rivolgere gli occhi al cielo, dove le stelle avevano lasciato il posto a scie rosse, come se anche il sole fosse perito di morte violenta.

Sul campo minato, ormai vicina a Rudy, Laika venne presa dal panico: anche la distanza più breve è un viaggio se ogni millimetro corrisponde a un respiro. Lanciò un ululato disperato, di terrore indomabile. La paura di perdere i figli vinceva sul desiderio di toccarne il padre.

“Non piangere amore mio,” mugolò Rudy. Non voleva andarsene con quel guaito nelle orecchie.

Non piangere.

Aveva bisogno del silenzio, per sperare: i suoi figli avrebbero dovuto guardare le stelle, sapere che possono caderti addosso come fiocchi di neve, una dopo l’altra, insieme ai ricordi e alle speranze.

Non dovevano morire come lui. Non avrebbero mai dovuto vedere il cielo capovolgersi.

Carlo Battaglini nasce a Milano il 23 maggio 1960. Si laurea in geologia nel 1985. Lavora in tutta Italia, ma perde la vista nel 2017. Scrive da sempre. Finalista in vari Premi Letterari, ne vince tre. Ha pubblicato racconti, articoli e un romanzo.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Lui si chiamava Sansone, lei Dalila, e con la storia di Dalila che taglia i capelli a Sansone non c’entrano niente, e nemmeno con questa, perché lui era il mio cane e lei la gatta di una vicina di casa… e abitavamo in una vecchia corte dove le notizie del mondo non arrivavano mai, e a chi ci viveva quella corte sembrava il mondo intero, e la vita lì era davvero intensa, ognuno seguiva un sogno e si dava da fare per realizzarlo, e quando ci si incontrava sulle scale o nel cortile era un piacere parlare delle previsioni del tempo, e intanto nella testa ognuno rincorreva il proprio pensiero, e il mio sogno era di andare via da quella piccola corte e entrare nel mondo vero… e un giorno comprai un cane e lo chiamai Sansone, e la mia dirimpettaia, proprio la stessa sera, tornò con una gattina e giù in cortile la sentivo dire a tutti guardate la mia Dalila, ma Sansone & Dalila non c’entrano con questa storia, e allora, per iniziarla, vi dirò che un giorno passavo in una via della nostra cittadina e rimasi incantato a guardare una vetrina di parrucchiere, era particolare, piena di piante e di fotografie di attrici che spuntavano da dietro le foglie, Marilyn Monroe, Ingrid Bergman, e Brigitte Bardot con una pettinatura di moda che lei stessa aveva lanciato… non avevo mai visto una vetrina tanto originale, sgranavo gli occhi, e sulla porta del negozio si affacciò la mia vicina, e io non sapevo nemmeno che lei era una parrucchiera, e mi prese per mano e mi portò dentro, mi accomodai in una di quelle meravigliose poltrone, e lei mi disse adesso le faccio un bel taglio alla James Dean e poi, guardandomi con un rimprovero negli occhi, aggiunse… o forse lei preferisce tenere i capelli scapigliati? E io non sapevo che rispondere perché lì era tutto ben curato, e l’unica cosa che mi venne da dire fu… ma questo è un negozio di parrucchiere per donna? Lo sapevo che lei è una persona all’antica, rispose la mia vicina, e poi con una pompetta mi sparse la testa di profumo, e io capii di essere caduto nell’incantesimo di una magia, come James Stewart nel film Una strega in paradiso con Kim Novak, e se volete avere la conferma di ciò che forse avete già intuito, vi dirò che è proprio così, quella nostra bella corte la mia vicina e io l’abbiamo lasciata insieme, e insieme siamo andati a seguire i nostri sogni nel mondo, e adesso avete anche compreso perché Sansone & Dalila non c’entrano in questa storia, salvo per il fatto di chiamarsi, non a caso, Sansone & Dalila, e se qualcuno ce li vuole fare entrare a tutti i costi possiamo immaginare la scena finale… La mia ragazza e io ci allontaniamo tenendoci per mano, la cinepresa è fissa e inquadra la strada, le nostre figure si fanno piccole mentre vanno verso la parte alta dello schermo, e in basso, a questo punto, entrano un cane e un gatto che guardano verso l’obiettivo. E sullo schermo appare la parola FINE.

di Abramo Vane. Illustrazione di Stefano Varotto

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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ANATOMIA DI UN FENOMENO INSOPPORTABILE E INSOPPRIMIBILE

di Giuseppe Geneletti

Ho chiesto a mio figlio Riccardo, 10 anni, cos’è la guerra. “È una m… la guerra è un combattimento tra Stati e anche tra bande rivali, come quella dei ragazzi della via Pal”. E noi italiani siamo in guerra adesso? “Mentalmente sì”. C’è solo il signor Vladimir Vladimirovič Putin (Vladimir significa “governo della pace”) che la definisce “operazione speciale”. La guerra è uno stato di fatto conclamato con effetti reali anche sui civili. Ricordiamo che dei 315 milioni di esseri umani uccisi nei cento massacri più rilevanti della storia, 266 milioni sono civili, a fronte di 49 milioni di soldati. La media dei civili morti durante le guerre è dell’85 per cento. Per evitare le conseguenze legali e politiche sancite dall’ONU, nessuno Stato è disposto a dichiararsi aggressore con una dichiarazione di guerra, mentre infiniti sono gli appigli per dichiararsi aggredito. Il modo più moderno e potente di coinvolgere i civili nei conflitti è attraverso la comunicazione. “Uno degli aspetti terribili della guerra è che radicalizza senza spazi per le riflessioni. C’è più propaganda che informazione che passa e si fa fatica a sapere la verità delle cose”, mi dice Marco Giovannelli, di VareseNews. Diventa sempre più chiaro che “c’è un nuovo attore predominante nella società iper-connessa, importante quanto i missili, che può determinare l’esito stesso del conflitto” aggiunge Michele Zizza, professore di Culture Digitali. “La comunicazione è alleata dell’Ucraina e nemica della Russia”.

LA GUERRA CON LE ARMI

Secondo l’ultimo ConflictBarometer nel mondo ci sono 359 conflitti di cui 220 violenti, tra i quali 40 guerre, di cui 21 ad alta intensità in Afghanistan, Libia, Siria, Turchia, Yemen, Congo, Etiopia, Mali, Burkina Faso, Nigeria, Mozambico, Somalia, Sud Sudan, Brasile, Armenia, Azerbaijan. La situazione in Ucraina era già considerata nel 2020 a livello 4 “guerra limitata”. Solo in pochi Paesi del mondo ci sono situazioni prive di conflitto.

La pace non è un bene diffuso, oltre che non garantito. Siamo sempre in guerra anche perché il business della guerra è immenso. Nel 2020, la spesa globale militare stimata corrisponde a 1.981 miliardi di dollari, di cui 778 miliardi negli USA, e252 in Cina. I maggiori importatori di armi sono Arabia Saudita, India, Egitto, Australia e Cina. Mentre l’esportatore per eccellenza è l’USA, seguito da Russia, Francia, Germania e Cina. Le nuove guerre sono una linfa vitale per questo settore. Piaccia o no è un settore strategico che contribuisce al PIL di molti Paesi, anche se spesso tendiamo a dimenticarcelo.

LA GUERRA SI COMBATTE CON IL PANE

Il motto pro-spese militari “Se vuoi la pace, prepara la guerra” di Publio Vegezio Renato si è rivelato una fandonia: nonostante la crescita delle spese militari i conflitti sono solo aumentati nel XX e XXI secoli. La crescita delle disuguaglianze, il sovraffollamento del pianeta e l’accelerazione del riscaldamento globale, sono solo alcune delle sfide che seminano i conflitti del presente e del futuro.

Una credibile politica globale di riduzione dei conflitti passa attraverso una perseverante politica democratica per i diritti sociali.

Soltanto una pace giusta è una pace veramente duratura. Pace è lavoro, distribuzione più equa di ricchezze e risorse, sviluppo sostenibile, pari opportunità di genere, istruzione. Pace è tutto questo insieme perché i diritti non si mangiano.

Giuseppe Geneletti è un giornalista pubblicista, associato alla redazione di VareseNews.it. Esperto di cambiamento organizzativo e innovazione, pubblica settimanalmente su temi di attualità economica, sociale e di interesse glocale.

Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)


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I CONTENUTI, quelli che esplodono dentro

E dopo tante parole, consigli sinceri, il vero successo è di portare sulla pagina bianca la nostra visione della vita. Se è forte, sarà lei a condizionare e a guidare la realizzazione della nostra opera. Gli stili innovativi, le pagine più alte della letteratura, i più grandi romanzi sono nati da qui, da un’esplosione di ciò che l’autore ha scoperto dentro di sé. Non esistono difetti tecnici davanti a tutto questo.

I dubbi sulla scrittura non li facciamo saltare senza dinamite, e la dinamite dobbiamo saperla usare. Occorre un’esplosione, non un semplice puff della bottiglia di champagne per festeggiare l’uscita del nostro libro nei salotti buoni o alle presentazioni in biblioteca e nelle librerie. È una rivoluzione, che nasce dentro, ed è incontenibile. Inevitabile, l’anima che conosce sé stessa.

continua il 25 maggio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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Che ci faccio qui sopra, in un letto sulla capote di un’automobile?
Dovrei rispondere “è una lunga storia” o qualcosa del genere, in realtà non è né breve né lunga, è solo una storia.
Comincia molti anni fa, un sabato sera a cena, la pizza preparata da mamma in tavola e la partita di pallacanestro su RAI 2.
Papà era un appassionato, di quelli che non si scompongono mai, ma ci tengono.
Io, bambino, osservavo lo schermo senza capire granché.
Ogni tanto azzardavo una domanda, allora papà si voltava verso di me e provava a spiegarmi qualche regola del gioco, come quella dei passi o quella dei trenta secondi per tirare a canestro.
Immancabile, il mio disarmante “Perché?”.
Quella volta però, papà si era sbilanciato:“Se quest’anno arriva la Stella – aveva detto a voce alta – ti porto al palazzetto a vedere una partita dal vivo!”
La Stella…
Una nuova, misteriosa entità si affacciò nei miei sogni di bambino.
Per settimane fantasticai su cosa potesse essere, senza avere il coraggio di domandare nulla.
Un pomeriggio a casa di Leo, il mio compagno di banco, scoprii dalle parole di suo fratello che rappresentava la vittoria di dieci edizioni del campionato italiano di basket.
Alla nostra squadra ne mancava ancora una per potersene fregiare, ma in città nessuno dubitava che presto l’avremmo raggiunta, come una promessa che attendeva solo di essere mantenuta.
Sono passati molti anni da allora a oggi, ma quella Stella non è arrivata.
Da buoni tifosi io e papà non ci siamo lasciati scoraggiare da questo ritardo e abbiano trovato altre occasioni per goderci insieme una partita dal vivo, sino a quando non è stato lui a partire.
Quando ci penso immagino sia andato a tenerle compagnia.
Il bambino dentro di me, al contrario, è rimasto in attesa di quel momento, fino a stasera, quando i ragazzi della Pallacanestro Varese si sono aggiudicati l’agognato scudetto della Stella, la nostra chimera. Papà era con me, piegato in una fotografia scattata insieme anni prima e per tutta la partita è stato come averlo di nuovo accanto.
Per questo sono qui e ho appeso quel cartello alla testata del letto:“Se è un sogno, non svegliatemi!”

di Daniele Bin, illustrazione di Lucia Casavola

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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SCRITTO COL SANGUE *

Quando terminiamo il nostro racconto o il nostro romanzo giallo ci accorgiamo che non abbiamo finito. Siamo arrivati all’ultima pagina, procedendo con il vento favorevole in alcune fasi, più lenti con “lacrime e sangue” in altre e, vale per tutti, con terrificanti battute d’arresto in alcuni momenti. Abbiamo già, diligentemente, in corso d’opera, riletto, corretto e cambiato il testo, siamo ritornati indietro, abbiamo aggiunto o tolto frasi, modificato nomi. Ma c’è ancora del lavoro da fare perché basta un particolare fuori posto per far perdere credibilità a tutto l’impianto narrativo. Rileggiamo dunque più volte, magari a voce alta, magari come se fossimo lettori che non hanno mai visto il libro.

Con due finalità principali. Prima: cogliere l’impressione d’insieme e il ritmo della narrazione. Sentiremo allora quando qualcosa non va, come un meccanico che avverte un rumore strano in un motore.

Seconda: identificare gli errori o, come li chiama Patricia Highsmith, gli “intoppi”: una frase ripetitiva, piatta o confusa, una via in cui ci si è infilati senza uscita, un particolare tecnico che si è dimenticato di verificare (esistevano nel 1600 i crisantemi? Il sonnifero che ho usato può davvero durare più di 24 ore? Ho fatto viaggiare troppo veloce il treno che ha preso l’assassino?). Non mancheranno anche gli errori materiali da correggere: abbiamo chiamato il personaggio con un nome diverso, scritto un termine straniero in modo errato, citato un falso dettaglio di un luogo. E dobbiamo rivedere la punteggiatura, una specie di incubo…

Il consiglio è di non demandare troppe correzioni a un eventuale editing, ma consegnare al mondo un prodotto che ci soddisfi, senza avere fretta. Un altro suggerimento è di non avere paura di limare il nostro “manufatto” e neppure di tagliare senza pietà, se sentiamo che, più snello, funziona meglio. I lettori ce ne saranno grati. Come dice William Faulkner: Leggete! Assorbirete. Poi scrivete. Se è buono lo vedrete. Se non lo è, gettate tutto dalla finestra.

Leggete! E quindi termino con i miei piccoli consigli di autori da non perdere. Ne cito alcuni dei molti che vorrei nominare: P.D. James per la ricchezza delle trame e l’atmosfera, Fred Vargas per la genialità e stravaganza dei personaggi, Ben Pastor per la ricostruzione storica e per aver pensato Martin von Bora, Alessandro Robecchi per lo stile di scrittura immediato, J. Simenon per lo sguardo sulle anime e ancora per l’atmosfera. E poi la “regina” Agatha Christie, Camilleri, Arturo Perez Reverte, Davide Longo, E. George, Carrisi, Malvaldi. Da tutti possiamo imparare, anche da quelli che non ci sono piaciuti.

* Thomas Cook 1991

Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.


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I PUNTI DI INTERPUNZIONE, come usarli

Non ho mai capito il doppio uso della grammatica che fanno in molti. Da una parte un mostro sacro: lo dice la grammatica! Dall’altra la negazione di principi e suggerimenti.

Vorrei affrontare questo tema, in una paginetta, pur sapendo che ci potrei scrivere un libro, e allora scelgo un solo capitolo per accennare all’argomento, ed è quello della punteggiatura e dei punti d’interpunzione.

Tutto è risolto dalla grammatica stessa, che si esprime in modo molto chiaro: non vi sono regole nella punteggiatura.

L’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce, quello di Penelope, settanta pagine senza un segno di punteggiatura, fu scritto nel 1922, cent’anni fa. Ciononostante ci sono ancora professoroni, che oggi hanno trovato in internet il terreno a loro più adatto, che disquisiscono su ogni singola virgola.

La cosa però più deprimente è quando costoro, di norma analfabeti in materia, si spendono in messaggi di marketing per richiamare l’attenzione di altrettanti analfabeti, con lo scopo, a volte addirittura dichiarato, di essere i depositari di sacri riferimenti, gli unici a garantire l’editing che trasformerà i suddetti in scrittori di successo.

Un elemento della formazione di questi autentici venditori di fumo è di conquistare innanzitutto la fiducia della vittima. Tanti libri e tanti film ne hanno parlato. Cito La casa dei giochi di David Mamet con Joe Mantegna (1987), che affronta in modo diretto l’importanza di acquisire fiducia da parte della vittima designata.

Il capitolo che più si presta è quello dei segni di interpunzione nei discorsi diretti. I professoroni fanno copia e incolla da una qualsiasi grammatica e mettono in guardia i neofiti aspiranti scrittori che guai, se si usano i caporali, guai a mettere il punto finale all’interno, va fuori! Per chi usa il trattino, guai a…  Ne ho letto uno che diceva: questa informazione ve l’abbiamo data gratis, se ne volete altre sono a pagamento.

La grammatica è una guida, un’indicazione indispensabile, ma non è legge scritta su pietra. Tanto è vero che le regole cambiano secondo l’uso corrente.

Le case editrici, di norma, nei discorsi diretti impongono le proprie scelte, per cui i caporali, le virgolette o i trattini che vi trovate sono per tutti uguali.

Nella nostra piccola casa editrice lasciamo invece libertà all’autore, perché ci sembra giusto rispettare le sue preferenze, al quale magari i caporali non vanno giù e si sente a proprio agio con le virgolette o i trattini. È ovvio che se Mondadori fosse interessato a una mia pubblicazione e mi chiedesse i caporali, io userei i caporali. Ragazzi! Non sono questi i problemi della scrittura. Dopo il punto esclamativo di “Ragazzi !” ci va la virgola? Non sono questi i problemi. La grammatica, ve lo assicuro, non si offende. Anzi, da quella grande madre che è, ama i figli che prendono iniziative e vanno ad abitare da soli.

Vi porto la mia esperienza. Per i discorsi diretti fra virgolette, trattino e caporali io ho scelto il trattino. So bene che la grammatica indica il trattino lungo, per distinguerlo da quello breve che ha significato di unione e non ha relazione con il dialogo, ma a me piace di più quello breve. Alla fine, dovete ammetterlo, non si confondono, così come la grammatica dice di non accentare il do verbo perché nel contesto non può essere scambiato con la nota do.

Sento già il raglio provenire dai social specializzati, che campano sulle inezie.

Alessandra dice che i simboli vanno rispettati. Beh, a questo punto, se riuscirò a capire come si fa sulla tastiera, adotterò il trattino lungo.

continua l’11 maggio

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