IN QUATTRO COL MORTO *

Sviluppare la trama pagina per pagina fa svolgere l’indagine, il percorso che ci guida alla fine e alla soluzione dell’enigma. La narrazione è arricchita dai vari elementi che abbiamo già esaminato: l’idea iniziale, la scelta dell’ambientazione, il protagonista-investigatore, l’arma, i moventi ecc. A questi ingredienti ne vanno aggiunti altri, fondamentali per la riuscita della storia, tra cui i personaggi di contorno.

Il colpevole del delitto deve naturalmente esserci, anche se non dimentichiamo il primo geniale “giallo” della letteratura, Edipo Re, in cui l’investigatore è anche, a sua insaputa, l’assassino. Suggerimento banale ma utile: diamogli qualche caratteristica che non lo faccia odiare subito dal lettore.

Per quanto riguarda gli attori “secondari” danno colore alla storia, se presentati però devono avere un ruolo, anche minimo, nel meccanismo narrativo oppure, se proprio vogliamo delle comparse, devono far parte di una descrizione di un luogo visitato dal protagonista e caratterizzarlo con il loro aspetto, contribuire a crearne l’atmosfera, nel caso anche come presenza incongrua rispetto al posto.

Nel corso dell’indagine uno o più personaggi saranno sospettati di essere il colpevole e quest’ultimo dovrà comparire, senza rivelarsi, ben prima dell’ultima pagina.

Ma i nostri personaggi li descriviamo? Ci sono scuole di pensiero diverse. Come lettrice preferisco che mi si dia qualche notizia fisica e di vita, ma senza esagerare, magari pochi dettagli alla volta nella narrazione. Il resto mi piace immaginarlo.

I dialoghi vivacizzano e rendono meno piatti i protagonisti e servono per fornire al lettore le notizie sull’indagine, ma non devono essere integrali, qualche parola la si può sostituire con l’azione o i pensieri.

Sulla vita dei personaggi cito Kurt Vonnegut: Sii sadico. Non importa quanto dolci e innocenti siano i tuoi personaggi, fa che accadano loro cose tremende, così che il lettore possa vedere di che stoffa sono fatti.

Per essere appassionante e gradevole, questa insalata mista deve avere un suo ritmo, armonizzato con il tipo di storia che vogliamo, con parti veloci e altre più lente, mai forzato, con il giusto dosaggio di logica e azione, indizi e suspense. Mano leggera con il sorprendere e lo stupire, ma considerare che ricorrere solo all’ovvio non diverte. Consiglio di leggere i gialli di Fred Vargas, dove i personaggi hanno vite e passioni stravaganti o quelli di Donato Carrisi che ci fa viaggiare in mondi segreti e oscuri al limite del possibile.

* Judson Philips 1953

Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.


continua il 4 aprile 2024


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Come giunsi fin qui, al limite del tempo e dello spazio, come mi piegai a questa mera condizione di reietto a me stesso, sotto quali perduranti incertezze il mio animo affogò nell’odio? Nemmeno ora, dopo innumerevoli ere, lo so.
Io che ero parte di una schiera scelsi l’orda, io che amavo e lodavo odiai e svilii, io che osannavo e glorificavo denigrai e ingiuriai, non volevo cadere nell’errore eppure vi caddi. Oh, potessi trasformarmi in pietra, silente, immota, oppure congelare come il ghiaccio che mi circonda, avessi il potere di bruciare come sterpaglia le mie maledette spoglie, osassi contrastare l’ipocrita battito del cuore.
Salgo, continuo a salire. Mi arrampico su pareti gelide, il corpo scivola, ma ho ancora la forza, la volontà. Il forte vento, unico compagno di viaggio, dopo aver sferzato le mie membra sta calando. Affronto un altro sperone di roccia, lo supero e mi ritrovo su una piana gravida di profonde fenditure. E per la prima volta dall’inizio della fuga vedo l’orizzonte. Non so se provare rabbia o disperazione, io che anelavo rivedere la vera Luce ora ho davanti agli occhi solo grigia desolazione, un futuro desertico, pallido e indifferente al mio disincanto. Ed è allora che grido. E le mie urla percorrono la vuota pianura, sorvolano le spaccature, penetrano l’aria immobile, indugiano sulle pietre e infine muoiono. Vorrei essere un grido. Riprendo il cammino. Non uno stridio, non un mormorio, solo il mio respiro. Ad ogni passo alzo polvere brunita e, come avesse coscienza propria, si sposta per evitare ogni contatto con il mio essere. Non mi stupisce e non la biasimo per questo. Sono ciò che sono.
Odo un lontano rumore, proseguo veloce, la terra scura tradisce terrore e si ritrae con più celerità. Il suono, che in precedenza era poco più che ovattato, come il verso di una creatura rinchiusa nel guscio, ora è più forte, frastorna i miei sensi, quasi mi stordisce. Sale dalle profondità. Sono sull’orlo di un cratere immenso. Mi siedo sul ciglio. Mi chiedo se il Creatore osserva con uno dei Suoi innumerevoli occhi, mi chiedo se sa che mi trovo qui. Mi chiedo… Piango. Lacrime torbide rigano il mio volto. Ed ecco, la disperazione ha il sopravvento. Mi lascio cadere. Precipito, e ogni pensiero mi abbandona e allo stesso modo vorrei mi lasciasse la miserevole vita che posseggo.
Una luce. Maestosa, si intensifica come se venisse verso me, ma sono io che le vado incontro. Cado verso di lei.
Chissà perché sorrido, e il sorriso mi si allarga, diventa suono. Rido, grido, e le due cose insieme, e attraverso la luce. È tutta intorno, mi avvolge, non è calda, non è fredda, mi ristora, dona qualcosa e qualcosa mi toglie e, immerso nello splendore del perdono, ne bevo l’amore.

di Gian Paolo Zoni

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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I PARTICOLARI, piccoli ma fanno la differenza

Se avete seguito bene, soprattutto gli interventi che nella pratica ogni volta facciamo sui racconti, avrete capito che costruiamo la nostra cattedrale mattone su mattone. I particolari sono alla base del metodo. Abbiamo visto quanto siano fondamentali per la costruzione di uno stile e di una bella scrittura. Avverbi, gerundi, verbi fraseologici, e poi tutta una serie di attenzioni. Abbiamo visto l’importanza di una virgola, di una sola parola usata piuttosto di un’altra. Siamo migliorati grazie a un lavoro su piccole cose, e non con discorsi sui massimi sistemi o su obblighi e divieti che arrivano dall’alto.

Adesso volevo parlarvi di altri particolari. Abbiamo lavorato prevalentemente sul racconto breve per i motivi che sappiamo, a me è sempre piaciuto ripetere lo slogan Chi sa scrivere il corto può scrivere qualsiasi pagina, anche le mille di un romanzo. Ci credo proprio, poi ho trovato l’imbarazzo di molti nel passare dal corto al racconto lungo o al romanzo.

Ho analizzato la situazione e ho capito che ancora tutto dipende dalle piccole cose. Abbiamo cioè imparato a fabbricare i mattoni, con gli ingredienti giusti, a metterli insieme per costruire la nostra casetta al mare, adesso costruiamo i grattacieli, se ne abbiamo voglia e capacità.

Non c’è niente di scontato, tranne che dovremo impegnarci dieci, cento volte di più. Partendo da dove? Dai particolari. Arricchiremo i nostri personaggi, ne inventeremo a ogni occorrenza, svilupperemo le descrizioni. Per conoscere noi stessi scaveremo nella psicologia, nell’animo, nel bello e nel torbido, e quando in una paginetta vedremo laggiù in fondo una finestrella la apriremo, sapendo bene che al di là troveremo un altro paesaggio.

Questo è lo scopo dello scrivere, aprire nuove visioni. Volete pubblicare libri e diventare famosi? Bravi. Se possibile, i miei collaboratori e io vi daremo una mano, ma questo corso, mi piacerebbe che lo capiste, vale di più. Vi ricordate del fine e del mezzo? Quando coincidono raggiungiamo idealità e risultati insieme. É importante a mio avviso una simile visione, tanto che ve la ripropongo più avanti. Dopo qualche lezione ci siamo accorti di scavare in noi come non avevamo mai fatto prima. Diceva quel filosofo, e con lui, prima e dopo di lui, tutta l’umanità che aveva idee chiare sulla strada da seguire per capirci dentro qualcosa in questa meravigliosa complessità che è la vita, diceva dunque quel filosofo: conosci te stesso. Il romanzo che scriveremo, ne sarà una conseguenza. Semplice e inevitabile. I lettori, se ne avremo, non so se capiranno il nostro impegno alla ricerca dei particolari.

continua il 16 marzo

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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Stamattina ero a casa di Gigi, mio amico d’infanzia. Abita tuttora con i suoi vecchi, in una villetta di via Vico. Lui sotto e i genitori sopra. Lo sorpresi in garage, smontava un televisore del 1980. Ci abbracciammo a lungo, felici di rivederci dopo tanto tempo. Mi chiese perché fossi tornato. Nostalgia, risposi. Poi gli diedi una mano a completare l’autopsia alla vecchia TV.
Spengo il telefonino. Il poliziotto con cui ho parlato ha chiesto di non muovermi da lì. Ma il “lì” non è qui.
Il cimitero di Sant’Elmo è silenzioso, solo il fruscio delle foglie che si sfregano tra loro. Cerco la tomba di Aldo Creti, morto suicida in carcere nel settembre del 1998. Aveva ventidue anni, il pensiero volatile in una mente disordinata e flebile, figlio unico del giornalaio, e unico indiziato dell’omicidio di mia sorella Agata. Una undicenne dal sorriso vivace e il cuore ancora troppo piccolo. In quei giorni io e i miei amici Franco e Gigi eravamo convinti della sua colpevolezza. Un minorato mentale che si recava ogni giorno nei boschi dietro il campetto da calcio, e in quell’estate lo incrociavamo spesso. Eravamo convinti fosse lui. Il killer perfetto. Fummo noi a indirizzare i sospetti. Quello scemo non fiata mai, ti squadra come se davanti avesse fondi di caffè, un sorriso ebete ad aprirgli la bocca e lo sguardo perso, dicevamo. Recuperarono nel suo giardino una delle scarpe da ginnastica di Agata. Il giorno dell’arresto la signora Creti ebbe un malore, e suo padre gridò così forte da spaventare i cani dei vicini che gli risposero ululando. Poca cosa rispetto al tormento della mia famiglia.
La tomba si trova nella parte inferiore del cimitero, dove gli ultimi loculi si allineano sulla parete che dà a Sud. Lontano dalle altre, appartata. Niente nome, date o foto, soltanto l’ombra di un fiore scolpito nel marmo.
La pioggia fine bagna i miei capelli radi, sono qui, a distanza di quasi vent’anni, per chiedere perdono. Mi inginocchio sulla ghiaia, i calzoni freschi di tintoria, accolgo il dolore, che mi penetri in ogni cellula fino all’anima, e rievochi in tal modo un antico volto associato a un altro tipo di sofferenza. E non lo rammento. E Piango. Lacrime per la piccola Agata e le sue treccine dorate, per il giovane Aldo di cui non ricordo il viso, per la dissimile innocenza di entrambi. Odo le sirene. Le forze dell’ordine si avvicinano al “lì”. Scopriranno il corpo di Gigi. Vedranno la ferita profonda alla testa e il martello intriso di sangue appoggiato sul banco di lavoro. Ripenso alle sue ultime parole, “Ho bisogno della pinza con gli occhielli, è nella scatola blu sopra la mensola”. Presi il contenitore sbagliato, sono discromico. All’interno una scarpa da ginnastica.

di Gian Paolo Zoni

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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La ricerca dell’equilibrio

Cerchiamo equilibrio e armonia, il modo migliore per raccontare la nostra storia, ciò che è a noi più consono, più appropriato alla vicenda che vogliamo raccontare, più vicino alla nostra idea di scrittura.

Un consiglio. In un discorso diretto, specie se è lungo, cioè se il personaggio si sta esprimendo in modo prolisso, interrompetelo con qualche osservazione esterna, su di lui, su chi lo sta ascoltando, sull’ambiente. Un esempio:

“Sapete che vi dico?”, fece Giovanni, e prese il libro di consigli per una buona scrittura che stava sul tavolo.

“Mi avete rotto le scatole con tutte queste manfrine. Com’è possibile sostenere baggianate del genere?” e a un certo punto i suoi occhi si fecero di fuoco, e con forza ruppe il libro in due, e continuò: “Che volete da me, che io vi dica grazie?”.

In quell’istante si udì un tuono che fece tremare la casa, un quadro si staccò dalla parete, cadde a terra e il vetro andò in frantumi, ma Giovanni non ci fece caso.

“Sì, signori miei, me ne faccio un baffo di questi consigli del cavolo”.

Quello che vi dico io, e non Giovanni, che queste davvero sono manfrine. Ascoltate me, chi volete, leggete e confrontate, ma la soluzione sarete voi a trovarla. E non può essere altrimenti, ve lo garantisco.

Un suggerimento? Certo, quello di seguire attentamente i dialoghi nei film. Ce ne sono di meravigliosi. Selezionate, ascoltateli più volte. Scartate subito quelli che contengono volgarità e parolacce. Non perché siano un divieto per voi, se la vostra storia richiede volgarità e parolacce le userete, ci mancherebbe, ma è sempre meglio partire dall’alto e trasformare il linguaggio di tutti i giorni in qualcosa di originale.

Mi prendo una pausa, per dire ciò che di sicuro ho già detto, e magari più volte. Non ditemi che a volte sono pedante, perché credo di esserlo sempre (tranne quando, spero, scrivo le mie pagine). Leggo poesie, saggistica, narrativa, leggo i giornali, le riviste, eccetera, e tutto è finalizzato alla pagina che presto scriverò. Vado in giro, vivo la vita di tutti, ma in modo differente perché io sono un osservatore. Cerco stimoli, con una particolare attenzione, e concentrazione, su quella che è ancora una pagina bianca e che attende solo di ricevere tutto me stesso. Un quadro, una scultura, un edificio sono un impulso alla mia fantasia. Tutta l’arte lo è.

E il cinema, per quanto riguarda i dialoghi, ancora di più. Un film nasce dalla scrittura del soggetto e poi da quella della sceneggiatura. In un film seguo la trama, lo sviluppo della storia, i personaggi, ma sono affascinato dai dialoghi, quando sono scritti bene. Mi servono per la mia pagina che attende. Se in un romanzo i dialoghi potrebbero essere una scelta, nel senso che è possibile scrivere duecento pagine senza un discorso diretto, nel film spesso occupano gran parte della sceneggiatura. Per assurdo ci sono film che potremmo “vedere” alla radio, come quelli di Woodie Allen.

continua il 9 marzo

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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Camminiamo da ore nella foresta, impaurite dagli alberi sbattuti dal vento e dai versi degli animali che non trovano quiete. Passo dopo passo il respiro si fa corto e la stanchezza ci rallenta.
Dobbiamo raggiungere il fiume prima dell’alba e seguirne la riva fino alla città. E sarai salva.
La luna piena brilla nel cielo africano e mi ricorda la notte in cui sei nata, dieci anni fa. Un grande disco bianco sopra al villaggio che pareva abbandonato. Si udivano solo il canto lamentoso dello stregone, e le mie urla di bambina col ventre gonfio squarciato da un dolore sconosciuto. Giacevo su una stuoia sporca nella capanna dove vivevo in solitudine da quando il vecchio, cui mi avevano dato in sposa, era morto con la bava alla bocca e il corpo martoriato da pustole sanguinanti. Prima gli anziani, poi la pestilenza si era portata via i giovani, e i campi erano rimasti incolti, aridi. Mesi di fame e angoscia, un maleficio misterioso ci aveva travolto.
Un ultimo grido, e sei arrivata nel bagliore della luna, candida come nulla avevo visto prima. La pelle trasparente, la sottile peluria più chiara dell’erba secca, gli occhi arrossati.
Femmina, e albina.
Sfinita, ti ho preso tra le braccia color della pece e rivolta ai fiotti di luce che entravano dalla porta, ho sussurrato: “Ti chiamerai Mwezi, il nome della luna! Il mattino seguente i giovani si alzarono dai giacigli di morte e i campi tornarono fertili. Un prodigio inatteso. E così, a ogni plenilunio lo sciamano ti alzava al cielo e il candore della tua pelle splendeva nella luce della grande luna, un talismano prezioso. Sei cresciuta silenziosa nella penombra della capanna al riparo dal sole e dagli sguardi, una creatura solitaria dagli occhi ciechi in continuo movimento e la pelle delicata. Ma non è bastato.
La tua fama propiziatrice si é diffusa in fretta tra i villaggi. Uomini donne e bambini giungevano a frotte e mani fameliche cercavano ciocche dei tuoi capelli, lembi di pelle, orecchie, naso, mani piedi arti. In tanti erano disposti a pagare per la tua stessa vita, e quando gli sguardi si sono fatti vogliosi ho deciso di portarti lontano. La foresta si apre, il fiume scorre silenzioso, all’orizzonte il bagliore della città.
Corriamo Mwezi, mia piccola luna bianca, sei salva.

di Alessandra Stifani, illustrazione particolare da “Per natura ed eternità” (acrilico, olio e matite su tela). Soluzioni Alessandrine, 2022

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Quando entrò nella gabbia aveva ancora la giacca da domatore, slacciata però sul petto nudo, ma non impugnava né la frusta né il bastone. Si presentava indifeso: dopo tanti anni insieme si fidava di lei. Non chiuse il cancello alle sue spalle e si accasciò a terra, sfatto.
Lei non si mosse, emise solo un leggero ruggito. Lo guardò per capire a che gioco volesse ancora giocare, ma si rese conto che lui non aveva più la forza di imporre nessun gioco. Rimasero così, a guardarsi.
Quando il sole incominciò a calare, lei gli si avvicinò e si vide riflessa negli occhi di lui. Si stupirono entrambi: lei della sua immagine, lui della sua mitezza. Poi lei gli si accovacciò di fianco, lo leccò con la sua lingua ruvida di felino e lui sospirò. Venne la notte e lui incominciò a gemere, solo la lingua ruvida sulla pelle lo consolava. Poi venne il buio e se lo portò via. Così lei alzò i grandi occhi al cancello. Si alzò in piedi e uscì fuori. Fuori dalla gabbia dove aveva vissuto dal giorno della sua cattura, quando ancora era un animale libero e forte.
Gironzolò intorno, non conosceva quel luogo, lo aveva visto solo da dietro le sbarre e si sentiva vulnerabile. Si muoveva circospetta, annusando odori nuovi e sgranchendo i muscoli non più abituati a muoversi in uno spazio libero.
Si ritrovò a camminare per le vie come un animale braccato. Rincorse un ratto che, molto più abile di lei, le sfuggì sotto un tombino. Esausta tornò nella gabbia. Lui era ancora lì. Diede un colpetto col muso al suo padrone e gli leccò la mano, lui non si mosse.
Il giorno dopo fu lo stesso, e sempre tornava nella gabbia.
I crampi della fame poi divennero insopportabili. Per anni aveva desiderato quel momento e adesso che era arrivato non lo voleva più. Meglio sarebbe stato sollevarsi sulle zampe posteriori allo schioccare della frusta, ruggire, graffiare l’aria con una zampata e gustarsi le bistecche che lui le lanciava da dietro le sbarre. Adesso era libera ma non sapeva vivere nel mondo che le stava attorno.
Verso mattina passò un cane davanti alla gabbia.
Randagio senza collare, camminava veloce avanti e indietro e annusava col muso basso a cercare quel qualcosa che lo inquietava e attirava al tempo stesso. L’odore di selvatico, una volta potente, si era molto affievolito durante la prigionia. Finché la sentì. Si fermò fisso e la guardò. Lei, immobile, lo osservava da un po’. Il cane non aveva paura, e l’annusò meglio da vicino. Lei gli soffiò come un gatto ma si lasciò annusare. Wuf, le fece poi l’animale sbandierando la coda, e trotterellò via.
In quel momento una voce riecheggiò nella sua testa: te la fai coi cani adesso? Ma la stessa voce poco dopo diceva: scappa finché sei in tempo! Forse il cancello aperto non era stata una dimenticanza, ma un dono d’addio.
Si alzò di scatto, si scrollò di dosso il terriccio umido della gabbia e seguì il cane.
Pioveva quella mattina, Anna non sollevò il cappuccio per ripararsi, persino l’acqua sulla testa era benvenuta. Poco più avanti Giovanni l’aspettava. Chissà perché le ricordava un cane con quel suo modo di fare festoso, solo pochi mesi prima non l’avrebbe neanche guardato uno così, ma oggi sì. Così lo raggiunse e insieme si avviarono, non sapeva dove, ma di certo sapeva che non sarebbe più tornata indietro, nella gabbia.

di Ester Tognola

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Avrei voluto essere lì, vicino a te, quando dal seggiolone tiravi stelline in brodo con il cucchiaio, felice come una Pasqua. O quando, la domenica, ti avventuravi nei rigatoni al sugo, e ci soffiavi dentro come fossero cannucce. Mi sarebbe piaciuto costruirti una piccola catapulta, per ridere assieme dei tuoi bersagli raggiunti.
E fare a cambio con tuo nonno, che dal balcone della casa in montagna guardava lontano – occhi persi verso le Dolomiti. Mentre ti crogiolavi attaccata a lui, come avvolta in una coperta di lana. Così maestoso, visto dai tuoi occhi. Rintanata dietro il suo braccio non guardavi lui, ma gli altri. A dire eccolo, questo è mio nonno. Ed è mio, non lo divido con nessuno.
O quando, dopo qualche anno, scoprivi un corpo in evoluzione, e ti guardavi il petto per capire se alla fine era tutto normale o qualche ignota malattia stava minando la tua esistenza. Ti sarei stato accanto, e avremmo giocato con Barbie e Ken. Ti avrei spiegato che i cambiamenti portano felicità, spesso. Perché ti mettono in condizione di vedere cose che prima non percepivi, e ti sfuggivano come bolle di sapone.
Ti avrei seguito nel primo viaggio con il tuo ragazzo, appena sedicenne, in una Europa ancora tutta da disegnare, quando Montenegro e Albania erano davvero paesi stranieri. Avrei raccolto le tue lacrime di un amore interrotto, per una svedese uscita fuori dal nulla nel momento sbagliato, nel posto sbagliato. Ti avrei sorretto, e portato a casa in spalla e sussurrato che la vita è anche questo. Cadi, e ti rialzi. E alla fine capisci come evitare le buche.
Travestito da venticello estivo avrei soffiato via le briciole di gomma dai progetti disegnati con cura e rifatti mille volte, perché sei una perfezionista. E asciugato la fronte quando, esausta in un luglio africano, saresti crollata a dormire, vestita, la notte prima dell’esame. Ti avrei bisbigliato di non pretendere troppo da te, e di riservare le tue energie per uno spicchio di vita che ti avrebbe dato più soddisfazioni.
Lasciami sperare che in quei momenti, tra un rigatone al ragù e un temperamatite, ti sia fermata un momento ad ascoltare il tuo cuore, a cercare di percepire una sensazione, una presenza. Un soffio. Il fruscio di una pagina girata, il volo di un moscerino. A domandarti se eri sola. Perché io c’ero. Ero lì. E voglio immaginarmi vestito da Piccolo Principe quando, secoli più tardi, ti ho finalmente toccato, e parlato. E la nostra vita è iniziata allora.

di Gianluca Fiore, illustrazione di Benedetta Fiore

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A sapere dove rimbalzava, la vita, l’avremmo afferrata e messa al nostro servizio, ma non era così, non era mai stato così, e considerato questo, il gioco era ancora più bello… e c’erano altri che giocavano un altro tipo di gioco, e per loro la palla era rotonda e la calciavano con precisione, la mettevano dove volevano, proprio là, e più uno la metteva proprio là e più era pagato per questo, sembrava che mettere la palla in quel modo era la cosa più rara di questo mondo, e da un certo punto di vista poteva anche esserlo, ma il fatto è che la vita non sai mai dove va, e chi conosce la vita la trasmette a chi gli sta vicino, si guarda indietro e trova un compagno a raccoglierla per andare avanti, anche un solo passo, ma con la determinazione che richiedono i sogni… e chi gioca alla palla ovale non è una signorina che riempie le pagine dei giornali, si arricchisce e mantiene elevato il quoziente di opportunismo nel mondo, e nemmeno è uno che quando cade dice oh mammina che male, per cui i giornalisti lì presenti saltano su e urlano e a noi chi ce lo dà lo stipendio e poi di quelle moine parlano per tutta la settimana, chi gioca alla palla ovale stringe la vita al cuore e sente che tutto il mondo è lì dentro, e il destino di quella palla è già segnato, come tutte le cose, e loro la seguono, quella palla, e sanno che il suo rimbalzo, come la vita, sarà imprevedibile.

di Giangiacomo Furù, illustrazione di Renato Pegoraro

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