Avrei voluto essere lì, vicino a te, quando dal seggiolone tiravi stelline in brodo con il cucchiaio, felice come una Pasqua. O quando, la domenica, ti avventuravi nei rigatoni al sugo, e ci soffiavi dentro come fossero cannucce. Mi sarebbe piaciuto costruirti una piccola catapulta, per ridere assieme dei tuoi bersagli raggiunti.
E fare a cambio con tuo nonno, che dal balcone della casa in montagna guardava lontano – occhi persi verso le Dolomiti. Mentre ti crogiolavi attaccata a lui, come avvolta in una coperta di lana. Così maestoso, visto dai tuoi occhi. Rintanata dietro il suo braccio non guardavi lui, ma gli altri. A dire eccolo, questo è mio nonno. Ed è mio, non lo divido con nessuno.
O quando, dopo qualche anno, scoprivi un corpo in evoluzione, e ti guardavi il petto per capire se alla fine era tutto normale o qualche ignota malattia stava minando la tua esistenza. Ti sarei stato accanto, e avremmo giocato con Barbie e Ken. Ti avrei spiegato che i cambiamenti portano felicità, spesso. Perché ti mettono in condizione di vedere cose che prima non percepivi, e ti sfuggivano come bolle di sapone.
Ti avrei seguito nel primo viaggio con il tuo ragazzo, appena sedicenne, in una Europa ancora tutta da disegnare, quando Montenegro e Albania erano davvero paesi stranieri. Avrei raccolto le tue lacrime di un amore interrotto, per una svedese uscita fuori dal nulla nel momento sbagliato, nel posto sbagliato. Ti avrei sorretto, e portato a casa in spalla e sussurrato che la vita è anche questo. Cadi, e ti rialzi. E alla fine capisci come evitare le buche.
Travestito da venticello estivo avrei soffiato via le briciole di gomma dai progetti disegnati con cura e rifatti mille volte, perché sei una perfezionista. E asciugato la fronte quando, esausta in un luglio africano, saresti crollata a dormire, vestita, la notte prima dell’esame. Ti avrei bisbigliato di non pretendere troppo da te, e di riservare le tue energie per uno spicchio di vita che ti avrebbe dato più soddisfazioni.
Lasciami sperare che in quei momenti, tra un rigatone al ragù e un temperamatite, ti sia fermata un momento ad ascoltare il tuo cuore, a cercare di percepire una sensazione, una presenza. Un soffio. Il fruscio di una pagina girata, il volo di un moscerino. A domandarti se eri sola. Perché io c’ero. Ero lì. E voglio immaginarmi vestito da Piccolo Principe quando, secoli più tardi, ti ho finalmente toccato, e parlato. E la nostra vita è iniziata allora.

di Gianluca Fiore, illustrazione di Benedetta Fiore

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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A sapere dove rimbalzava, la vita, l’avremmo afferrata e messa al nostro servizio, ma non era così, non era mai stato così, e considerato questo, il gioco era ancora più bello… e c’erano altri che giocavano un altro tipo di gioco, e per loro la palla era rotonda e la calciavano con precisione, la mettevano dove volevano, proprio là, e più uno la metteva proprio là e più era pagato per questo, sembrava che mettere la palla in quel modo era la cosa più rara di questo mondo, e da un certo punto di vista poteva anche esserlo, ma il fatto è che la vita non sai mai dove va, e chi conosce la vita la trasmette a chi gli sta vicino, si guarda indietro e trova un compagno a raccoglierla per andare avanti, anche un solo passo, ma con la determinazione che richiedono i sogni… e chi gioca alla palla ovale non è una signorina che riempie le pagine dei giornali, si arricchisce e mantiene elevato il quoziente di opportunismo nel mondo, e nemmeno è uno che quando cade dice oh mammina che male, per cui i giornalisti lì presenti saltano su e urlano e a noi chi ce lo dà lo stipendio e poi di quelle moine parlano per tutta la settimana, chi gioca alla palla ovale stringe la vita al cuore e sente che tutto il mondo è lì dentro, e il destino di quella palla è già segnato, come tutte le cose, e loro la seguono, quella palla, e sanno che il suo rimbalzo, come la vita, sarà imprevedibile.

di Giangiacomo Furù, illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Mi appare un’ombra lunghissima con un’aureola di luce, i capelli sulle spalle, le mani nelle tasche del cappotto, una ragazza in piedi davanti a un lampione. Non parla e io ho poco fiato, seduto su una panchina del Viale delle Cappelle.
È una sera di fine inverno: il cielo nero come piombo, l’aria fredda e immobile e nessun passo sull’acciottolato. Mi sono allontanato dalle luci della città, dalle persone a cui non so più parlare e da quelle che non mi interessa ascoltare, dalla vita non più mia, dai giorni passati irripetibili. Anni fa ho rinunciato a una donna dal sorriso e dal nome luminosi come l’estate. Negli altri amori non ho più trovato lo stesso incanto. Stasera mi è tornata la voglia di ripercorrere una delle nostre passeggiate. La primavera però è lontana e mentre cammino l’aria gelida è penetrata dentro di me, coagulandosi in un blocco che, a metà della salita, ha cominciato a pesarmi sul petto. Per questo mi sono seduto, senza respiro.
Poi dal buio è sbucata la donna alta con il cappotto nero e la guardo, da vicino. Il battito del cuore accelera e, finalmente, trovo le parole.
– Clara! Sei tu. Scusami se non mi alzo, ma non sono sicuro di riuscire. Mi ha preso una grande stanchezza. Che strano rivederti stasera, dopo tanti anni, quando sto pensando a te. Ho ricordato le nostre passeggiate e i cieli dalle mille stelle, quando salivamo dal viale fino al Sacro Monte. Arrivavamo fino al bar appollaiato sul panorama e sorseggiavamo il liquore asprigno, restando vicini. Sono sicuro che ricordi le nostre ore insieme. Ti vesti di nero come allora, e ti sta molto bene. Per anni ho sognato di incontrarti di nuovo. Ma eri sempre su un’altra strada. Sono contento di rivederti qui. Sei silenziosa e non mi rispondi, niente parole inutili tra noi. –
Un sorrisole illumina il volto e il buio intorno. Poi Clara allunga una mano verso di me. La mia è fredda, intorpidita, ma riesce ad afferrare la sua. Il calore di quel contatto mi fa sentire in pace, sereno, quasi felice dopo tanto tempo.
Non la lascio anche quando ritorna, insopportabile, quel peso sul petto.

Angelica si allontana dalla panchina, stringendosi dentro al cappotto e tentando di sentire meno freddo. Risale il viale correndo. Deve arrivare al paese, raggiungere qualcuno, chiedere aiuto. Non c’è nessuno stasera sul percorso e lei si maledice per aver deciso di lasciare a casa il cellulare.Voleva dimenticarsi il mondo per una sera e non aveva voglia di essere ritrovata da nessuno. È rimasta sconcertata dalle parole dello sconosciuto, così diverse dai discorsi che è abituata ad ascoltare. E questo le ha fatto morire sulle labbra una risposta. Non gli ha detto che si sbaglia, che lei non è quella Clara. In fondo che cosa importa, in quel momento in cui lui insegue ricordi e sentimenti lasciati indietro. La cosa giusta da offrire era il silenzio e la sua mano. Il contatto lo ha rasserenato.
Ora è adagiato sulla panchina, in attesa dei soccorsi, con un’espressione tranquilla. Lei però ha capito che non c’è bisogno di cure mediche. Non c’è più tempo.
Si avvicinano le prime luci del paese e quelle dell’unico bar aperto, al termine del viale. Si ferma a prendere fiato e solleva il viso verso il cielo scuro.
Scendono, silenziosi e morbidi, i primi fiocchi di neve.

di Angela Borghi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Non sono quelli del bar

Ho visto libri potenzialmente belli cadere in malo modo sui dialoghi, rovinarsi con un niente. Fin tanto che l’autore era sui personaggi e sugli ambienti tutta una meraviglia. Poi i dialoghi, ahimè! La scrittura non è il parlato. Parliamo in un modo e scriviamo in un altro. Questo vale per tutti, anche per quegli autori che nella loro ricerca di stile, nel loro modo di esprimersi, tendono a unificare il parlato e lo scritto.

Figuriamoci per gli altri. Di nuovo vi invito a rileggere i vostri autori preferiti, giusto per fare un confronto.

Troverete chi usa dialoghi forbiti, e chi teatrali. Qualcuno i botta e risposta da bar, sì, ho detto da bar, solo che lo fa con una maestria tale che s’inseriscono nel contesto generale del racconto e soprattutto aderiscono al personaggio, esaltandolo.

Da dove arriva questa maestria?  Come in tutte le pagine di questo libro non troverete l’elenco delle soluzioni. Per un semplice motivo: perché non esistono. C’è una sola soluzione, ed è la vostra. La vostra sperimentazione. Resta il consiglio di avere molta cura dei dialoghi.

Chissà perché vengono sottovalutati. Sembra che servano per riempire più facilmente le pagine. Se li usate bene, dopo qualche pagina, il lettore capirà quale personaggio sta parlando perché quelle espressioni sono una sua caratteristica.

Vi dico una cosa. Non è facile scriverli bene, se il nostro scopo è davvero quello di scrivere bene e non solo di riempire le pagine. E poi non sono indispensabili, anzi, tutt’altro. Fior di capolavori non li contemplano, o li usano pochissimo. Altri, a onor del vero, hanno storie che si basano sui dialoghi. Preferisco i primi, le pagine dense di azioni e di descrizioni, con un uso molto moderato dei discorsi diretti, se non completamente assente. Ognuno ha i suoi gusti. Ognuno ha un carattere, una personalità, che si esprimono in modo diverso.


continua il 2 marzo

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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Una Milano col mare: così l’avevo immaginata, ma il mare non l’ho ancora visto. Da giorni, e non so più quanti, il mio mondo è il camerone all’ultimo piano: una fila di lettini lungo la parete, le lenzuola ruvide ben tirate, il comodino con la vaschetta per lavarsi e una finestra nel sottotetto, unica fonte di luce.
Cinquanta ragazzini portati qui dal torpedone in una domenica di inizio estate: la colonia estiva, una vacanza anche per noi, figli di operai della Breda, lontano dalla bruma di Sesto San Giovanni. Mio papà aveva rinunciato al “bianchin sprüzà” del sabato sera per tutto l’inverno, quattro soldi risparmiati per mandarmi in villeggiature. La mamma se ne era andata con lo zio Salvo in un giorno di ottobre, senza una parola. Non era più tornata, ma adesso avrei visto il mare.
Eravamo arrivati a tarda sera, stremati dalle curve sull’Appennino, affamati. La Madre Superiora aspettava davanti al cancello, a braccia conserte, il rumore secco del piede sul marciapiede. Ci aveva spinto senza un sorriso verso il refettorio: una ciotola di riso, un formaggio maleodorante, la cotognata nella stagnola; faceva schifo, ma eravamo abituati a mangiare tutto e l’indomani ci aspettava il mare. Non ero riuscita a dormire; nella camerata singhiozzi trattenuti, qualche colpo di tosse. All’alba erano iniziati i brividi e i conati di vomito, unica compagnia la paura. Poi avevo sporcato il letto e la suora di turno voleva che pulissi da sola. Ho conosciuto così Maria, la sguattera bergamasca, brutta e tozza: si era intrufolata nella camerata, aveva sistemato le lenzuola e riempito la brocca di acqua fresca.
Stamattina i bambini sono usciti presto. Guardo il ritaglio di cielo terso, sarà una bella giornata.
“Abbronzate, tutte chiazze, pelli rosse un po’ paonazze, son le ragazze che prendono il sol…“.
Maria lava i panni in cortile e canta. Suor Angela la lascia fare, lavora da mulo e si accontenta degli avanzi di cucina. La sua voce sale senza fatica fino a me, vorrei chiamarla, ma sono troppo stanca per alzarmi. Mi giro nel letto, il cuscino di crine gratta la pelle: ancora febbre, il mal di pancia mi lascia senza fiato e l’acqua è finita da un pezzo.
Cala la sera e i bambini dormono sfiniti dal sole e dai giochi nell’acqua, un’altra giornata felice. Alla finestra si affaccia un disco luminoso, la luna piena.
“…Sopra al tetto come i gatti e se c’é la luna piena…”.
La voce di Maria si confonde col miagolio dei gatti, sento la sua mano ruvida che mi accarezza le guance roventi; guardo quel volto sgraziato e la chiamo mamma. Il calore della febbre mi abbandona, e oscillo senza peso nella luce bianca. Corro sulla spiaggia assolata verso il mare: è bello nuotare.
“Tin tin tin, raggi di luna, tin tin tin, baciano te
al mondo nessuna é candida come te”

di Alessandra Stifani

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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LA CHIAVE DELL’ENIGMA *

Il delitto che raccontiamo deve esser collegato a un enigma, che rappresenta la sfida tra lettore e autore, così come quella tra investigatore e assassino. Il mistero accompagnerà chi legge pagina per pagina, fino alla soluzione, che arriverà di sicuro, ma secondo un meccanismo che prevede ogni passo come un sorpresa. L’abilità dello scrittore sta nel disseminare nella storia una serie di tracce e indizi.

Le tracce sono in genere fisiche: orme lasciate sul terreno o impronte scoperte su un oggetto, magari su una parte impensabile, o qualcosa che l’assassino ha perso nell’azione e viene ritrovato per caso. Gli indizi possono essere intuizioni logiche da parte dell’investigatore (inteso come chiunque compia le indagini), basandosi su notizie, come una parentela non conosciuta o che possono giungere da un lavoro psicologico di immedesimazione con il colpevole.

I famosissimi personaggi-simbolo dei due estremi di approccio all’indagine sono Sherlock Holmes di A.C.Doyle, con l’inseparabile lente di ingrandimento alla ricerca di tracce, sulle quali applica il suo metodo rigorosamente deduttivo e Hercule Poirot, di A.Christie che invece si concentra sugli indizi psicologici, sulle motivazioni dell’assassino. Lo scrittore sceglierà la propria via, magari in equilibrio tra i due tipi di investigazione.

In tutti i casi è importante descrivere la scena del delitto, enfatizzando qualche particolare illuminante per l’indagine. Un utile stratagemma è un dettaglio tecnico di qualche materia (medicina, chimica ecc.) che può smascherare l’assassino e che l’investigatore sa per sua competenza, gli viene riferito o che scopre per caso. Inseriamo dunque il ruolo delle coincidenze e l’argomento, delicato, della loro verosimiglianza. Arricchiscono la storia, possono essere quasi incredibili ma va ricordato quanto già detto sulla credulità del lettore, da stimolare al massimo ma non da oltrepassare. Sull’argomento cito Mark Twain: “La letteratura è costretta a rispettare la verosimiglianza. La vita no”.

Non si può terminare un discorso sul mistero e l’enigma senza ricordare un filone di gialli in cui questo è assolutamente in secondo piano, nel realismo di storie come quelle di Raymond Chandler, di Dashiell Hammet e di James Ellroy, ma anche di quelle di Jules Simenon con il Commissario Maigret, che è più interessato al dramma umano che sta dietro a ogni delitto.

* George Harmon Coxe  1964

Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.


continua il 14 marzo 2024


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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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Da settimane i ritmi lenti degli abitanti della cittadella erano sconvolti dall’agitazione. La poca disciplina, le uniformi trascurate, gli stivali sporchi di fango non passavano inosservati. Gli ordini gridati si perdevano nella confusione. Eliminare le prove! Evacuare prigionieri e soldati! Molti di loro erano già stati allontanati: la marcia della morte per sessantamila ospiti del campo. Denutriti, sfiniti, battuti dal vento. Quanti avrebbero retto? Si chiedeva Hans, una delle ultime reclute, biondo, di corporatura minuta, vent’anni, ma già vecchio lo sguardo, le mani gonfie e rigide per il freddo. Tremava. Il gelo invernale e l’ansia della fuga mettevano a dura prova anche loro, i tedeschi. La guerra era persa. Ormai era chiaro a tutti. “È solo questione di tempo”, disse con un filo di voce il prigioniero che camminava curvo al suo fianco, i piedi scalzi, uno straccio di coperta sulle spalle.Il giovane soldato non capì. Si vergognò di indossare scarponi. I Russi si avvicinavano, ma Richard Baer, comandante in capo di Auschwitz, non sarebbe fuggito. In piedi davanti alla porta del suo alloggio, si guardò intorno ancora una volta e sistemò il cappello. Le labbra serrate. Tirò fuori un fazzoletto dalla tasca. Se lo passò sulla bocca. L’odore di morte non lo abbandonava: era nelle narici, sulla punta delle dita, nella trama dei suoi vestiti. Odiava quel posto. Odiava quelle bocche sdentate, quelle teste rasate, ossa ambulanti che si trascinavano rassegnate. Nessun rimpianto né rimorso. Solo disgusto. Sentì degli spari. L’Armata Rossa era più vicina di quanto pensasse.Mise la mano sul fodero e sentì la Luger P08. Si sarebbe difeso. E se lo avessero preso? La capsula di cianuro nascosta in un dente avrebbe salvato il suo onore. Al cancello principale, con i mitragliatori sotto il braccio, apparvero i primi soldati della 60esima armata dell’esercito sovietico. Si fermarono in silenzio ai reticolati dove corpi ridotti a scheletri allungavano le mani per cercare pane e aiuto. Erano i più deboli, gli ammalati, lasciati indietro dalle SS. Graziati dal destino. Difficile distinguere gli uomini dalle donne. Esseri annullati. I giovani soldati russi, stanchi e goffi nelle uniformi pesanti, si scambiavano sguardi increduli e poche parole, sottovoce, in una lingua incomprensibile. Nauseati dal forte odore di carne bruciata, trattenevano a fatica conati di vomito. Al loro fianco, inesorabili, i carri armati sfondavano i cancelli della fabbrica dell’orrore. Tra montagne di cadaveri accatastati, tonnellate di capelli umani e centinaia di migliaia di indumenti e paia di scarpe si aggiravano pallidi fantasmi. Era mezzogiorno, il 27 gennaio 1945, e la neve scendeva fitta.

Di Anna Rosa Confalonieri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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11 maggio, finale di coppa, capolinea di una storia d’amore.
Catenina fuori della maglietta e sorriso da divo, l’Uomo Ragno scende in campo da titolare per l’ultima volta.
La tensione è palpabile: la stagione è stata fallimentare e lui ha contribuito a renderla più angosciosa, un errore dopo l’altro.
Non avrà un’altra occasione per riscattarsi.
Rimugina su quel soprannome; Uomo Ragno lo chiamavano i tifosi della prima ora, ai quali regalava i voli straordinari che lo avevano portato nel calcio che conta.
Dopo l’approdo in prima squadra è diventato il suo marchio di fabbrica.
A trentacinque anni però s’è fatto vecchio per quel mestiere; meglio tirarsi da parte allora, come ha lasciato intendere il nuovo allenatore e gli hanno urlato i tifosi durante una contestazione.
Giorni prima un ex compagno l’ha chiamato: ti hanno fatto fuori, la prossima stagione giocherai con noi.
Credeva di avere ancora qualche chance di concludere la sua carriera in bellezza, invece l’avevano già scaricato.
L’avrebbero girato a una squadra minore in cambio del loro giovane e promettente numero uno.
Infedele per indole, i tredici annitrascorsi con quei colori sono stati la sua relazione più duratura e proprio non ci sta a farsi piantare a quel modo.
Si parte dallo 0-1 dell’andata in favore dei padroni di casa.
Primi trenta di gioco senza storia, i suoi compagni fanno la gara, ma si divorano tre occasioni clamorose per passare in vantaggio.
Nel calcio c’è un detto a proposito di gol sbagliati che è senza appello.
Dopo l’ennesima occasione sprecata, una palla persa innesca il contropiede degli avversari.
Sono una formazione di outsider e per molti di loro questa finale è l’occasione della carriera: non faranno sconti pur di aggiudicarsela.
Il rasoterra sbuca da una selva di gambe, l’Uomo Ragno si distende e l’agguanta.
Non passa un minuto, altro tiro violento da fuori e con i pugni la devia in calcio d’angolo.
La squadra di casa sbanda, si aggrappa al suo baluardo per non capitolare.
L’ultimo assalto degli ospiti sembra irresistibile, ma la sorte deve ancora vedersela con lui.
Si supera, raggiunge la palla con la punta delle dita, palo! doppio palo!, e la sfera torna salda fra le sue braccia.
Il pubblico è in delirio.
Rinvia lungo per un compagno sulla sinistra; quello arpiona la palla, entra in area e fredda il portiere con un pallonetto: 1-0.
Fischio finale, lo stadio esplode; l’Uomo Ragno corre con le braccia alzate verso la curva che lo osanna. Spavaldo e presuntuoso, sempre stato così.
Un Uomo Ragno, c’è solo un Uomo Ragno…cantano imperituro amore i tifosi.
È il suo risarcimento.
Un cronista lo rincorre: dicono sia la tua ultima partita
Ma chissenefrega!
risponde divertito.

di Daniele Bin, illustrazione di Alda M.C. Torri

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I PERSONAGGI, parliamone ancora

E il personaggio folla? Volete perdere tempo sull’assalto al forno dei Promessi sposi o sulla folla descritta in Furia di Fritz Lang con la sceneggiatura di Norman Krasna?

E quando il personaggio è il paesaggio? Tutti gli altri si muovono dentro di lui, vivono e muoiono, il filo conduttore del nostro racconto, o almeno uno dei pilasti portanti, è proprio il rapporto fra uomo e natura. Quel deserto di sete che prima di uccidere il corpo strazia l’anima, genera flash back, ricordi, miraggi, oppure quegli alberi secolari che ondeggiano nella foresta, o quell’alberello che è in giardino e che il protagonista vede spoglio in inverno e poi rifiorente in primavera, o il cielo, le nuvole, le stelle, la luna, non è al fine il paesaggio un personaggio lui stesso, a volte il vero protagonista, sottile o manifesto che sia? 

E l’alter ego, eh, che dire del personaggio che è il nostro alter ego?

Mi è capitato recentemente, nel gruppo di lettura, di trattare Viaggio al termine della notte di Celine. Qualcuno ha riportato l’idea di alcuni critici sul personaggio di Robinson, alter ego del nostro Ferdinando. È vero, condivido. Però vorrei citare un aspetto più sottile, nel rapporto autore-personaggio, che ho già detto prima, e che ripeto volentieri.

In qualsiasi personaggio c’è l’autore. Vi faccio un esempio, che mi sembra semplice e chiaro. Nel mio racconto serve un personaggio che sia negativo. Chi meglio se non il mio vicino di casa? Lo conosco bene e mi basta descriverlo. È così facile. Come si veste, le parole che dice, i modi di fare. La sua visione del mondo, la mente bacata, l’animo viscido, la viltà più volte mostrata, la pochezza delle idee. Sarà un gioco da ragazzi descriverlo freddamente. Eppure. Il personaggio che ne uscirà inevitabilmente passerà dal mio filtro, e lì dentro ci sono anch’io, io che per fortuna non ho niente in comune con il mio vicino. Forse qualche cosina sì, nessuno è perfetto.

Della vita, e quindi dei personaggi che contribuiranno a sostenerne la mia visione, ho questa idea, che non esiste dualismo. Non sono manicheo, come già ho confessato, ma se voi lo siete non ci sono problemi e sosterrete la vostra idea. Buoni da una parte e cattivi dall’altra. E così se a me serve un personaggio del genere, lo creo in tale modo.  Lo zio Stefano: poche idee ma precise, non ci sono margini o dubbi in lui. A me interessa il personaggio e la storia. Attraverso di lui e la sua vicenda cresco nel mio percorso di scrittore, e di uomo che vuole capire come stanno le cose.

In conclusione vi dico: lo sapete tutti che cosa sono i personaggi. L’avaro, la puttana, il brigadiere, lo scrittore, il marito cornuto, il cane e il gatto. Scriviamo, e sui personaggi che facciamo? Ci lavoriamo come Michelangelo con suo David e nel marmo scolpiamo l’opera.


continua il 24 febbraio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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