Dopo la scuola, girovagava per le strade della città fino al calar della notte, quando il buio la costringeva a tornare a casa: due locali in periferia, una mamma rimasta vedova presto e troppo stanca per combattere, tre fratelli capaci solo di picchiarsi e poi lui, l’orco, il crudele padrone delle loro vite.
Era una bella bambina: bionda, capelli lisci, un incarnato rosato inconsueto in una famiglia in cui tutti erano scuri e ricciuti; no, il nonno no, lui era rosso di pelo come una volpe, affamata. La chiamavano Melina e tutti pensavano al frutto, ma era solo il diminutivo di Carmela, il nome della nonna morta giovane cadendo dalla finestra della camera da letto. Lei era ancora piccola, l’aveva sentita piangere e urlare, poi un tonfo: un segreto di famiglia.
Col tempo incominciò a capire:
“Vieni, Melina bella, vieni sulle mie ginocchia!”
Sembrava amore, ma giorno dopo giorno gli occhi che dovevano amarla si erano fatti famelici, la bramavano senza tregua: un abisso di dolore, nel silenzio. A scuola nessuno sapeva, pensavano fosse timida, parlava poco, non giocava coi compagni; in compenso era l’unica che leggeva i libri della piccola biblioteca di classe, nascosta in un angolo quasi fosse una vergogna.
Lì c’era il suo preferito, quello del bambino che vola, che prende per mano Wendy, John e Michele e porta tutti i Bimbi Sperduti nel cielo… SECONDA STELLA A DESTRA,
FINO ALL’ISOLA CHE NON C’È …
Stamattina è uscita presto e ancora vaga in questo strano inverno senza gelo. Il corpo e l’anima pieni di lividi, stanca di piangere sotto le coperte e di avere paura.
Guarda il cielo e nel crepuscolo brilla Sirio la prima stella, lì vicino la seconda, la piccola Nana Bianca; sulla destra, una strada dritta e l’insegna luminosa del posto di Polizia.
SECONDA STELLA A DESTRA,
POI SEMPRE DRITTO
E LA STRADA LA TROVI DA TE
FINO ALL’ISOLA CHE … C’È

di Alessandra Stifani, illustrazione di Alessandro Boscarini

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Il mio ragazzo non è un bianco, e nemmeno un nero o un giallo, lui non è nato in Europa, in Africa o in Giappone, e veramente non so neppure dove è nato e di che paese è, ma lui è verde, e non è, lo dico subito, un marziano o un extraterrestre, almeno non sembra, ha i sentimenti, le paure, le emozioni di tutti noi, e se mi sentisse dire queste cose si arrabbierebbe molto perché lui è convinto di essere diverso da tutti gli altri, e in un certo senso lo è, altrimenti non sarebbe il mio ragazzo… ha i capelli verdi ed è sempre alterato, ha gli occhi verdi e vede tutto verde, e ha anche la pelle verde perché è ancora acerbo, non è maturo, e se mi sentisse dire queste cose si arrabbierebbe molto perché lui è convinto di sapere tutto della vita, e vive fuori del mondo, rintanato nella sua cameretta e studia, si alza un’ora prima e va a dormire un’ora dopo, salvo appisolarsi sui libri, è un appassionato di astrologia, o per lo meno adesso è questo il suo interesse, è in continua evoluzione, e anche la sua stanza è verde e riflette il carattere, quel carattere che forse io sola al mondo sopporto, e c’è qualcuno che mi dice come fai a tollerarlo, e l’amore è sempre una cosa difficile da capire e da comunicare, e io rispondo che lo amo per quello che è, e non vorrei che cambiasse per fare piacere agli altri, però una cosa ve la voglio dire, e non per giustificare me stessa e farvi cambiare opinione nei miei confronti ma per confidare che cos’è, secondo me, l’amore…il mio ragazzo non ha i capelli verdi, né la pelle, e nemmeno gli occhi, e la sua stanza in realtà è bianca, ma quello che vede la gente è solo il riflesso della sua immagine, lui è così, mostra un colore, e io lo amo, amo lui e il suo colore, e so che un giorno verranno fuori tutti gli altri, una miriade di colori, i colori che non vi potete immaginare, sarà un’esplosione, e non un miracolo. Sono i colori che io già vedo, e questo per me è l’amore.

di Anna Bentivoglio, illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Allora, vediamo se tutto è pronto. Pasta con le sarde scappate, fatta. L’acqua già bolle. La spigola al sale la metto in forno quando servo l’aperitivo, così la mangiamo calda. Le zucchine alla scapece sono perfette tiepide, nessun problema. In frigo ci sono le cassatine alla siciliana (ricetta segreta di Nonna Rosalia, non hanno mai fallito un colpo). IL Donnafugata è in freezer, già aperto. Continuo a tormentarmi così da piu’ un’ora, facendo la spola tra cucina e finestra della sala da pranzo. È tutto pronto. Bicchieri di cristallo, posate d’argento prese in prestito dai miei, portatovaglioli e sottopiatti di legno. Perché sono così agitato, allora? Perché non arriva, sono due settimane – da quando cioè l’ho convinta a venire a cena da me – che non solo non dormo, ma avrò cambiato il menu una trentina di volte. Poi dicono che la strada del cuore passa per lo stomaco. Quale stomaco? Non penso che a lei. Non ho più fame. Non ho più concentrazione. E la sogno, irrimediabilmente, a occhi aperti. Sogno quello che le potrei dire, di rivederla non appena ci siamo salutati, di come la potrei far ridere ancora, per sentire quella sua risata a testa indietro che squarcia qualsiasi discorso, per vedere quei denti bianchi e quegli occhi che si inumidiscono. Cazzo, comincia pure a nevicare. Cos’è, il citofono? Mi precipito, sì, è al terzo piano!
Il suo odore la precede. Un misto di timo e mughetto, sfacciato, quasi arrogante. Entra, ed è un pugno allo stomaco. Provo a darmi un contegno, ma sono già fuori uso. Mi guarda ed è come se dicesse “Mio”. Beviamo, e non capisco cosa sto dicendo. Provo una sorta di dicotomia. Lei parla, ride, scherza, mi guarda con il suo solito sguardo che mette in disordine mente e stomaco e poi c’è un altro io che parla e la fa ridere. Ma in realtà io, il mio vero io, non ha altra occupazione che guardarla, goderla, immergersi nei suoi occhi. I piatti mi danno una mano, Nonna Rosalia è una garanzia. Mi fai vedere la tua casetta? Certo, vieni, non è un gran che. E in un attimo (ma non stavamo in soggiorno?) ci troviamo sul letto. E lì continuiamo a mangiare, a nutrirci l’uno dell’altra. Io perdo la conoscenza di spazio e tempo. È tutta una nebbia indistinta che ruota attorno a questi due occhi magici, che mi parlano di calore, di tramonti, di vino, di corse sulla spiaggia. Le nostre pelli restano attaccate, a lungo, come se l’unica possibilità per sopravvivere fosse quella di unirci il più possibile. Odori, sapori, sguardi, parole, si uniscono. I nostri piedi, freddi, parlano un linguaggio che non conoscevano prima. Si accarezzano, si intrecciano, si conoscono, si capiscono.
È questo l’amore?
Non lo so, l’unica cosa che capisco è che i nostri corpi, le nostre anime si stanno appartenendo. Restiamo incollati così, nel buio, con i battiti dei cuori che rallentano, solo ora. Ed è qui che ho cominciato ad avere paura. Di quello che succederà tra qualche minuto, o di quello che succederà domani. È questo l’amore?

di Gianluca Fiore

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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I PERSONAGGI, il divertimento continua

Com’è possibile scrivere un racconto senza personaggi, anche se, come spesso capita nel nostro caso, si tratta di racconti di sole duemila battute? I personaggi nella narrativa sono come l’acqua nel mare. Se ne vogliamo parlare, la cosa si fa lunga, perché il mare è vasto.

Riprendiamo la differenza fra la prima o la terza persona e facciamo un sacco di letture, di confronti, ma quello che dico sempre è che siamo qui per scrivere, e quindi scriviamo. Do per scontato l’importanza dei personaggi, e quando li descriviamo, nel loro aspetto fisico, di come sono vestiti, o nudi, nel loro carattere e modi di essere… a chi ci siamo ispirati, magari mettendo insieme le caratteristiche di due o più persone che conosciamo… non è forse un divertimento tutto questo? È il bello della nostra arte, la capacità che abbiamo acquisito, come uno scultore aggiungiamo e togliamo creta da quella figura che non è ancora diventata ciò che abbiamo in mente.

Per chi ama raccontare in prima persona, l’io narrante è davvero uno spettacolo sul quale e con il quale giocare. E la terza persona, il protagonista della storia? Il lettore ci chiede sempre ma sei tu quel personaggio, la storia è autobiografica? Quando descrivo quel personaggio generoso e spendaccione, mentre sanno tutti che io sono un tirchio della miseria, non sono sempre io? Dobbiamo scomodare per forza il buon Flaubert per sapere che Madame Bovary c’est moi? Qualcuno vuole rimarcare che la nostra scrittura è creativa? Senza la creazione di personaggi non c’è narrazione. Quando ci servono li inventiamo. Abbiamo già un’idea ben definita della nostra opera, c’è il personaggio principale, e poi gli altri, più o meno importanti, e quelli detti minori. Ci capita però di trovarci in una situazione di stallo, l’azione non va avanti, s’è bloccata. È in realtà la nostra fantasia che ha perso vitalità, e con essa la storia. Andava tutto così bene, e adesso? Inventiamo uno o più personaggi, ci salveranno da quella pagina arida che non ci aspettavamo di incontrare. E chissà che quel personaggio soccorrevole non acquisterà una sua autonomia e comparirà in altre pagine.

E possiamo anche averne uno solo, di personaggio, come quello che si è trovato solo al mondo e gira disperato dalla prima all’ultima pagina.


Continua il 17 febbraio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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Ma chi l’ha detto che l’amore è rosso?
Isotta pensava a questo mentre cercava di buttar giù le prime righe del suo “corto”. Non aveva mai amato i luoghi comuni e ora, proprio su uno dei più comuni, quasi un assioma, doveva scrivere qualcosa. Avrebbe potuto raccontare della sua gatta rossa: l’affetto per i propri animali non è una forma d’amore?
Non era nemmeno il suo colore preferito e d’istinto avrebbe scritto la confutazione del tema. Se le avessero chiesto di associare l’amore a un colore avrebbe scelto l’azzurro o il verde, tinte che da sempre le trasmettevano serenità, appagamento. Il rosso era vitalità, energia, le faceva venire in mente sua madre che amava le scarpe rosse. E le ricordava che si era vicini a Natale.
Si guardava intorno alla ricerca di una minima ispirazione e i pensieri si mescolavano a una sensazione di umido: l’inverno non era più freddo come quando era una bambina, ma umido. La sala d’attesa della stazione era vuota.
Aveva perso il treno, per l’ennesima volta. Luca era di sicuro già arrivato e la stava aspettando in auto.
Luca, il suo colore azzurro.
Lui sempre in anticipo, lei sempre in ritardo.
“Quando ti deciderai a imparare a guidare?”. Le ripeteva Luca. E faceva dell’ironia sul suo nome: Isotta, come la famosa automobile e lei non aveva nemmeno la patente!
Cominciava, però, a sentire un pò di tensione quando si toccava l’argomento puntualità e si aspettava che, prima o poi, lui le dicesse che era stanco di aspettarla alla stazione, stanco che finisse di studiare, stanco di non essere presentato a suoi.
Tirò fuori il cellulare dalla borsa: scrivergli che era in ritardo? Non erano soliti mandarsi sms. Lei arrivava. Sempre. Lui aspettava. Sempre.
La prese una sensazione di malessere. Avrebbe voluto non aver perso quel treno. Lo avrebbe voluto per lui. Lo avrebbe voluto per loro due.
Capì che il treno era lei, sempre in corsa e Luca la sua fermata. Ma non lo trovò ad aspettarla quel giorno.
Luca, il suo colore azzurro.
Tornò a casa.
E fu colore nero.
Giunse Natale. Le luci sul balcone, l’albero addobbato a festa, la tovaglia rossa. Luca era lì. Un pensiero veloce la attraversò. Sorrise. Luca era proprio azzurro!
Tra i regali Isotta trovò una piccola scatola. Dentro un orologio con un cinturino di pelle rossa e un biglietto: “Rosso come l’amore. Per non perdere (più) gli appuntamenti con la felicità. Papà.”

di Anna Rosa Confalonieri, disegno di Anna Lucrezia Rossi

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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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A chi lo elogiava pubblicamente nel grande salone col lampadario dai mille tentacoli, il capitano Gregori rispondeva con un lieve sorriso. In quelle maree di complimenti da anni si orientava con l’unica bussola che gli consentiva di non andare alla deriva: il silenzio.
Il solo movimento verso l’altro (l’issare un calice) lo dedicò a quei due sposini, di classe sociale così lontana e voglia di vivere così vicina, che sul pontile, abbracciati, guardavano la terra promessa. Insomma, la luce della celebrità e l’illuminazione degli applausi lo accecavano. Così cercò ombra nel ventre di un bar, dove sapeva e salpava la ciurma, compagna di quel viaggio che in altro mondo non poteva certo finire.
Ma ognuno ha le sue stanze, e vedere un capitano tra i beoni e i bestemmiatori è cosa ben rara. Eppure nessuno fece caso al suo ingresso perché tutti quanti erano raccolti attorno al mozzo. Seduto su una sedia sgangherata, il mozzo, sudato, raccontava: “In mezzo al mare una donna bianca, così enorme, alla luce delle stelle, che di guardarla uno non si stanca”.
E quando un impertinente “eri ubriaco marcio” chiese: “Hai almeno un testimone senza bottiglia che era con te sul cassero quella notte?”, gli occhi del mozzo, alzandosi, incontrarono quelli del capitano. Il silenzio, così fuori rotta in quel sotterraneo, spostò il faro dell’attenzione su quel lustre ospite che laggiù non aveva autorità.
Il capitano girò le spalle, andò al bancone, e sentì il dito indice del mozzo all’altezza dei reni. Ordinò da bere. Il barista versò un’insinuazione nelle sue orecchie: “Io non ho mai messo piede sull’infinito vivente ma ti assicuro che di tutti gli sguardi che ho visto da dietro questo sbarra, tu sei proprio uno di quelli che la Venere bianca l’ha vista per davvero!”. Il capitano non lo guardò nemmeno, trangugiò, lasciò una banconota tanto grande da far riempire i boccoli agli astanti e se ne andò mentre il brusio per quel racconto inverosimile cresceva d’intensità.
In camera aprì la finestra, si accese la pipa “in questa alba fresca e scura che rassomiglia un po’ alla vita. C’è solo un po’ di nebbia che annuncia il sole. Andiamo avanti tranquillamente”. Fu l’ultimo suo canto.
Lo trovarono la mattina seguente. Era diventato una statua ornata da candide conchiglie. Se lo annusavi riconoscevi il profumo del mare.
Lo deposero al Museo della Marina cittadino.
Leggenda vuole che se si sta innanzi a lui in perfetto silenzio si ode la risacca. Leggenda vuole che l’apparizione della Venere bianca, per alcuni sia una maledizione e per altri una benedizione; per taluni sia voglia di vivere, per altri voglia di morire.

di Paolo Negri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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I PERSONAGGI, crearli è un divertimento

Per quanto incredibile sia, c’è gente che scrive un racconto senza metterci un personaggio, o quasi, a stento lo accenna, impalpabile figura di contorno. Potrei fare tanti esempi, e ne riporto uno che conosco bene: il mio.

Volevo scrivere un racconto per dimostrare che ogni giorno è diverso dall’altro. Dopo una decina di versioni ero a metà e mi contorcevo ancora su me stesso. Correvo dietro al concetto che volevo esprimere, e ci giravo attorno. Non stavo in sostanza scrivendo un racconto.

La pessima pagina che avevo finora partorito forse era un saggio, ma nemmeno, perché io ero partito per scrivere un racconto, e non un saggio. Volevo sostenere la mia idea grazie a una narrazione leggera, ma pungente. Dopo tanto penare, ho capito che dovevo metterci un personaggio, e mi è venuta in mente la ragazza dai capelli verdi (*) che avevo visto il giorno prima alla stazione. In verità non aveva i capelli verdi. Le ho messo un piercing al labbro, i capelli appunto verdi, i jeans stracci, così si contrapponeva all’io narrante che passava le sue giornate monotone in ufficio nell’attesa delle ferie, o dell’uscita del lavoro alla sera per cercare di vivere una vita ormai compromessa dall’abulia e dal troppo tempo sprecato.

Nella seconda parte ho avuto l’idea di mettere una ferita segreta sull’addome della ragazza, perché lei veniva da una guerra di un paese vicino, e così ho aumentato il divario fra i due, tanto che quel cretino dell’io narrante alla fine capisce che i giorni non sono tutti uguali, ma piuttosto tutti da vivere.

E di casi come il mio ne ho trovati tanti nei piacevoli mercoledì sera prima, divenuti poi sabati pomeriggio, trascorsi a leggere i racconti dei corsisti. Di chi partiva per sostenere un’idea e alla fine non aveva scritto un racconto, ma solo una serie di considerazioni. Insieme ci siamo divertiti a costruire personaggi veri, in carne e ossa, che mostravano con la loro presenza nella storia quell’enunciato che spesso era scritto nelle prime due righe.


Continua il 10 febbraio

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CORPO CONTUNDENTE *

Nello schema del giallo il punto di partenza è il crimine, l’evento misterioso che qualifica la storia. Il nostro racconto deve comprendere almeno una morte violenta o, meglio, una catena di delitti. In alternativa un caso molto drammatico, come un rapimento o una rapina. Le regole classiche suggeriscono che il crimine debba avvenire abbastanza presto, nella narrazione, per lasciare poi spazio al secondo punto della trama, l’indagine.

I dettagli sono essenziali per la credibilità della storia. Per prima cosa il movente, che sarà proporzionato e determinato da una logica, che fa capo all’assassino. E’ importante perché suggerisce il legame del colpevole con la vittima e quindi scoprirlo indirizza le indagini. Le due grandi categorie di moventi sono: la passionale (amore/odio, gelosia, invidia, desiderio di vendetta ecc.) e l’economica, cioè un beneficio in soldi o di altro tipo che riceverà l’omicida dal suo delitto. In questo argomento dobbiamo però almeno accennare ai serial killer, anche se avranno uno spazio più avanti. Il movente non è subito evidente ma c’è una spinta a uccidere per motivi intrinseci all’assassino e la ricerca di una gratificazione psicologica di varia natura.

La scelta accurata dell’arma del delitto è fondamentale per la partenza dell’indagine, e dà una prima indicazione sul colpevole. L’assassino non la sceglie a caso, e quindi nemmeno l’autore deve farlo! Le possibilità sono tantissime: solo Agatha Christie, nei suoi romanzi, ne ha usate almeno sedici diverse: dall’investimento al tradizionale colpo di pistola, fino all’arco e frecce o una scarica elettrica come in Poirot e i quattro.

Vale il consiglio generale di considerare la forza fisica che serve per usarla e di tener presente la differenza tra uomo e donna nella scelta, per propensione psicologica. L’autore deve avere o acquisire nozioni tecniche e anatomiche, ad esempio deve saper descrivere gli effetti di un fungo velenoso oppure la forma di una ferita da pugnale.

In alcuni gialli l’arma è al centro del mistero perché non si trova o perché è strana, diabolica. Qui scatta però il solito avvertimento di evitare soluzioni troppo complicate e inverosimili, per non forzare la credulità del lettore.

Per citare un raffinato strumento di morte in letteratura segnalo il velenoso acido cianidrico versato in un serbatoio per nebulizzare il pesticida di un trattore in La tomba di Helios di Pierre Magnan.

E per quanto riguarda un movente particolare ecco l’incipit di La morte non sa leggere di Ruth Rendell:

Eunice Parchman sterminò la famiglia Coverdale perché non sapeva leggere, perché non sapeva scrivere.

Che è anche un bell’esempio di inizio fulminante.

* Georgette Heyer  1938

Angela Borghi, medico, ha lavorato in ospedale e ora si dedica alle sue passioni, soprattutto scrivere. Ha partecipato ad antologie di racconti e pubblicato quattro romanzi gialli: Delitto al Sacro monte, I misteri del convento di Casbeno, Che domenica bestiale e La ragazza con il vestito azzurro.


continua il 22 febbraio 2024


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