Quel sabato nella via c’era la solita marmaglia di turisti affamata di souvenir. Victor tirò su la saracinesca della bottega di antiquariato in Portobello Road. Da quando la moglie Elisabeth lo aveva lasciato, ogni azione era più pesante: aprire il negozio, portare fuori gli scaffali e riporvi la mercanzia. Aveva sempre dubbi sugli abbinamenti, “Cose da donne “ bofonchiava sotto la barba incolta. Lei non avrebbe sopportato quel look trasandato, ma ormai non c’era più e anche l’uomo ben rasato e curato se n’era andato con lei. Era tornato quello burbero e selvatico, quello che si metteva i vestiti del giorno prima. Aveva anche ripreso a fumare, perfino di notte, ogni volta che il pensiero di lei lo teneva sveglio.
Una parvenza di dignità l’aveva mantenuta, per Bess, sua figlia. Il musetto roseo illuminato dai dentini da latte aguzzi spuntò dall’uscio a cercarlo.
“Ciao papà!” la sua voce cristallina lo fece trasalire, mentre disponeva la targa vintage dei sigari cubani di fianco a quella del rum Havana Club. “Ciao Bessy, cosa ci fai qui? Non dovevi fare i compiti?”, la rimproverò, “sì, ma mi annoiavo, ti aiuto?”, suggerì lei, “non è necessario, vieni giù dopo, chiudo il negozio e ti porto in un posto speciale, ok?” Victor sfoggiò il suo sorriso migliore, e le dette un buffetto sulla testa ricciuta. Bess sparì mogia nel locale, e lui appese un modellino di Fairey Swordfish, vicino al triplano del Barone Rosso.
Arrivavano i primi clienti. Lui si fingeva impegnato, ma appena perdevano interesse, si fiondava da loro per illustrare gli ultimi arrivi e le offerte del giorno. Era tardi, e di Bess nemmeno l’ombra. Girò il cartello sulla la scritta “Closed”. Si diresse verso la porta dietro al bancone, e imboccò le scale che portavano al loro appartamento.
La bambina era ferma alla finestra, gli occhi puntati al cielo che imbruniva. Aspettava la prima stella, quella della mamma, come lui le aveva raccontato tante volte. “Eccola è lei, papà, ci sta guardando!” Victor la strinse dolcemente tra le braccia e le sussurrò: “Stasera andiamo sul London Eye (1) , così quando saremo in cima ci sembrerà di essere lì con lei e potremo quasi toccarla con un dito”.

(1) ruota panoramica di Londra situata sulla riva sud del Tamigi

di Olga Riva Rovaglio, illustrazione di Silvia Gabardi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Si alzò con calma, non aveva fretta né voleva svegliare anzitempo i bambini.
Spinse la coperta che chiudeva l’ingresso della tenda e alzò gli occhi al cielo: un’altra giornata di bianco lattiginoso, l’aria ferma, un silenzio opprimente.
Quattordici anni appena compiuti e un unico scopo: sopravvivere.
Guardò i fagotti stesi sul pavimento: quattro bambini sconosciuti che aveva trovato per strada; l’avevano implorato di portarli via dalla città abbandonata e adesso erano la sua famiglia.
Venus e Alba, quasi ragazzine, che portavano in spalla i piccoli quando erano troppo sfiniti per camminare: Jem, gli occhi scavati il corpo scosso da tremori, si spegneva giorno dopo giorno e il piccolo Adam, che ancora sapeva sorridere.
Le scorte di acqua erano quasi finite, oggi avrebbero raggiunto il crinale delle colline, scavato nel fondo delle crepe e, forse, sarebbero sopravvissuti, almeno un po’.
«Max, dove sei?»
«Adam, cerca di dormire! È presto per mettersi in cammino!»
«Ho paura, vieni da me, raccontami ancora la storia del nonno»
Già, la “storia del Nonno”: era passata di bocca in bocca da generazioni e nessuno sapeva più chi fosse il Nonno. Max l’aveva sentita da suo padre, che a sua volta l’aveva sentita da uno zio, e lui chissà da chi…
Si accoccolò vicino al bambino e sussurrò:
«C’era una volta una grande casa piena di bambini e animali in libertà. La chiamavano fattoria, era circondata da campi e alberi carichi di frutti. In lontananza si sentiva il rumore del fiume carico d’acqua che correva verso valle …»
Il respiro di Adam si fece regolare, bastava poco per sognare.
«Max ti prego continua!» Anche Venus e Alba si erano svegliate.
«… Si susseguivano le stagioni, il sole, poi la pioggia e la neve: faceva un gran freddo, la terra restava sotto una coltre bianca a riposare, pronta a rinascere a primavera…»
Jem emise un lamento, bruciava di febbre e non trovava riposo.
«… e quando il cielo si faceva scuro e tuoni e lampi di luce spaventavano il cuore dei bambini, dal cielo cadevano secchiate di pioggia, lo chiamavano temporale…»
«Max, hai mai visto un…?»
La parola rimase sospesa, in lontananza un brontolio sconosciuto, un vento forte.
Si alzò di corsa e uscì dalla tenda: il cielo era scuro, pareva correre verso le colline: dovevano essere così le nuvole cariche di pioggia!
Max non aveva mai visto un temporale, né la pioggia, né prati né alberi, ma seppe che erano salvi.

di Alessandra Stifani, foto di Alessandro Boscarini

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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L’INCIPIT, chi bene inizia

Nella vetrina della prima sede del Cavedio invia Cavallotti, nel centro storico di Varese, dal 2000 e per diversi anni, esponemmo racconti brevi, anzi brevissimi. Massimo 2600 battute spazi compresi. L’ipotetico lettore al quale ci rivolgevamo era un passante al quale potevamo chiedere solo pochi minuti di attenzione. Fondamentale l’incipit. Se le prime due righe non erano più che accattivanti perdevamo un cliente, che per sua natura non ha tempo da perdere.

Una situazione stimolante. Da noi pretendeva il meglio.

Mi ricordo un amico giornalista che aveva la fissa dell’attacco, e ricordo il suo cestino pieno di fogli accartocciati (a quei tempi si scriveva con la macchina per scrivere), ma ricordo anche i suoi articoli, che iniziavano sempre in modo originale.

Se questo è l’impegno di ogni bravo giornalista, per uno scrittore un buon inizio è ancora più importante. Per un racconto, dove l’attacco è risolto in poco spazio, ma anche per un romanzo. Il fatto che poi ci saranno centinaia di pagine da leggere non giustifica uno scarso impegno nella prima.

Quando sento qualche lettore che parla di libri che incominciano a essere interessanti dopo venti pagine sto male, e mi chiedo come abbia l’autore potuto pubblicare, se non come raccomandato. Non capisco neppure il lettore che si sente in obbligo di continuare a leggere. Forse lo fa per giustificare il costo del libro.

Penso che il tempo in questa vita a mia disposizione non sia tanto, di sicuro non mi va di sprecarlo, e così cambio lettura. L’incipit, di racconto o di romanzo che sia, è il suo biglietto da visita. Suggerimenti? Vi direi di riprendere in mano i libri che avete letto e di rileggere la prima pagina.

Ci sono autori che da subito ammaliano e fanno intendere che cosa ci attende. Un canto di sirena che ci chiama, per vivere un’avventura.

Personalmente non amo gli incipit con il discorso diretto, anche se vi sarebbero ottimi esempi pure in questo senso. In genere li trovo deboli, mi sembra che l’autore abbia fretta di far parlare i suoi personaggi. Mi è capitato a volte, in questi casi, di dare il suggerimento di attaccare con una breve descrizione sul personaggio o sull’ambiente, e poi, subito dopo, introdurre il discorso diretto. Quasi sempre il risultato è stato buono. Mettiamo a confronto il primo incipit con la seconda versione, nella quale abbiamo fatto precedere le parole di un personaggio da una breve descrizione, e poi decidiamo quale sia più efficace.


Continua il 3 febbraio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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Chi si ferma è perduto! gridano i tenenti. Chi si ferma è perduto! ripetono i sergenti.
Cammino un giorno intero. Sono stanco, ho fame, ho sonno. Fiume ghiacciato. Terreno ghiacciato. Nevica, e la neve si accumula. Un passo dopo l’altro, e con la neve fresca il passo è più pesante. Ho fame. Ho sonno. Voglia di buttarmi in questa morbidezza, e dormire. Per sempre. Addio, mondo fasullo. Mi hai ingannato, e io c’ho creduto. Ho creduto all’amore. È finita, prima di cominciare. Papà, mamma, fratelli, sorelle. Amici. Mi ricorderete. Quella volta in cui. Olga, in un solo giorno ti ho dimenticata. Non sono più un uomo. Cammino e cammino. Ti prometto, però. L’ultima immagine sarai tu. L’amore. Cammino e cammino, cammino. Laggiù una luce, un’isba. Devo arrivarci. Devo. Salvo la vita. Non è la mia terra. Ho lasciato a casa l’amore perché avevo un dovere da compiere. Adesso l’ho compiuto, ci sono passato dentro, al dovere. Ne sono uscito. Sono un uomo libero. Libero. Voglio solo amare.
Cammino cammino cammino. Chi si ferma è perduto. I russi attaccano, sparano. Oggi c’è il sole. Pallido, ha una faccia da funerale. Il nostro. È lì per vedere, per farci le condoglianze. E le pernacchie. Ride di noi, stupidi animali. Incontro alpini che hanno camminato avanti e adesso si sono afflosciati. Feriti, induriti dal freddo.
Uno è steso, rannicchiato. Un modo originale per trapassare. Un feto nella placenta. È già morto, e prega ancora. La morte ama tutti.
Un altro è in croce. Gli è venuto spontaneo stendersi come un Gesù Cristo. Non c’è Maddalena, non ci sono le pie donne, e chi passa capisce. La morte ama tutti.
Un alpino si è inginocchiato, e così è rimasto. Figurante di un presepe. Ma qui è il calvario. Dentro tutta la vita, da Betlemme alle Tre croci. La morte ama tutti.
Vedo il poeta Bernasconi Alvaro seduto nella neve. Alvaro, Alvaro. Non ce l’ha fatta. Gli è bastata una notte di gelo. C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico. La morte ama tutti.
Io no, resisto, e cammino. Vivo il doppio, come quel giorno che mi alzai con Olga nella mente. Io sono quello che morirà, e guardo i morti che camminano con me. Sono cosciente. Il soldato che racconta è un altro. Lui scrive nel vento, e consegna parole all’Infinito. Io ho lo zaino in spalla, il fucile a tracolla.

di Abramo Vane Pagina tratta da “Il soldato inutile” di Abramo Vane Edizioni Il cavedio 

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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La tavola è ricoperta di piatti: carni e verdure spiccano colorati sulla tovaglia bianca, i bicchieri tintinnano allegri e tutti si servono dalle zuppiere stracolme. Rido e mangio senza pensieri quando una voce improvvisa, dura, spegne il mio sogno e i colori. Sono sveglio, devo lasciare andare le ultime immagini. Rifaccio la cuccetta in fretta. Esco dalla baracca in un mondo in bianco, nero e grigio. Fa freddo. Non è ancora l’alba e il cielo è senza stelle. Mi metto in coda insieme agli altri per il pezzo di pane, la razione di un giorno, che mangeremo a piccoli morsi per farlo durare di più e ne raccoglieremo le briciole.
Anche il pane è grigio, senza colore e senza profumo. Ci sembra buonissimo.
Davanti a me il mio vicino di cuccetta, 174517, un ragazzo di meno di vent’anni, barcolla. Cerco di sostenerlo perché non cada, senza farmi vedere da nessuno, con un gesto che si perda nel buio. Lui si volta e mi guarda in silenzio. La faccia è un teschio, le braccia e le gambe sono quelle di uno scheletro. Gli occhi hanno dentro lo scuro del cielo. Non ce la farà.
In lontananza strie grigie di nuvole si confondono con la neve sporca che ricopre il terreno. Dietro i reticolati file di alberi dai rami nudi coprono i campi alla vista.
Prendo il mio pezzo di pane e resto vicino a lui mentre ci allontaniamo dalla zona della distribuzione. Aspetto che l’Unterscharfűhrerse ne vada e che i soldati guardino da un’altra parte. Molte cose sono proibite, qui.
Camminiamo insieme, il suo passo è più incerto e più lento.
Mi decido, stacco un pezzo del mio pane. Grosso. Lo tendo al ragazzo senza parlare. Forse non ce la farà. E nemmeno io.
Ma quando tiene tra le mani il pezzo di pane, per la prima volta lo vedo sorridere anche con gli occhi. Non sono più del colore del fango, ora sono blu.

(Giornata della Memoria, 27 gennaio)

di Angela Borghi

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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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Ci sono cento, mille, infinite strade da percorrere, e oggi, su una di queste, ho incontrato Samuele Arcangioli, pittore, ma non è che gli ho dato la mano e detto tanto piacere, Samuele l’ho conosciuto attraverso il catalogo delle sue opere, e anche questa è una strada come altre, e anzi, fra le tante, quella dell’arte è privilegiata… e capita che hai un’emozione, una gioia incontenibile, un dolore, e hai una necessità vitale, come il bere o il dormire, devi esprimere, comunicare, ma ciò che hai vissuto è solo tuo, è un’esperienza personale, è come il pensiero di un santo che vive in una grotta su in montagna, nessuno sa di lui, ma quel suo pensiero è così forte che si consegna all’infinito per proprio conto, con spontanea innocenza, e seppure di grande dolcezza è più potente di tutto il potere del mondo… e ci sono cento, mille, infinite strade da percorrere e da ragazzo pensavo di camminare per ognuna di esse, e adesso sono su questa pagina di leonessa e leggo i dettagli, 100×150, immensa, me la figuro su una parete e prendo le misure, qui non ci starebbe nemmeno e allora la collocherei là, ma forse la mia non è una casa adatta, sarebbe come mettere un animale in gabbia, quella leonessa ha bisogno del salone di una villa… olio, carta da pacco e foglia oro su tavola, mi perdo in sensazioni e pensieri che non c’entrano molto con l’esperienza africana dell’autore, ma l’arte è così, apre spiragli, le sue parole sono mute, vanno da anima ad anima, è come se ci si parlasse da vecchi amici, uno scrive, o disegna, e un altro ascolta, e qualcosa si muove, gli stimoli non mancano e dove arriveremo non lo sappiamo. Ci sono cento, mille, infinite strade e forse le percorreremo tutte, forse ne tracceremo altre o forse, con umiltà, ne cercheremo di impossibili.

di Fedele Mozzi, dipinto di Samuele Arcangioli

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Stanotte c’è stato il temporale. Il cielo è ancora grigio e intorno tutto dice che l’autunno è alle porte: lo dice il calendario appeso alla parete, lo annunciano le colline sopra la città che sfoggiano nuovi colori e i negozi che espongono abiti in maglia accanto a ciò che resta dei saldi estivi. Il passaggio di stagione è vicino, ma a lei piace quest’atmosfera sospesa, incerta. Ben si sposa con un carattere indolente. L’aria frizzante del mattino le spettina i capelli sciolti. Si specchia in una vetrina e con un gesto veloce li lega con un elastico. E’ bella Astrid, di una bellezza esotica: capelli ricci corvini, pelle ambrata e grandi occhi verdi. Suo padre non l’ha conosciuto: avventura estiva di sua madre a Cuba, nella vacanza dopo la maturità. Ha un carattere schivo, pochi amici, una storia nata tra i banchi di scuola che dura più per abitudine e pigrizia che per convinzione, un lavoro che non la soddisfa e prossima ai trent’anni. Ha un groppo in gola e mordicchia le unghie. Ha bisogno di cambiamento. Lo pensa, lo dice, ma non trova il coraggio. Si sente in ritardo nella vita. “L’orologio biologico corre”, le fa eco sua madre, che mai per un attimo si è pentita di averla tenuta e sembra una sua coetanea. Ripensa alla proposta di matrimonio di Mario, alla quale aveva risposto in modo ironico con un “Mi metterai sulla croce a trentatré anni, come Cristo”. Lo feriva a volte per punirlo di non essere più capace di stupirla. Si siede al tavolo del solito baretto e ordina il solito cappuccino con poco caffè, mentre sfoglia quel che resta di un quotidiano stropicciato da più mani. L’occhio cade su un trafiletto: il bando per l’estrazione delle 50.000 Green Card messe a disposizione dal governo americano. Le viene in mente un film romantico degli anni ‘90, con quell’attrice dai capelli simili ai suoi. Un matrimonio di convenienza sfociato in un amore impossibile. E’ la fine di settembre, la fine di un’estate monotona trascorsa senza quasi lasciarne ricordo, una delle tante, con poche fotografie e sempre uguali. Chissà prima o poi anche lei andrà a Cuba, magari in viaggio di nozze. Le viene quasi da ridere. Cerca per curiosità la data di scadenza del bando. La tentazione di iscriversi è forte, così come lo è la paura nel futuro, che immagina troppo simile al suo presente. Come dirlo agli altri? A Mario, a sua madre… In fondo c’è tempo per le confessioni: l’estrazione avverrà fra uno o due anni; può anche non dirlo, sarà il suo segreto. Si iscrive per gioco, ma in fondo ci crede. La carta è verde, come la speranza.

di Annarosa Cofalonieri

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LA LIMA, un arnese utile e non il solo

L’esempio che faccio sempre è quello di James Joyce, che scrisse mille pagine del suo Dedalus e ne pubblicò trecento. Fu un sostenitore del lavoro di lima, quello che all’inizio della nostra formazione ci costa così caro. Parole, frasi, periodi, idee, scene, personaggi, capitoli interi, tutto viene travolto, per essere essenziali e incisivi. Umiltà e senso del distacco.

Tutto procede insieme. Guardiamo allo stile e alla struttura e ci accorgiamo che mancano paletti solidi. Andiamo allora a costruirli, attraverso i personaggi, l’approfondimento di quelli che già esistono e, se è il caso, con nuovi che introduciamo proprio per sostenere la struttura.


Continua il 27 gennaio

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“Nonna perché le finestre di quella casetta sono sempre chiuse?” Sara è una ragazzina di tredici anni, molto curiosa. Seduta accanto alla sua dolce nonnina guarda in fondo alla strada. Le nubi grigie di un temporale in arrivo non le permettono di andare in cortile a giocare.
“Sai, in quella casetta viveva una bambina, ora non c’è più nessuno”.
“E perché?” l’innocente curiosità incalza.
Sara si siede in braccio alla nonna per ascoltare il racconto. “Una mattina quella bambina aprì una di quelle finestre, vide le nubi da temporale, come quelle di oggi, e la richiuse. A mezzogiorno erano ancora chiuse. Era molto strano perché la mamma si alzava sempre presto. Io e il nonno abitavamo già in questa casa, mi preoccupai e andai a controllare. Venne ad aprire la piccola, era sporca di sangue, non diceva niente. Entrai e le chiesi cos’era successo, mi prese per mano e mi portò in camera. La scena che vidi era un orrore. Sangue ovunque e i suoi genitori nel letto, morti. Chiamai la polizia, mi fecero molte domande, raccontai quello che sapevo, la mia preoccupazione per le finestre chiuse e come si era presentata la piccola alla porta. La bambina non parlava, lo shock fu tale che rimase muta per molti mesi. Fu affidata a una coppia di sposini, le diedero tanto amore e l’aiuto di cui aveva bisogno. La polizia continuò le indagini, tutti i giorni erano in quella casa per fare rilievi. Trovarono solo lenzuola sporche in modo strano. La piccola era seguita da una psicologa che sperimentò varie terapie, senza successo. Infine tentò con l’ipnosi. Le fece rivivere quella notte e stavolta riuscì. Aveva visto e rimosso tutto. Lo zio Adam, il fratello della mamma, aveva problemi di mente, quella sera era agitato in modo particolare. Aveva rinchiuso in camera da letto i genitori della piccola, picchiati a morte con un bastone e l’aveva obbligata a guardare. Poi li aveva stesi sul letto facendosi aiutare dalla bambina. Le lenzuola erano rimaste candide, tranne dove appoggiavano i corpi. Fece sedere la piccola e le vietò di muoversi, minacciandola di farle lo stesso, lui era in cucina e la vedeva…. “.
“Nonna come sta adesso quella bambina?” Sara era stufa di ascoltare, voleva arrivare alla fine. In quel momento entra la mamma di Sara che le corre incontro per abbracciarla e darle un bacio. “Allora nonna continua, come sta?” Insiste Sara.
La nonna sorride: “Tu che ne dici? La stai abbracciando…”

di Laura De Filippo, illustrazione di Letizia Ghirotto

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