Il suo nome era Mario, ma lo chiamavano Mariolino perché era gracile, trascorreva sempre le vacanze nella casa dei nonni.
Passava buona parte del tempo nel suo rifugio favorito, la soffitta, dove leggeva, e viveva idealmente nel Medio Evo. Si era dato il nome di Bartolomeo, come Bartolomeo Colleoni, il suo modello di cavaliere. Aveva visto una volta a Bergamo la statua equestre rivestita d’oro del condottiero e da allora si immedesimava in lui, inventava storie in cui combatteva e vinceva. Le scriveva e le leggeva al nonno, lui gli faceva da padre. Insieme passavano molte ore.
Il giardino dove giocava era più un bosco che altro, e lì avvenivano le scorrerie più cruente, lui come unico protagonista, oltre a un cane paziente che era, all’occorrenza, un destriero, il nemico, il resto del battaglione.
Il nonno gli aveva costruito un cavallo di legno, come lo usavano ai suoi i tempi, un bastone lungo da tenere in mezzo alle gambe con incollato la sagoma della faccia di un cavallo.
Quando fu più grandicello, costruì una torre di avvistamento in alto sulle acacie, giorni e giorni di tentativi per tenerle insieme, non erano gli alberi più adatti per sostenerla, cadde più volte ma la sua ostinazione nel ricostruirla era più forte del vento. Consumò mille chiodi, corde, martellò ferocemente le dita, ma la torre rimase lassù, ferma e quasi stabile, fino alla fine dell’estate.
Era il giorno del suo compleanno, nove anni. I nonni organizzarono una festicciola, non ci sarebbero stati ospiti, loro tre, la mamma, il destriero.
Scese dalla torre raggiante, aveva sconfitto la Repubblica di Venezia e tornava al castello felice e affamato.
Si fermò, un’auto era parcheggiata nel cortile, sua madre. Ma come, era già arrivata a prenderlo, e la festa?
Da fuori sentì la voce alta della mamma e quella del nonno che urlava, la nonna cercava di mettere pace.
Il nonno accusava la figlia di ricevere in casa uomini.
Uomini? Sì, si era dimenticato della condizione in cui vivevano.
Sapeva che di notte c’era un andirivieni di gente in casa, li sentiva, ma non poteva uscire dalla sua camera. Era un segreto.
Avrebbe preferito vivere con i nonni, qui era libero, felice, non aveva paura, si sentiva protetto, ma non poteva lasciare la mamma sola, a modo suo aveva bisogno di lui.
Urlavano, oh come urlavano.
Tre mesi di felicità cancellati in un solo momento: la realtà. Era stato felice, tanto felice, troppo felice.
Riprese il cavallo e cominciò a correre, galoppare, si fermò sotto il piedestallo del condottiero e guardò su, non era un vero piedestallo ma lo era per lui. Si arrampicò in fretta, dall’alto scorse il nemico che avanzava nel bosco, urlò: “caricaaaa” e con un balzo gli andò incontro

di Elda Caspani, disegno di George Crowhurst

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Bruno era un bruco. Dopo un’operazione coi bisturi diventò Lucrezia. Uscita dal bozzolo, si vestì da farfalla e andò a posarsi tutte le sere sulla panchina che guardava villa Selznick. Da una finestra del secondo piano della villa uscivano le nuvole.
Ma un giorno il maggiordomo chiuse le imposte, fermò l’orologio disegnato sulla facciata e spense il lucernario dell’ingresso. Il signor Selznick da mesi andava rinsecchendosi e quella sera diventò definitivamente un’edera rampicante posta sulla parete nord.
Che si era ora condannati al cielo terso?
Lucrezia volle domandarlo e suonò coraggiosa il campanello.
Le fu aperta la porta d’ingresso ma nessuno la accolse. Ispezionò la casa e il giardino circostante. Incontrò due anziani signori dalla forma di grossi bignè. Un cordiale dialogo svelò la causa della loro impazienza: l’oro. Lo cercavano così da averne abbastanza per forgiare un bambino da vendere al mondo. Col ricavato si garantivano una tomba, una volta defunti e sepolti, dello stesso luccicante materiale!
“E tu, bambina, cosa vai cercando?”. “Le nuvole miei gentili signori”.
Lucrezia si era giusto imbattuta nei sarti cucitori che le indicarono dove trovare gli scarti: “Da quella parte, vai, là si conservano tutte quelle non spedite in cielo”.
Nel vecchio capannone Lucrezia attraversò parecchie nuvole e all’uscita, oltre al piacere, trovò attaccati alla suola delle scarpe i disegni di quella massa di vapore acqueo condensato.
Al maggiordomo che bagnava l’edera chiese informazioni a riguardo e lui, con garbo, le diede le chiavi di una stanza al pianterreno dove la ragazza scoprì l’esistenza di una stampante a forma cubica da cui, se azionata, uscivano proprio i disegni che i due bignè poi cucivano.
Rimase delusa Lucrezia: si aspettava la fantasia ad animare meraviglie, non la corrente elettrica! Eppure volle conoscere gli interni di quel marchingegno.
Chiese il come a due astronomi studiosi dei raggi della bicicletta. Ma essi si mostrarono interessati solo al disegno che formavano, se uniti, i nei comparsi sul suo braccio destro: Cassiopea!
Tuttavia furono ben disposti nel recapitarle l’indirizzo di un matematico indiano che una volta esaminato il “cubo artista” disse: “Geniale! Costruito in modo tale che se smontato non può essere rimontato. Dunque: vuoi altri disegni di nuvole o scoprire come vengono creati?”.
Lucrezia nervosa iniziò a scarabocchiare su un foglio. Un orango tango, amico del matematico, le sorrise, le prese il foglio, lo appoggiò al vetro della finestra e con una mano mimò la caduta della neve.

di Paolo Negri, fotografia di Tiziana Titì Barbaro (Instagram: titi_fotoamando)

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Anche oggi la Piana di Salinagrande è arroventata. Perfino il cavallo sembra percepire l’aria immobile che ci circonda, dove nessuno osa muoversi e anche gli animali cercano di risparmiare energia. Il sudore cola lungo il suo collo muscoloso. Trovo rifugio sotto un albero di fico, le Egadi mi guardano, circondate da un’atmosfera tremolante.
Comincio il mio giro di perlustrazione della proprietà, un’abitudine che ho ereditato da mio nonno. Il padrone deve sempre farsi vedere. Scendo verso il mare, oggi è giornata di mercato e nonostante il caldo i contadini sono arrivati dalle campagne per vendere il poco raccolto che la stagione arida gli ha concesso. Già percepisco i loro richiami, come se urlare più forte potesse cambiare la loro giornata.
Il mio obiettivo, però, è un altro. È il banco di frutta di Rosaria. Mi avvicino, e la scorgo mentre il profumo dei meloni e delle angurie mi colpisce, violento.
La guardo. Occhi penetranti, capelli corvini abbandonati lungo le spalle. Gocce colano con una lentezza estenuante tra i seni. La voce, roca, mi risveglia.
Comandi, signor Conte, anche oggi a mischiarsi col popolo? Fossi in lei me ne sarei stata sotto gli alberi di Villa delle Palme. Cosa le posso offrire?
La frutta la conosci te, meglio di me. Cosa vuoi suggerirmi?
Dipende quello che cerca, signor Conte. La frutta è come la vita. Il fico d’India è per chi non si ferma alle apparenze, per chi è disposto ad andare a fondo, a oltrepassare la superficie delle cose. Magari pagando qualcosa in più riesce, alla fine, a godere di splendidi sapori. Un po’ d’uva? Se vuole provare il dolce e l’aspro della vita senza chiedersi prima come sarà, senza sapere se sarà quel chicco a tradirti, l’uva è la frutta per lei. O la banana, che copre tutti i sapori, nessuno escluso, con la sua consistenza morbida e rassicurante?
Mi si avvicina. Dall’alto la sua scollatura diventa ipnotica. Mi rendo conto che le pulsazioni prendono un ritmo insolito. E che anche io sudo, e non so se per la temperatura.
Ma oggi fa caldo, Conte. È la giornata dell’anguria. Una giornata da stare sdraiati alla spiaggia giù alle Saline, con l’anguria a mollo nell’acqua. La si prende, si divide a metà, e si immerge la faccia nella polpa. Si beve, e si mangia. E poi, ancora col succo che cola, ci si bacia. Perché tutto, Conte, diventa dolce.
Ma mi scusi, Conte, come al solito divagavo. Che le posso dare?
Rosaria, dammi un pomodoro. Uno solo. Ma che sia grosso, e saporito. E morbido. Che lo possa mangiare anche chi i denti non li ha più.

di Gianluca Fiore

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C’è, da qualche giorno, un leone in città, ha la criniera del re e il baffo del conquistatore, passeggia nelle vie di questa cittadina e il tempo si è fermato, ha spezzato la frenesia, lui è lento, agile, forte, dentro di sé ha l’Africa, l’istinto della caccia, e non conosce la psicologia contorta, non l’illusione di Maya, non il superfluo… qualcuno teme per sé e per i figli, il commerciante ha chiuso la saracinesca, ma poi si è affacciato dalla finestra… E mi sono sbagliato, questo leone non è solo, ce ne sono altri, oggi ne ho incontrati almeno tre, il primo è lui, quello che dicevo, ha l’occhio di chi vigila dal suo rialzo e controlla la savana, attento, imperscrutabile, regale, è il sovrano più naturale che esiste al mondo, gli altri lo hanno solo imitato… e il secondo è un giovane leone, è ancora un ragazzotto, ha voglia di giocare, mi sembra un adolescente che non vuole crescere, ma è così bello, e nel suo occhio timido vedo le facoltà che lui ancora non ha scoperto… e poi c’è il terzo, il più inquietante forse, vi scorgo dentro l’essere umano, l’uomo che ritrova i suoi istinti, l’animale che vive nella natura, più lo osservo e più vedo ciò che l’uomo ha perso e che in qualche modo deve ricuperare, se anche lui vuole sopravvivere, se anche lui vuole divenire quello che è… E tutti questi felini sono di proprietà di Samuele Arcangioli, pittore, lui stesso ha criniera e baffo, l’occhio calmo e vigile, lui stesso è un giovane animale timido e manifesta l’istinto primordiale, e ora che l’ho conosciuto meglio direi che questi leoni non gli appartengono. È lui che appartiene a loro.

di Fedele Mozzi, dipinto di Samuele Arcangioli

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Visto dal ponte, questo braccio del Mediterraneo ha l’aria di un animale che sornione respira, senza fretta. Sicuro che prima o poi digerirà tutto quello che arriverà a contatto con le sue acque. Il vento di dicembre fa montare le onde, inizia una nuova giornata a bordo della Aquarius. Guardo la superficie del mare, e cerco di immaginare il tappeto di persone che giace sul fondale. Naufraghi. Uno li può chiamare migranti, ma non sono solo questo. Tutti hanno diritto ad essere aiutati, e salvati. Questo dice la legge del mare, che è anche la legge dell’uomo.
Uno dei ragazzi della Aquarius esce di corsa, hanno avvistato un gommone in difficoltà, l’ennesimo di questo mese maledetto. Più le condizioni sono sfavorevoli, e più si mettono in mare per una traversata che è peggio di una roulette russa. Dieci partono, uno arriva.
Il gommone cominciamo a vederlo, o dovrei dire a intuirlo, dopo mezz’ora di navigazione. Una massa di braccia e di gambe si muove in modo disordinato sul pelo dell’acqua. Vestiti variopinti compaiono e scompaiono al ritmo delle onde, una macabra danza di chi vuole scavalcare gli altri nel tentativo di arrivare primo a toccare la Aquarius. Cominciamo il trasbordo, donne in lacrime per i figli, odore di gasolio, merda, uomini che spingono, pianti non so se di gioia o di dolore.
E poi i morti, come sempre. Lo sappiamo bene, dopo anni di questa vita. I bambini. I vecchi. Il mare è una falce, fa fuori chi non ce la fa. Senza chiedere. Senza pensare a quello che potrà fare quel bambino, o cosa potrà insegnare quel vecchio. E poi le donne incinte, la promessa di un futuro infranta in un’acqua gelida. La disillusione di un amore, di una promessa.
Li issiamo a bordo, li curiamo, li nutriamo. Il ventre della Aquarius li scalda, una chioccia in mezzo al mare. Scappano dal loro Paese. Fuggono dalle loro radici. A volte ci dovremmo soffermare sull’enormità di tutto questo.
Cominciamo a intervenire sullo stato di salute. Dobbiamo lavorare rapidamente, siamo un’ambulanza con il primo ospedale utile a giornate di navigazione. Dopo qualche ora di lavoro convulso e senza sosta, la situazione sembra stabilizzarsi. E tiriamo il fiato. Una sigaretta, un bambino che ti si accoccola sulle gambe e dorme, magari sogna il padre. Una donna che ti guarda sussurrandoti cose che non comprendi, ma capisci.
Alcuni si inginocchiano davanti a un vecchio, che parla loro a voce bassa, una breve litania appena sussurrata. Tocca le teste, e da una piccola scatola tira fuori delle ostie. Un prete. Una Messa improvvisata. Poi ricordo, oggi è Natale. Anche qui, lontano dal modo civile. E accarezzo i capelli di questo scricciolo che ho sulle gambe.

di Gianluca Fiore

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IL CONTROLLO, per dare vita alla fantasia

Scriviamo una paginetta, oppure un romanzo di mille pagine, ma le parole non ci debbono sfuggire, non possiamo buttarle sulla pagina bianca senza criterio. La pagina bianca è sacra. È la partenza, e l’arrivo. Il rispetto, di ciò che è superiore a noi, e la comprensione delle parole, che è la guida e lo scopo dello scrivere, debbono essere un costante riferimento nella nostra mente. Scriviamo quello che vogliamo, ma tutto deve essere sotto controllo. L’amore muove i nostri passi, è l’impulso vitale, è una luce che ci guida, ma se non controlliamo tutto questo rimarremo nella banalità, nelle belle idee inespresse, o espresse fino a un certo punto. È questa la differenza, la sensibilità e la maturazione che ci portano su percorsi inesplorati.

Verso l’Infinito. E ciò che appare contraddizione, vita e morte, limiti e infinito, si manifesta per quello che è: un’unica realtà. Se non c’è controllo, la conoscenza sfuma, perde luce, l’amore non riconosce la propria natura, nega sé stesso. La nostra paginetta, o romanzo di mille pagine che sia, non ha la struttura adatta, né lo stile più propizio. Non incidiamo sull’animo del nostro lettore ideale, siamo acqua su marmo. E il nostro scrivere serve solo a coltivare illusione.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


Continua il 23 dicembre

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Ai funerali della signora Agata c’era una gran folla, era molto amata. La nipote, Rosa, non riusciva a darsi pace, l’aveva trovata lei, era caduta dal balcone. Forse, si era sporta troppo per ammirare la sua adorata luna rosa. Il plenilunio che preannuncia la primavera era la passione della nonna, infatti il suo nome, quello della nipote, derivava proprio da quella luna.
Ogni anno al suo arrivo, la nonna si posizionava sul balcone con la sedia a dondolo per ammirarla e parlarle. Diceva che era il suo spirito guida, le aveva mostrato la strada del ritorno, quando, da giovane, si era persa nel parco di Yellowstone.
La casa della nonna piena di ricordi, Rosa si sedette sulla sedia a dondolo a guardare le foto della giovane Agata. Ricordava i pomeriggi trascorsi insieme, gli aneddoti per ogni singola foto. Non riusciva a trattenere le lacrime, si lasciò andare a un pianto disperato. Aspettava che la nonna andasse a consolarla, ma questo non era più possibile. Neanche suo cugino Mario, spesso erano dalla nonna insieme, si era fatto vedere. Dopo essersi asciugata gli occhi si alzò per ritornare nel suo appartamento, notò che il vaso dei fiori era spostato. Impossibile che l’avesse fatto sua nonna, era troppo pesante e poi ogni oggetto doveva essere in un posto ben preciso. Su questo era categorica, infatti le diceva “ogni cosa al suo posto e ogni posto ha solo una cosa”. Si guardò intorno e vide altri oggetti spostati. Cominciò a sospettare che la caduta fosse stata causata. Ne ebbe la certezza quando trovò i cassetti della scrivania semiaperti.
Corse dai carabinieri e raccontò tutto, anche dell’enorme fortuna che di lì a pochi giorni la famiglia avrebbe ereditato. La nonna aveva accumulato un gran patrimonio.
I carabinieri fecero molte domande ai vicini senza aver risposta. Il signor Franchi, un amico di bridge della nonna, fece vedere un video, anche lui adorava la luna rosa e l’aveva ripresa con il cellulare, le immagini erano sfocate, aveva puntato solo sulla luna luminosa. L’analisi della scientifica invece mostrò una persona sul balcone. Con ulteriori miglioramenti del filmato si vide l’assassino, il cugino di Rosa, Mario.
Aveva problemi con il gioco d’azzardo e continuava a chiedere i soldi alla nonna. Anche quella sera, e per l’ennesima volta ricevette un rifiuto. In un attimo d’ira la spinse giù dal balcone mentre si sporgeva a guardare la luna. Nel filmato si vede lei che cerca di farlo ragionare, lui sembra calmarsi, poi lo accarezza e si appoggia alla ringhiera, gli indica la luna, lui si avvicina e la spinge. Poi corre avanti e indietro, sparisce in casa. Si vede l’ombra muoversi con frenesia. Qualche minuto dopo è fuori in cortile, va dalla nonna, si accorge che è morta e scappa via.
La luna rosa, ancora una volta, ha aiutato nonna Agata.

di Laura De Filippo

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Yorgos aveva un segreto. Un amore, nascosto nella capanna degli attrezzi ai bordi del campo. La sua fanciulla di marmo. Senza braccia e divisa in due, tagliata poco sotto il busto candido. L’aveva riconosciuta appena pulita dalla terra che la ricopriva, la ricordava dai pochi anni di scuola: Afrodite, la dea dell’amore.
In una mattina di aprile piena di sole era salito dal sentiero in mezzo agli ulivi fino al suo piccolo podere sui terrazzamenti. Da lassù si vedeva il mare turchese di Milos entrare nelle insenature tra le rocce bianche e il giallo dei prati fioriti. Quest’anno aveva deciso di lavorare anche una parte di campo che non aveva mai zappato, perché più scoscesa e vicino alla montagna. E lì, dopo qualche ora di fatica, aveva trovato in un anfratto la statua addormentata. Un nodo di emozione gli stringeva la gola mentre la liberava dalla polvere, con gesti lenti e amorevoli, accarezzando i lineamenti dolci, il seno perfetto, i capelli. Il cuore tornava a battere forte ogni volta che andava a trovarla, nell’angolo della capanna dove l’aveva subito nascosta, coperta da una tela di sacco.
Ora Yorgos aveva paura. In paese era corsa la voce del suo ritrovamento. Forse qualcuno l’aveva visto, là sul campo, l’aveva spiato e aveva raccontato. Le navi degli ottomani riempivano il golfo e pattuglie di soldati controllavano quasi tutto sull’isola. Così una mattina presto si trovò due ufficiali alle porte di casa, con i loro cappelli ornati di lunghi fiocchi e i larghi pantaloni.
– Yorgos Kentrotas! Portaci a vedere la statua antica che hai trovato. –
Capì in un momento che l’aveva perduta.
La sera, quando ormai i turchi avevano sequestrato la sua Afrodite, sedeva sulla soglia di casa e si sentiva ancora più solo di quanto era stato negli ultimi anni, dopo la morte della moglie. Aspettò il tramonto e poi i suoi occhi, puntati al cielo viola che si colorava di nero, trovarono la stella che si illuminava per prima.Quella sera la sua luce era solo per lui.

di Angela Borghi, illustrazione Marzia Nigro

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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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Per Gino Atelli la scuola distava da casa sua novemilacinquecentoquarantadue passi. Io non sono mai riuscito a contarli, so soltanto che impiegavo un’ora abbondante per arrivarci. All’interno della cartella i quaderni, il sussidiario, una mela e nelle fredde giornate mia madre aggiungeva una pagnotta imbevuta con un po’ di olio. Per il ritorno, diceva.
Ricordo la strada fangosa, i salti per evitare i cumuli di escrementi delle vacche dei Gavino, le tracce profonde delle gigantesche ruote dei trattori. E intorno campi in semina, arati, o rigogliosi di pannocchie o farro a seconda delle stagioni. E io per tutto il tragitto sognavo a occhi aperti. Fantasticavo essere un ardito legionario dell’impero romano, le ore di storia con la signorina Stella erano impareggiabili. Oppure ero l’eroico cacciatore di pellicce in territorio indiano, Davy Crockett, come nel film visto al cinema di Borgolò con mio padre. Gino, nel frattempo, contava i passi. Al bivio di Ronco le nostre strade si dividevano, e io potevo impersonare il mio personaggio preferito: il musicista. Camminavo dondolando la testa e, con le mani a mezz’aria, pigiavo i tasti bianchi e neri di un invisibile pianoforte.
Speravo di guadagnare qualche lira durante l’estate offrendo i miei umili servigi al signor Gavino. Pulire le stalle, nutrire i conigli, strigliare il suo possente roano. Intendevo racimolare un gruzzoletto tale da permettermi di pagare qualche lezione di musica in settembre, prima che cominciasse la scuola.
Iniziò prima la guerra. Mio padre partì il 12 giugno e morì il 23 dello stesso mese, da qualche parte in Val d’Isere, fu uno dei 631 morti della battaglia delle Alpi occidentali. Mia madre pianse tutta l’estate, e io venni assunto dai Gavino. Niente lezioni di musica però, quei soldi servivano a mantenere la famiglia. Avevo undici anni.
Percorsi quelle stradine fangose dopo temporali, polverose di ocra quando le nuvole passavano sopra di noi senza salutare. Rimpiangevo le corse con Gino, non c’era bisogno di arrivare per forza da qualche parte, si correva e basta.
Gli anni passavano e le strade erano le stesse, solo le scarpe diventavano più grandi. Conobbi Nora, l’unica ragazza che mi prestasse attenzione. La sposai nel ’51. Eravamo poco più che ragazzi, e l’amore è un’altra cosa.
Conservo tuttora il sogno di imparare a suonare il pianoforte, ma le mani a forza di stringere terra dura e manici di falce si sono fatte enormi e Nora non capisce. Per lei abbiamo tutto, e il suo tutto è un tetto sulla testa e un fuoco per cucinare minestre di ceci e scaldarci in inverno.
La sera, a volte, prendo una seggiola dalla cucina e mi siedo fuori, chiudo gli occhi e, oltre a una sciocca lacrima, mi viene ancora da muovere le dita nell’aria.

Di Gian Paolo Zoni

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