Riprendo il concetto, e non per una semplice operazione di marketing. Nello slogan c’è tutta l’illusione legata allo scrivere, che è la grande barriera da abbattere per entrare in un percorso serio di formazione. Sembra assurdo, ma il fumo attira più dell’arrosto. Ci caschiamo tutti. Anch’io, confesso. A vent’anni lessi un annuncio sul Corriere della Sera e pensai che se avessi mandato le mie poesie sarei diventato ricco. Poi scoprii che i massimi poeti italiani, quelli che pubblicano con i grandi editori, vendono al massimo duemila copie, nonostante abbiano vinto una gran quantità di premi nazionali e internazionali, e compresa la candidatura al Nobel. Chiarisco un particolare. Il fumo non viene nemmeno dall’arrosto. È invece creato a parte con rametti di pino mugo, bacche di ginepro, essenze di erbe aromatiche. Se seguiamo la scia da dove proviene, l’arrosto non lo troveremo.
Continua il 14 settembre
Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.
La donna si muove con passo lento; è anziana, fatica a camminare, ma vuole percorrere quella strada di campagna un’ultima volta. Non sente la stanchezza, non ha paura, sa solo che deve andare.
Quando raggiunge l’olivo, è stremata dalla fatica ma felice; l’albero è grande e rigoglioso, l’ombra la accoglie come una vecchia amica. La donna accarezza la corteccia, avvolge le braccia intorno al tronco, chiude gli occhi e accenna un sorriso.
Quando il gatto morì tra le sue braccia, la ragazza, seduta per terra in un angolo della casa, pianse a lungo. La ragazza e il gatto erano cresciuti insieme: si erano trovati lungo una strada di campagna in un giorno di primavera, lei una bambina solitaria, lui un mucchietto di pelo magro e sporco, e non si erano lasciati più. Lei se n’era presa cura come la creatura più preziosa dell’universo. Lui per tanti anni era stato il suo migliore amico, la presenza affettuosa, discreta e costante che non l’aveva mai fatta sentire sola.
La ragazza sapeva che questo momento sarebbe arrivato: il gatto aveva avuto una vita lunga e felice ma era vecchio e malato, era giusto lasciarlo andare. Eppure il suo cuore era spezzato; le era impossibile pensare che il suo compagno fosse andato via per sempre.
A un certo punto, asciugandosi le lacrime, la ragazza si alzò, avvolse il gatto nella sua coperta preferita e lo portò con sé in giardino. Colse un’oliva dall’albero, la ripulì, la preparò per la semina, la mise in una tasca. Infine prese una vanga e si incamminò verso la campagna.
La ragazza raggiunse un piccolo oliveto, poggiò il gatto per terra e scavò una buca in uno spazio tra gli alberi. Poi aprì la coperta, accarezzò il gatto per l’ultima volta, lo avvolse di nuovo nella coperta e lo depose con delicatezza nella buca. Lo coprì di terra e piantò il seme.
La ragazza rimase seduta accanto alla piccola tomba; immaginò l’olivo che sarebbe cresciuto da quel seme, dal suo amico perduto, e il suo dolore sembrò sollevarsi al pensiero di quella nuova vita.
La donna è ancora stretta al tronco dell’olivo. Sa che non dovrebbe essere lì: è consapevole del pericolo, quel pericolo con cui lei e il suo popolo sono abituati a convivere e che oggi è più forte che mai. La donna tiene l’albero tra le braccia come se potesse ancora stringere a sé il suo gatto, il compagno di tanti anni prima mai dimenticato, che tuttora vive nella chioma splendente, mossa dal vento e scintillante al sole.
La donna rimane abbracciata all’albero, con gli occhi chiusi e il sorriso stanco, mentre il rumore delle bombe si fa più vicino.
Elisabetta Antichi. È nata a Pisa nel 1970 e vive a Cagliari con un marito e quattro gatti. Scrive per passione da sempre; ha partecipato a numerosi concorsi e ha pubblicato racconti e poesie su antologie e riviste.
Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)
Un suono di guerra corre nel vento: sono gli zoccoli dei cavalieri che battono sulla terra divelta dalla lunga avanzata. Uomini d’acciaio sfrecciano coi propri destrieri nel nero manto lunare a incendiare con le loro lanterne il limitar dell’orizzonte. Il fuoco nei loro occhi fa intendere che a breve arriveranno a destinazione, ma grondano lacrime dagl’elmi scarlatti pensando alle voci nell’aria lontana di chi attende il loro rientro. Conoscono già le parole del Fato: nessun più ritornerà.
Batu, assiso al centro dell’impero sul proprio trono d’avorio, li aveva inviati a riconquistare i lontani confini, dove da tempo eran comparsi cacciatori feroci con pelle diafana ed occhi di ghiaccio. Genti atterrite nel loro pallore che non volsero mai uno sguardo ad Oriente, eppure infiammate da un cieco rancore, inneggiavano contro il loro imperatore con il canto della rivolta. Perciò il Khan con le sue grosse mani inanellate puntò il dito verso il crepuscolo: non una parola, ma un cenno annoiato e l’esercito corse negl’ultimi raggi d’un sole invernale in cerca di teste per le picche regali. I sudditi dovevano ricordare: agli uomini mai sarà concessa l’arroganza d’essere liberi.
L’Orda d’Oro sarebbe arrivata prima che i raggi dell’alba avessero blandito la rugiada distesa nella prateria e le città ribelli crollate inermi entro quello stesso tramonto di fuoco, ma gli uomini d’acciaio galoppano ancora nei campi adombrati. Calcano terre da settimane sui loro cavalli, pronti a imberciare le città dolenti. Con loro v’è la tristezza del viaggio, la certezza d’una morte solitaria, intonata nella brezza con le note dell’antica canzone. La Tradizione voleva che anche le donne, ch’attendevano a casa il ritorno dei loro mariti, avrebbero cantato ogni notte nell’aura l’inno d’addio perché le voci provenienti da Oriente e Occidente s’incontrassero in un soffio di malinconia a colmare la steppa infinita e riunirsi un’ultima volta.
L’imperatore la sera ode il canto della rivolta sfiorarlo nei sogni, ogni luna avverte il suo potere affievolirsi, le sue mani assottigliarsi e questa notte sente le anime dei suoi cavalieri sfrecciare nell’Ovest. Ascolta le anime varcare l’Ignoto oltre il quale anche lui le avrebbe raggiunte in un giorno di primavera, ma ai margini dell’impero giungono arie rotte dai pianti di giovani vedove, là dove un popolo di fantasmi galoppa feroce recitando nel vento antiche parole d’amori perduti. Sorge a Occidente il canto della rivolta: sono soldati che tornano in cerca di pace.
Edoardo Cossu (Varese 1998) è un appassionato di scienze e letteratura. Laureato in Neurobiologia, lavora come docente al Liceo Sereni di Luino, città in cui fonda e presiede Utòpia APS, associazione con l’obiettivo di costituire un polo culturale.
Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)
Non so da quanto tempo ripeto che lo stile è tutto. Poi ho tentato di approfondire: che lo stile non è capitolo a sé, ma parte di un procedere collettivo, accompagnato da formazione, letture, strutture. Mi sono ripetuto un sacco di volte, e se questo scritto fosse di narrativa sarebbe un errore. Per fortuna non lo è. Sto qui a parlare, a filosofare, a cercare di spiegare e stimolare. Che altro? A passare il tempo in qualcosa che mi piace… Se siete arrivati qua avrete capito che posso rinunciare a tutto, fuorché a fare il verso a me stesso, a prendermi in giro. Me, non voi.
Mi sono stancato e ho sete. Ho appena fatto rifornimento al Birrificio Sant’Andrea di Vercelli, ne ho il frigorifero pieno, di birre, e sono indeciso. La Moskito è il miglior dissetante che conosca. La Blitz è il massimo, ibu a 95. Ci penso e trovo la soluzione. Una Moskito per soddisfare la sete di narrazione, una Blitz per andare a fondo, a scoprire ciò che credevo impossibile.
Continua il 7 settembre
Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.
Parcheggio e scendo dall’auto. Oggi ho messo i tacchi, non lo faccio quasi mai, e mentre cammino sento forte il tac tac delle mie scarpe.
Cammino da sola e mi colpisce come un pugno nello stomaco quella solitudine, intorno a me le luminarie dell’imminente Natale, tanta gente in strada, tante coppie che si tengono per mano o sottobraccio.
Ricordo il suono dei miei passi accanto ai tuoi, ricordo il mio braccio sotto il tuo o il tuo sulla mia spalla, i miei tacchi davano un ritmo al suono felpato delle tue scarpe, la vetrina davanti alla quale mi fermavo e tu sorridendo mi portavi via “sono oggetti senza valore, nella vita le cose importanti sono altre”, eccola la caffetteria dove ci fermavamo a bere il mio caffè con panna, tu un decaffeinato e una fetta di dolce.
Adesso cammino fra la gente e sento solo il rimbombare dei miei passi la tua assenza è tangibile accanto a me, la sento. È la bestia nera che ho evitato per tutta la mia vita e che ora mi cammina accanto, manca il fiato e la luce della vita si è abbassata.
Sono attimi che ti cadono addosso con violenza accanto a ricordi che si fanno sempre più dolorosi e flash del futuro che ti attende e fatichi ad accettare.
Fai la donna forte ma forte non sei e te ne accorgi quando meno te lo aspetti.
È successo durante il colloquio con un medico per un prericovero quando ti sei sentita chiedere il cellulare di un familiare e non hai saputo rispondere e poi al risveglio dall’anestesia dentro una camera di ospedale quando non hai trovato quel volto che malgrado tutto continui ad amare anche se ormai è un amore arrabbiato e deprivato.
È un attimo e il cuore si stringe, pericolose lacrime si affacciano, tenti di tenerle dentro di te come quel dolore sordo che si ostina a vivere nella tua parte più nascosta malgrado tutti i bei ragionamenti raziocinanti che ti fai.
Come lo spieghi questo a chi non lo prova? Come lo spieghi a quell’amica che mossa da un affetto sincero ti chiama quasi tutte le sere e ti dice che devi reagire e fartene una ragione, ti propone corsi di ballo, escursioni con amici nuovi che devi conoscere per crearti quella rete amicale che si è sfaldata nella tua nuova situazione di donna separata?? Non può capirlo per sua fortuna perché quando ti trovi senza la coperta di un amore che ti ha avvolta per tutta la vita hai solo freddo e niente riesce a scongelare quel cuore malato.
Quando si ammala il corpo riusciamo a comprendere la gravità del male ma quando si ammala l’anima non è tutto così chiaro.
Ti ritrovi a fissare il vuoto, ad ascoltare il silenzio a vedere la vita e a non sentirne i sapori.
Come lo spieghi tutto questo a chi non può capire il male che fa quel tac tac sulla strada?
Tac tac, tac tac…
Antonella Dell’Aquila nasce a Siracusa nel 1959 e lega con fili indissolubili la sua vita al mare e alla sua terra. Un matrimonio due figli e un lavoro che ama. Insegna Matematica ma l’amore per la razionalità non ha mai coperto del tutto la propria voglia di raccontarsi.
Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)
Di nuovo questa farsa. Di nuovo qui, in compagnia dello zerbino rosso welcome e del campanello retroilluminato azzurro. Il tuo nome in corsivo. Il dito sospeso interdetto lo indica, prossimo a innescare un tentativo o a battere in ritirata.
Nella mia testa confronto il punteggio: scorrettezze, ragioni, punti di vista. Ogni volta mi sembra di essere in vantaggio, ogni volta ribalti il risultato. Per il momento chiamiamola “sostanziale parità”.
Già ti sento, non sei d’accordo.
Rieccomi qui, sul pianerottolo, a fissare il pacco Amazon sull’uscio del vicino, chiedendomi cosa contenga. Lo so, sto divagando. L’ingrato compito mi attende.
Oltre la porta, ti immagino impegnata negli stessi calcoli, riesumando questioni sepolte. Hai versato qualche lacrima anche tu, l’ultima volta. Qualcosa vorrà pur dire, altrimenti non sarei qui. Cosa se ne farà il tuo vicino di un pelapatate elettrico? L’etichetta inappropriata, sai… Che ne è della privacy? La pigrizia del nostro tempo sarà la nostra estinzione, l’ho sempre detto.
Certo, certo, divago apposta, sì, per rimandare il consueto cedimento. Dovrei già essere in strada in cerca di fortuna, ma è qui che mi materializzo sempre. È la massa di ricordi comuni che ci trasciniamo appresso a tenerci ancorati l’uno all’altra. È quando mi hai insegnato ad andare sullo snowboard e le botte che ho preso per farti felice. È la volta che ti ho fatta ridere con quella battuta sui cervi, così tanto che a momenti soffocavi. È il nostro primo concerto insieme, e tutti gli altri che sono seguiti. Le nostre serate, le nostre giornate, le pizze la domenica sera. I giri all’Ikea a sprecare pomeriggi nella ressa. La nostra banale normalità che ogni tanto inciampa nelle insormontabili questioni di principio.
La desolante ciclicità delle scuse impone l’eterno ritorno allo zerbino rosso welcome.
No, non è quello. Sono la tua assenza e il tuo vuoto ereditario a strozzarmi ogni singola volta.
Il tuo vicino ritira il pacco e mi guarda come per dire “fatti forza, amico mio”. Solidarietà maschile imperitura, l’unione che fa la forza.
Il dito avanza. Il mondo riparte. Il gallo ha cantato tre volte. L’auto-tradimento di quando ho detto “mai più” si rinnova. La luce del campanello ha un calo di tensione, dividendo la corrente col suono. Mèndico tempi di pace su uno zerbino rosso welcome, ecco tutto. Io e l’oggetto su cui poggiano le mie scarpe siamo accomunati nello spirito. E di nuovo incorriamo in questa farsa, che il vento fresco perdono stempera.
Nemmeno stavolta, era niente di serio.
E il tuo pianto conciliante ci è testimone.
Massimiliano Falavigna è nato nel 1985 a Isola della Scala, in provincia di Verona, dove tuttora vive. Laureato in lettere, è oggi un produttore di riso con il proprio marchio e al contempo coltiva la passione per la scrittura.
Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)
Fu tutto un ripetersi di quelle sante parole. Jamal ci credeva. O quasi…
Corse al MiG, indossò il casco con la maschera per l’ossigeno, saltò dentro l’abitacolo. Furono i serventi di terra a chiudere il cupolino, il meccanismo automatico non funzionava più. Da quando il regime di Najibullah era finito, dalla Russia non arrivavano più pezzi di ricambio. E figurarsi: i russi dovevano pensare alla Cecenia, non a sostenere il regime talebano in Afghanistan.
Jamal decollò. Lui era il Solitario, l’ultimo pilota militare del paese.
Si sollevò di decine di metri fino a centinaia di metri sopra le montagne tanto da perforare le nuvole. Lasciò Kabul e si diresse verso Mazar – i – Sharif.
Ci arrivò in dieci minuti, trovò tutto molto noioso, si era augurato un po’ di difficoltà, ma purtroppo lui era l’ultimo pilota in Afghanistan. Almeno militare. Neppure l’Alleanza del Nord disponeva di apparecchi d’attacco, figurarsi da ricognizione o da trasporto.
Jamal incominciò il bombardamento della città ribelle. Vide più in basso dei fiori di fuoco diventare pennacchi di fumo, si divertì a pensare quanto fosse divertente bombardare e uccidere i nemici dell’Islam.
Anche se poi, negli ultimi tempi, un tarlo gli rodeva la mente. Non aveva apprezzato che la sorella del suo migliore amico, Nadia, fosse stata lapidata a morte nello stadio di Kabul. Lui aveva assistito alla scena: durante una partita di calcio i giocatori in tute a maniche e pantaloni lunghi e le barbe incolte che si erano ritirati negli spogliatoi per dissetarsi visto il caldo, allora erano arrivati degli uomini che avevano scavato una buca per poi infilarci una donna in burqa. Avevano richiuso la buca lasciandola scoperta dalla vita in su, intrappolata. Davanti alla condannata si erano parati dei talebani, sei in tutto, e come un plotone d’esecuzione avevano preso le pietre caricate su un pick-up entrato in campo.
Un mullah aveva detto al megafono: Nadia Nizamuddin ha commesso adulterio. Ecco la sua punizione!
Non è vero, mi sono solo tolta il burqa nel cortile di casa…
Non aveva potuto concludere che la prima pietra l’aveva colpita. Era stato il mullah a lanciarla.
Il plotone d’esecuzione aveva iniziato a scagliare i sassi contro la poveretta.
A Jamal era venuto da vomitare. Le voleva bene, era una brava ragazza.
Adesso che stava bombardando Mazar – i – Sharif, prese la sua decisione perché quella era una storia vera che non gli dava pace. “Meglio fuggire in Uzbekistan”.
Capì che i talebani non si sarebbero mai più serviti del Solitario.
Kenji Albani è nato a Varese il 13 novembre 1990 (il suo nome è giapponese, ma lui è italiano). Nella vita fa l’articolista, pubblica con Delos Digital ed è arrivato in finale alla 6a edizione del Premio Altieri Segretissimo.
Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)