LA TECNICA, meglio pensare al metodo

Gli iscritti al corso di scrittura chiedono sempre la tecnica. È lo scopo per il quale si sono iscritti. Con la tecnica si pensa di risolvere tutto. Se uno vuole fare il venditore gli insegnano le tecniche della vendita, ma poi sono pochi quelli che riescono, perché il lavoro è difficile e occorrono qualità particolari. E così se uno vuole scrivere un romanzo si iscrive a un corso per imparare la tecnica. Quando una persona ha scritto un racconto si sente già scrittore. Mi è capitato anche di trovare chi non aveva ancora scritto, ma ne aveva l’intenzione, ed era uguale, parlava da scrittore. L’unica cosa di cui si sente la mancanza è la tecnica. Sinceramente, non ho mai capito che cosa intendano per tecnica. Probabilmente una bacchetta magica. Se è così, adesso l’hanno trovata, e si chiama intelligenza artificiale, ma ne parliamo più avanti. La scrittura, dall’idea alla realizzazione, è fare. Il giusto livello del fare non è sempre lo stesso. L’azione, gli stati d’animo, sono diversi, e questo mostra il limite delle tecniche, uniformi nell’esecuzione. Per questo le tecniche di scrittura sono limitate e addirittura non funzionano, non sono il riferimento. Lo è la ricerca. Piuttosto delle tecniche cerchiamo un metodo di lavoro. La tecnica è impersonale, il metodo è personale, come lo è la scrittura. Il metodo è in sintonia con lo scrivere, le tecniche no. Le tecniche ci lasciano in superficie, il metodo ci serve per andare a scoprire. Le tecniche riempiono di illusione, il metodo ce ne libera. Quello che ci serve sono la psicologia, l’introspezione, l’arte di osservare, e la capacità di saper riscrivere. In un corso di scrittura cercate le giuste indicazioni, e fatele vostre.


Continua il 9 dicembre

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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Vi confesso subito una cosa. Dell’Uomo Qualunque inventato da Guglielmo Giannini, mi sembra nel primo dopoguerra, non sono mai andato al di là dello slogan. UOMO QUALUNQUE, quale io sono sempre stato. Non dico altro, ma siccome so che avete il vizio di inquadrare le persone, vi dico anche che dalla terza media sono stato buttato fuori a calci nel sedere, e sono ancora riconoscente a quel professore d’italiano che diede la spinta maggiore, lui che sosteneva che a scuola si impara poco o niente, tranne lo stare insieme.
Col mio amico Marco un tempo, bei tempi davvero, ci trovavamo alla partita di calcetto, e poi a bere una birra come fanno quelli del rugby. Da lunedì invece, per via del coprifuoco, ci incontriamo direttamente da Silvano. Ore 21, come al solito.
Silvano ha un bar in centro, la saracinesca è chiusa, e ci fa entrare da dietro. Niente di speciale, nel senso che non ci sono donnine o cose del genere. Ci beviamo le nostre tre o quattro birrette, e in questo periodo teniamo le distanze di legge, un metro, anzi noi ne teniamo due. Non come i professionisti del calcio che a ogni gol si danno i baci in bocca, o come quelli in metrò che praticano ancora la mano morta. A volte Silvano ci porta lo stinco cucinato dalla moglie e tiriamo le due o le tre di notte. Tanto abitiamo tutti lì attorno. Il Beppe Colombo però sta a 20 km. Lui rischia, ma dice che ne vale la pena perché la libertà ha sempre avuto un costo. Al massimo pago la multa, afferma tranquillo, o se proprio va male mi mettono in galera.
Suo cognato, che da dieci anni occupa lo stesso sgabello, l’altra sera, con il computer appoggiato al bancone, si è messo a leggere a voce alta un articolo su LegnanoNews del virologo Paolo Viganò. In sala s’è fatto silenzio, e anche a lettura terminata il silenzio si tagliava a fette. Uomini qualunque che la pensano come un emerito professore della medicina.
Silvano, fin dall’inizio sull’attenti, irrigidito come un soldato davanti al Milite ignoto, a un certo punto si è sciolto. “Questo giro lo offre la casa”, ha gridato alzando al cielo il suo bicchiere. E il cognato del Beppe Colombo gli ha risposto: “Quello dopo lo offro io, alla salute di Paolo Viganò”.

di Abramo Vane, illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Il giorno in cui scattò la fotografia Tamara indossava un elegante cappotto con inserti di volpe argentata sul collo e sui polsini.
Era una grigia giornata invernale; l’umidità copriva il giardino e rendeva pesante l’aria. Aveva esitato prima di varcare l’alta cancellata di ferro brunito dalle punte lanceolate.
Non sorrideva: l’espressione tirata e sul viso un velo di malinconia. Alle spalle una villa liberty e un viale costeggiato da cespugli spogli.
La villa dei nonni, il luogo dei suoi giochi estivi di bimba, dei pomeriggi domenicali trascorsi nell’orto e dei Natali caldi che sapevano d’arrosto con le patate e di torta di mele. Amava quella casa e aveva sempre pensato che un giorno , proprio lì, lei avrebbe accolto i nipoti.
Erano passati tanti anni da quando aveva fermato quel luogo con uno scatto, come se temesse di perderlo o dimenticarlo.
Ricordava le ultime foglie gialle a terra che non si notavano nella fotografia in bianco e nero e, se chiudeva gli occhi, sentiva ancora il profumo di terra bagnata e di muschio. Poche settimane prima il crollo della borsa di Wall Street: il 24 ottobre 1929, passato alla storia come il “giovedì nero”.
Tamara ripensò ai nonni, contadini italiani emigrati alla fine del 1800 per cercare fortuna negli Stati Uniti, la Terra Promessa. Le sembrava di sentire ancora i racconti dei loro sacrifici per raggiungere un po’ di benessere da lasciare in eredità a figli e nipoti. E all’improvviso la crisi, il fallimento di banche, industrie e piccole imprese agricole che avevano investito tutto il loro denaro in macchinari moderni.
Le testate giornalistiche riportavano numeri spaventosi in caratteri cubitali neri: tredici milioni di disoccupati.
La voce di suo padre tremava: per fronteggiare i debiti non restava che ipotecare la “ casa di famiglia”, come ormai la chiamavano, simbolo concreto e visibile che ce l’avevano fatta. Sconforto e paura presero il posto di ottimismo e fiducia.
I ricordi di quegli anni scorrevano vivi mentre se ne stava seduta davanti al camino acceso con una scatola di vecchie fotografie sulle gambe. Le avrebbe mostrate l’indomani alla nipote, sempre pronta ad ascoltare le sue storie. Un brivido la scosse. Si alzò, ravvivò la fiamma e si affacciò alla finestra. Sorrise. Fuori era buio, ma la luce dei lampioni illuminava l’alto cancello di ferro brunito dalle punte lanceolate da cui partiva il viale che portava alla villa.

di Annarosa Confalonieri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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Caro papà, voglio vivere, o morire, combattendo… come tuo nonno in Africa a El Alamein al grido di Folgore, come i partigiani fucilati dai nazisti, come i rivoluzionari di Zapata per un tozzo di giustizia, come i contadini russi lanciati senza fucile contro il nemico a Stalingrado, come gli spartani alle Termopili, come Giulio Cesare tradito, come tutti gli uomini che avevano casacche diverse, ideali diversi, patrie diverse, come tutti gli uomini che mi hanno preceduto nella storia dell’umanità, voglio vivere e morire da uomo libero.
Sono passato per regioni gialle, arancioni e rosse. Ho attraversato confini, e ti assicuro che non tutte le terre sono omologate, come dicono i mass media. Dove mi trovo adesso la mascherina non la mette nessuno, e se qualcuno mi ordinerà di metterla ho un coltello nello zainetto. Giorgio, il mio grande amico, è con me. Abbiamo deciso insieme, dopo un anno di video chiamate. C’è anche Anna, la sua ragazza. Invece Laura, la Lauretta che ti era tanto simpatica, così rispettosa dei genitori del suo ragazzo, lei non ce l’ha fatta, aveva le lezioni da seguire per l’esame di maturità. Non so come andrà a finire, una cosa è certa: l’aria è fresca, e questo mi basta. Il destino è già scritto, e l’aria è fresca.
Caro papà, ti lascio ai tuoi telegiornali, alle attenzioni per la famiglia, allo smart working, ai decreti ministeriali, ai virologi saputelli, ai giornalisti leccapiedi, ai politici in cerca di voti. Sappi che ti voglio bene, la tua voce mi accompagna sempre, e le tue parole (ce la faremo, speriamo speriamo, il vaccino ci salverà…) mi spronano e danno coraggio. Le ho qui nelle orecchie. Non tornerò indietro a risentirle dal vero. Ti chiedo solo un favore. Non parlare più di guerra, non dire che stiamo vivendo una guerra. A Dresda in soli tre giorni sono morti innocenti tre volte tanto quelli di un anno intero in Italia per presunto covid19. E poi tutti gli altri sessanta milioni, fra dolori e atrocità.
Ti ho apprezzato l’ultima sera quando ti sei commosso ricordando il tuo collega morto d’infarto perché all’ospedale non c’era posto, e il figlioletto della vicina che non vuole più vedere gli amichetti e vive con lo smartphone in mano, e tutta quella gente depressa, quei suicidi che nessuno racconta, quelle storie di miseria e disperazione, di violenza famigliare. Quando hai espresso il dubbio che il nostro amministratore di condominio s’è preso la leucemia a causa dello stato di debolezza che il terrore del virus gli ha procurato, io avevo già un piede sulla porta per uscire, e mi sono fermato. Tu però hai acceso la tele saltando da un talk show all’altro. In quel momento ho risentito la voce virile del padre di quando da bambino mi dovevano operare alle tonsille, Coraggio figliolo, non temere… e così la tua mano mi ha sospinto fuori dall’uscio, verso la vita. Ho raggiunto gli amici.
Vogliamo vivere!

di Abramo Vane

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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“Mancano le lamine di abete rosso”, la matita di Luigi si blocca a metà della conferma d’ordine. Il ragazzo delle consegne sospira “la tempesta Vaia ha spazzato via decine di ettari di bosco in Val di Fiemme. Ci vorranno settimane perché la legna arrivi”. Ma Luigi non lo ascolta più.
Izumi era entrata nella bottega il giorno prima. In città Luigi era noto per l’estrema cura dedicata a ogni strumento, paragonabile solo al suo carattere schivo. Era un uomo dal piglio deciso, in particolare quando l’estro creativo lo invadeva e una scintilla di pazzia gli balenava negli occhi. Trasalì nel vedere i tratti esotici e le labbra un po’ imbronciate della giovane. Dalla borsa di cuoio aveva sfilato alcuni spartiti e aveva eseguito l’Ave Maria di Schubert, con un suono trasparente, quasi liquido. Izumi gli aveva chiesto di realizzare un violino su misura per lei e si era proposta di partecipare per il laboratorio di Luigi al Concorso Triennale Internazionale degli Strumenti ad Arco “Antonio Stradivari”, l’Olimpiade della Liuteria. Luigi accettò, quel liquido si era fatto strada nella sua naturale diffidenza.
Data la scarsità di abete rosso,usato per i piani armonici, sceglie un legno più leggero, adatto a una ragazza esile come Izumi e studia antiche ricette di vernici. Solo due mesi e la competizione inizierà. Lavora duramente e, a una settimana dalla gara, l’opera è terminata.
Di Izumi, però, nessuna traccia. Dal loro primo incontro, non l’ha più rivista. La cerca al conservatorio, ma non risulta tra le iscritte. Prova allora nella biblioteca della scuola e consulta gli annuari dei diplomati. Ed ecco il suo il volto comparire tra le pagine consunte. Sotto la foto scorge incredulo l’anno dello scatto, 1978. Scopre poi che la ragazza era rimasta vittima di un incidente d’auto la notte precedente al concorso di quell’anno, a cui avrebbe dovuto partecipare.
La sera del concerto è arrivata, il salone si popola di abiti da sera scintillanti. Luigi ha un sussulto quando le note dell’Ave Maria di Schubert fendono la platea, e al posto della musicista ingaggiata all’ultimo, appare Izumi. La pelle candida, gli occhi socchiusi, la testa reclinata sulla mentoniera. Per tutta la durata della canzone lei è lì, dopo tanto tempo, avvolta dalle luci del palco. La sua voce danza nell’aria, libera, levigata in ogni dettaglio dalla lima di Luigi. Poi, l’ultimo suono si spegne, e nel locale riecheggia il tonfo del violino, privato del suo sostegno.

di Olga Riva Rovaglio

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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I GENERI, senza problemi

Non penso che i gialli vadano scritti in un certo modo, con determinate caratteristiche o strutture, e le storie d’amore in un altro, e quelle d’introspezione in altro ancora. Nessuno schema, al più qualche indicazione. La storia viene fuori per conto suo, con lo stile adatto e la sua struttura. Con il nostro modo di essere. Lo studio degli autori e la storia della letteratura ci importano fino a un certo punto. Un’opera piace o non piace. Non è il contenitore, ovvero il genere, ad attirarmi, ma il contenuto, ciò che sarò in grado di metterci dentro, al di là del tipo di storia.

Forse qualcuno ha preferenze. Riesce meglio in questo piuttosto che in quell’altro, i suoi interessi sono precisi. Va bene, ci mancherebbe. Anzi. L’unica cosa davvero importante è avere qualcosa che ha bisogno di venir fuori, di esplodere. Se non lo facciamo il rischio è che la scrittura, invece di essere per noi una forza, diviene un problema.

So di essere inattuale, nel momento in cui oggi i generi dominano il mercato, per cui esistono i gialli, il fantasy, l’introspettivo eccetera, ognuno per conto proprio. Leggo un po’ il tentativo, conscio o inconscio che sia, di uccidere la letteratura, che è la più vera e autentica forma di comunicazione. Scrivo perciò di quello che mi piace e, aldilà della storia di genere, la mia visione della vita, il mio io che ha trovato risposte e che è pronto a cambiare ancora.

Uno scrittore è in grado di scrivere di qualunque argomento, di qualunque genere. È la formazione che conta. Gli schemi non servono, distolgono la mente. La libertà della mente contiene l’originalità dello stile.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


Continua il 2 dicembre


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Lo zoo è il parco preferito da Tony, mio figlio, ha dieci anni, oggi festeggiamo il suo compleanno con la giornata degli animali. Ogni anno visitiamo uno zoo diverso, questo è il terzo. Ha deciso che da grande farà il veterinario, vuole curare tutti gli animali feriti. La giornata è ideale: sole, cielo terso e leggera brezza.
Camminiamo lungo un sentiero che, secondo la mappa, ci porterà al lago degli ippopotami. E’ la prima volta che li vediamo. Ci raggiungono due ragazzi che corrono spaventati e urlano che è scappata la tigre e ha sbranato un custode. Corriamo anche noi verso l’uscita, mi preoccupo per Tony. Sbagliamo strada e arriviamo di fronte alla gabbia vuota. La situazione è spettrale, il corpo di un custode dello zoo giace martoriato, quello della tigre è poco distante, abbattuto da un sonnifero sparato da un altro custode che al nostro arrivo sussulta, punta contro il fucile e intima di girare al largo. Ha lo sguardo fisso su un’ascia per terra accanto alla gabbia. Non sanno se è scappata qualche altra belva. Andiamo in un capanno lì vicino e chiudiamo le porte, con noi ci sono i gestori e altri visitatori spaventati. Dopo due ore arriva la buona notizia, possiamo uscire dallo zoo e tornare a casa. Recuperiamo i nostri zaini, ripassiamo davanti alla gabbia della tigre e Tony mi dice… Guarda mamma, c’è una lente di ingrandimento su quell’albero, per cui avviso subito un responsabile.
Fuori dello zoo decidiamo di fermarci in una pizzeria, è stata una giornata pesante, partita per esplorare un parco e finita con il morto. Tony è molto eccitato, non vede l’ora di raccontare tutto ai compagni di scuola, invece io non vedo l’ora di andare a dormire. Il giorno dopo leggo sul Corriere che un custode dello zoo ha confessato l’omicidio. Il resoconto è dettagliato perché lo ha raccontato lui stesso. Ha legato un’ascia a un filo di paglia sopra la gabbia, poi ha posizionato una lente di ingrandimento su un ramo alto della quercia accanto. Ha aspettato mezzogiorno, nascosto fra le fronde dell’albero. A quell’ora il sole è alla massima altezza, il suo raggio attraverso la lente ha bruciato il filo di paglia a cui era legata l’ascia che ha tagliato la corda che assicurava la chiusura della gabbia della tigre. Il collega non ha neanche sentito avvicinarsi l’animale, ed è stato azzannato. Voleva ucciderlo perché era l’amante della moglie, e aveva studiato per mesi la posizione del sole. Un delitto perfetto.
Quando è tornato a casa ha trovato un biglietto della moglie che era scappata con un altro uomo.

di Laura De Filippo

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Lo chiamavano Nuvolari perché al volante era un asso.
Gli avevano cucito addosso quel soprannome da un momento all’altro, però gli piaceva, sapeva di cielo e di sogni.
Ironia del destino, guidava un’Alfa rossa come il grande Tazio. Se c’era qualcosa di cui non era a corto erano proprio i sogni; al contrario i soldi non bastavano mai.
Campava con un misero impiego da meccanico, eppure nessuno meglio di lui sapeva mettere a punto un motore.
Era successo anche con il quattro cilindri boxer di Corsaiola, la sua Alfa, capitata un pomeriggio sul ponte dell’officina.
Millesette, sedici valvole, centotrentasette cavalli, fu amore appena alzato il cofano.
Da quelle parti bazzicavano certi tipi loschi che organizzavano corse clandestine di automobili; aveva bisogno di soldi per mettere le ali ai suoi sogni e quella era la sua occasione.
Ben presto scoprì di avere talento per la velocità e conobbe l’ebbrezza della vittoria.
Di trionfo in trionfo la posta in palio cresceva, gli avversari si facevano più agguerriti e lui sempre un soffio più veloce di loro.
Decise di correre un’ultima volta, poi via per sempre in qualche posto esotico.
Un giro completo del Grande Raccordo Anulare in notturna sarebbe stata la sua ultima gara.
Partenza all’una da via della Magliana e ritorno, per il primo al traguardo un cachet da cento milioni di lire.
L’esplosione di due grossi petardi e le macchine schizzarono oltre la linea di partenza.
I motori ruggivano, affondò sul pedale giusto prima della rampa d’ingresso del GRA e si portò in testa.
Le auto si allargarono fra le corsie, il ritmo di gara scandito dallo slalom nel traffico della notte; lui al comando, gli altri all’inseguimento.
Casal Lumbroso, Aurelia, Montespaccato, nel retrovisore guizzavano i lampeggianti delle pantere: quella sera si giocava a guardie e ladri.
Boccea, Casal del Marmo, Trionfale, i fari degli inseguitori non mollavano, ma non riuscivano ad avvicinarsi.
Non gli bastava vincere, era la sua ultima gara e doveva essere un’apoteosi.
Settebagni, Bufalotta, Nomentana, mille pensieri in testa, persino quell’ex pilota che raccontava di vedere sempre una donna in abito scuro sul sedile accanto superati i duecento all’ora.
Diceva che era a causa di certe endorfine che produceva il cervello sotto stress. Schiacciò a tavoletta per lasciarsi tutti alle spalle.
Non si era mai spinto a tanto; l’anteriore sinistra non resse, il mozzo saltò e la macchina entrò in testacoda. La Donna fece scivolare le spalline del vestito e lo tirò a sé.

d Daniele Bin, illustrazione di Lucia Casavola

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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