Accovacciati a cerchio, ci passiamo il calumet in senso orario e poi, al cenno di Ganascia Asimmetrica, in senso antiorario, giusto per evitare che l’ultimo giro risulti fatale ad Argano Sedentario, imbolsito dallo sniffare e insofferente per il gran gesticolare di Mimo Mutevole dei Choctaw.
L’unico viso pallido ammesso al Gran Consiglio sono io, Joe Perfiumi, per via della amicizia di sangue che mi lega a Poco Che Vaga dei Pawnee, giunto al campo con un cavallo senza i colori di guerra avendo inteso, dai segnali di fumo, che l’incontro fosse del tutto informale, senza vernice finale.
Nella tenda il fumo si è fatto coagulo e accorpa l’oppiaceo odore di erbe aromatiche al colloso sentore di tabacco di bufalo.
Il calumet passa di mano in mano e il fornello rovente, di argilla nerastra e a T rovesciata, accentra le rituali riflessioni.
“La guerra è guerra, se pace non è”. Chi potrebbe dissentire?
“Gli indiani dei laghi vogliono che l’arco inarchi le canoe contro il nemico”, mormora Anatra Spalmata , già nipote di Anatra Palmata, ultimo baluardo spianato dal Settimo Cavalleria. “Gli indiani delle foreste hanno infatuato di quarzo le punte delle frecce”. “Gli indiani dei fiumi stanno cotonando le criniere dei mustangs”.
“Per tirare, tira. Ma avrei preferito il cannello di legno bombato”, commenta Ganascia Asimmetrica.
L’annotazione impone attimi di silenzio, ma qualcuno abbozza il refrain del tormentone “Chi dissotterra l’ascia?”
“I tendini disseccati del Maggiore Pearson sono ali per i mocassini”. “Gli indiani delle colline hanno appeso le faretre ai rami degli ontani. Quelli vicini”.
“Guerra chiama guerra”.
“Se nel deretano del nemico infilo radici di tamarack, che dirà poi la mia donna che invoca pace?”
Il calumet si è fatto ustionante e le perle di vetro aggiunte al cannello si sono liquefatte.
“Non ci sono più i corsetti di ermellino di una volta”.
“Lo scalpo ben acconciato è terapeutico come l’ipnosi del gufo”.
“Guaina stretta, guaito di cane reietto”.
“Se rimetto il tomahawk nella rastrelliera, mia suocera mi chiederà perché mai ho rimesso il tomahawk nella rastrelliera” Il fornello del calumet non è più una T rovesciata.
È un grumo di fuoco, una vampa che avvampa.
Un perdurante silenzio, il silenzio finale.
La parola va al più anziano, percorso dalle rughe di cento primavere spese così così.
Renna Centenaria è sorda come un gufo in pastella di tufo.
Capisce rane per rame e allora bisogna far credere a tutti che siano la stessa cosa.
Il Vecchio pensa e ripensa, per poi illuminarsi negli occhi già proiettati verso l’oblio.
“Quando si è sotto vento, solo allora capisci la sagacia del fagiolo”.
Allora guerra sarà.

di Carlo Cavalli, foto da collezione privata

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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Il bicchiere sul comodino con i residui del vino non bevuto, il libro sul pavimento, caduto aperto sulla pagina che leggeva. La cassapanca divelta con forza. Era tutto in disordine, vestiti sulla poltrona, sul tappeto, la cassaforte svuotata.
La stanza era stata fotografata dalla scientifica, catalogata dai colleghi, io ero arrivato a fasi preliminari concluse. Raccolsi il libro, “il sangue reale”, un giallo medioevale. La copertina aveva una spada come quella di Re Artù, sporca di sangue gocciolante. Che coincidenza, la vittima era stata uccisa con un coltello che avevano lasciato sul letto ed era sporco di sangue gocciolante. La ferita non sembrava mortale, la giugulare era stata sfiorata.
Nel libro c’era un pezzo di carta strappato, un angolo di un foglio di quaderno, con scritto “Venere”. La colluttazione era stata violenta, forse il padrone di casa aveva sorpreso il ladro alla cassaforte e aveva tentato di fermarlo ma era stato ucciso con il colpo alla gola.
Due giorni dopo il ritrovamento del cadavere mi consegnarono il referto del medico legale: avvelenamento. Visto che coltello e avvelenamento non mi quadravano, chiesi di analizzare di nuovo le prove raccolte per approfondire le ricerche del veleno. Il coltello, in effetti, risultò positivo alla oleandrina, sostanza velenosa dell’oleandro giallo. La signora Odette, la moglie della vittima, era disperata. Non riuscivamo a parlarle, ci servivano delle risposte e lei veniva sedata dal medico. Feci una passeggiata per tornare a casa, pensavo alla copertina del libro e a quel pezzettino di carta, la parola Venere mi riecheggiava in testa. Ero davanti alla porta di ingresso, squillò il cellulare, era il mio collega che mi chiedeva di raggiungerlo, la signora Odette aveva avuto un attacco cardiaco ed era morta.
Trovammo un biglietto scritto dalla signora, aveva delle parole sbavate: L’aiuola centrale era il nostro sogno, la più bella del mondo, i fiori erano un incrocio tra l’oleandro giallo e le viole. Erano i fiori del nostro primo incontro. I petali con striature di entrambi i colori, la pianta si ergeva a cespuglio. Ci vollero dieci anni per quei risultati. Venere, questo era il suo nome. Per quella bellezza sfrontata e ostentata, come la dea. L’altro ieri pomeriggio abbiamo potato i rami per darle una forma armonica, Robert ha usato il suo coltello per qualche finitura. Quel medesimo coltello usato per ucciderlo. Mi aveva chiesto di pulirlo con molta cura. Se l’avessi fatto forse sarebbe ancora vivo. Non riesco a stare senza di lui. La signora aveva preso delle foglie del loro arbusto e le aveva usate per il suo tè del pomeriggio.

di Laura De Filippo, illustrazione di Letizia Ghirotto

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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È quell’ora particolare in cui la notte ha appena abbandonato le sue vesti sul mondo e il giorno non le ha ancora raccolte. Jack stringe nelle mani sudate il volante color avorio della Mercedes cabrio di Fat Boy, lo sguardo chimico di chi ha ingoiato anfetamine, gli occhi incollati sulla stella a tre punte che come un faro emerge dal cofano e gli indica la via: sempre dritto davanti a sé.
Jenny, la spogliarellista del Garden, con quella voce roca e sensuale, un corpo da urlo e decine di banconote da venti infilate nelle mutandine, lo stuzzicava, “Con quegli occhi da Paul Newman che ti ritrovi dovresti spaccare il mondo.”
Jack spaccò un paio di denti con una chiave inglese da 32, ma della bocca sbagliata. Frantumò le labbra e gli incisivi di Fat Boy, il figlio del boss.
Quella sera era andato a casa sua, un lavoretto da niente, gli aveva anticipato. Il ciccione stava lucidando la Mercedes verde bottiglia. Jack lo invidiava per quella macchina. Con un panno in pelle di daino Fat Boy insinuava le dita grassocce tra i raggi della stella a tre punte.
Gli mostrò una foto con un indirizzo scritto sul retro.
«Non ammazzo bambini»
«E che sei Jack? Una checca? Mio padre dice che lo devi fare tu.»
«Non ammazzo bambini, ho detto.»
«Non sei tu che decidi quello che devi fare, è mio padre che te lo chiede e quello che chiede mio padre
si fa, che piaccia o no.»
Al “piaccia”, Jack afferrò la chiave inglese, e al “no”la usò. Lo lasciò a terra sanguinante e salì sull’auto verde bottiglia. Mentre usciva dal garage, Fat boy gli strillò dietro, e ora sembrava lui la checca.
“Fiiiglio di puttaaaanaaaa”.
Avrebbe dovuto spaccargli anche il cranio, ma non lo fece. Fu un errore, il vantaggio sarebbe maggiore.
Il boss sguinzagliò i suoi cani per la città in meno di mezz’ora, un tempo davvero troppo breve.
La strada è deserta, diritta, la traiettoria di un proiettile, Jack viaggia a centoventi miglia orarie, e neanche l’ombra di una fottuta pattuglia della polizia della contea di Horn. Ovvio, sono tutti nel libro paga del boss.
I segugi sono vicini, nella notte hanno guadagnato terreno. Li immagina ridere sguaiati, con i loro fucili a canne mozze e l’odore di acqua di colonia tipico degli Italiani. Immagina anche Jenny e l’effetto che gli fa sa di goodbye e malinconia.
Dallo specchietto retrovisore Jack ora li vede. Il paraurti della Cadillac quasi bacia quello della Mercedes. Riconosce i volti. Jonny, Santo e sul sedile posteriore, Rizzo. Peggio non poteva capitargli.
Il cielo si colora, l’indicatore del carburante è a fine corsa, la stella a tre punte brilla nei primi raggi di un
sole annoiato, e Jack, come una pernice sopra un prato dipinto, non può volare via.

di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Mauro Speri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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Le nostre storie sono come l’acqua e il ghiaccio,

una si solidifica l’altra si scioglie.

Prendi le mie mani e infondimi coraggio

che tu possa per un po’ trattenerle.

Le isole nel Pacifico attendono le onde lievi

sotto conchiglie e stelle marine indugiano,

liberano l’ansia solo se le consideri brevi

come le storie che ci raccontano.

Rendere indietro il nome o darlo in pegno,

mille anni di ricordi e pensieri cupi

si allontanino e che sembrino un vago sogno,

non scappiamo, siamo noi i lupi.

L’ira che toglie il respiro,

un cristallo nel palmo della mano

che spezzi i raggi di sole e il mio lavoro

come un fulmine senza tuono.

Molti hanno detto: “ciao devo andare”

li ho osservati senza capire

eppure ero lì con i miei occhi a guardare

estraneo anche con il mio amore.

Salubre aria notturna raccoglie il mio profumo

che sa di vecchio e di rimpianto

sotto suole consumate ascolto il terreno

lo sento gemere perdersi nel pianto.

In quante notti incubi e viaggi onirici

hanno scavalcato la staccionata

e travolto i miei pensieri inutili

lasciando sotto di loro solo un’asse abbandonata.

Le lacrime scorrono e diventano ruscelli

sul versante della notte incerta

trascinando come piccoli fuscelli

a valle parole di carta.

Mi sono svegliato, ero sulla spiaggia

un antico bivacco dava tepore

raccolsi il necessario e lo misi in tasca: una conchiglia per ascoltare il mare.

Di Yoss Arian


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A cura di Abramo Vane

PER SCRIVERE BENE, impariamo a riscrivere

E per riscrivere con efficacia dobbiamo trovare motivi per fermarci a riflettere quando rileggiamo il nostro capolavoro che, vi garantisco, capolavoro ancora non è, ma può diventarlo, nel nostro piccolo.

È pieno d’imperfezioni e, in modo particolare, di potenzialità da sviluppare. Partiamo dal cogliere le
occasioni per fermarci a riflettere, e prendiamo come riferimento i suggerimenti delle buone grammatiche che dicono: non abusate degli avverbi, soprattutto di quelli che finiscono in mente, e nemmeno dei gerundi. Gli aggettivi sono un’illusione e se ne fate a meno è meglio, per un semplice rispetto dei sostantivi, dei significati che contengono. I verbi servili e quelli fraseologici, se li evitate, otto volte su dieci il testo ci guadagna.
Questi sono gli esempi più vistosi che cito all’inizio, perché più facili da individuare, ma poi ognuno troverà per proprio conto qualsiasi altro motivo per riflettere in modo serio su quanto è sceso sulla pagina bianca. E riscrivere in modo più incisivo. Cerchiamo un metodo di lavoro, che è personale, come lo è la scrittura, e non una semplice tecnica che è impersonale e sterile.

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


Continua il 28 ottobre 2023


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Di una cosa vi sarei riconoscente, e so di apparirvi insensato, ma vi invito ad avere rispetto per le pagine bianche e perciò a non gettare i fogli di carta, essi hanno due facciate e su ognuna scorre la vita… E mi ricordo, e non era molto tempo dopo la guerra, io andavo all’asilo e non sapevo nemmeno che cos’era la guerra, e ai miei fratelli e a me non mancava niente, e i quaderni per tutti papà li portava a casa dall’ufficio, e su di essi facevo i miei disegni perché i bambini si esprimono con il disegno, e poi a otto anni scrissi la mia prima poesia, e la scrissi su una carta che avvolgeva il formaggio, quel giorno erano finiti i quaderni, e io sono arrivato alle scuole superiori senza mai comprarne uno, e a sedici anni di poesie ne scrivevo una marea e le regalavo a una ragazza, e così non ero mai solo e avevo sempre la speranza dentro di me, crescevo l’amore, e sentivo di diventare qualcuno, e la libertà me la conquistavo, e su quelle pagine bianche vedevo una strada, era la mia, quella e non altre, dal niente veniva fuori la vita dei pensieri, e i pensieri travolgevano la vita, erano loro la vita, e davanti alla pagina bianca si emozionavano, e anche quando divenni adulto i pensieri davanti a quella pagina si emozionavano come bambini, e come il fiume a un certo punto avverte il rumore del mare vicino a sé allo stesso modo le pagine bianche sentivano l’infinito, e riempiendosi, finalmente scritte, ritornavano da dove erano partite, da quell’unica pagina bianca che le avvolgeva tutte quante.

di Abramo Vane e illustrazione di Renato Pegoraro

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)

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Il giovane scrittore amava Bukowsky e beveva birra con l’amico Franz, e in uno di quei magici momenti scrisse che Charles era morto, e tutti noi ce lo ricordiamo ancora quando venne in redazione con quel suo pezzo e tremava come a un esame, e il più comico di noi, il miglior cavallo di razza che la redazione avesse mai avuto, ne ebbe a male perché anche lui scriveva libri e si chiamava Charles, e allora a sua volta buttò giù quella pagina meravigliosa che si intitolava Ti amo, tenera tata, e l’art-director, un tipo che sullo stomaco aveva un pelo lungo così, disse… una stronzata del genere non l’ho mai letta in vita mia, tranne quella di quel farmacista che si credeva un genio e ci aveva spedito un racconto pulp, quella nessuno poteva superarla, e allora nella mente mi passò un pensiero e subito lo fermai su un foglio bianco, lo leggevo e rileggevo e nel mio piccolo lo trovavo formidabile, e chissà quanti altri prima di me, nel fluire dell’energia vitale, avevano osservato quel pensiero passare lì davanti e non lo avevano colto, e quanti invece l’avevano sì fermato, su un pezzo di legno, su di una tela, oppure proprio su un foglio di carta, e quel pensiero era di sicuro già stato formulato, in altro modo, nella letteratura… E la letteratura circolava da una testa all’altra, da un’anima all’altra, e ognuno trovava uno spiraglio personale, una comprensione che era la sua, e nella nostra rivista l’energia era un fiume in piena, e se una sera ci trovavamo in dieci c’erano dieci discorsi diversi e simultanei, e ognuno li seguiva tutti, e se c’erano dieci bottiglie era un disonore se tutte e dieci non toccavano il fondo, e l’editore diceva sempre cribbio, qui non si vende una copia, e aveva ragione, quando si parlava di soldi sembrava che non avesse mai fatto altro nella vita, e la nostra esistenza assomigliava sempre più a quella dell’amico Franz che viveva in una catapecchia come un barbone, e forse lui aveva già capito quello a cui noi stavamo arrivando, ma per un’altra strada, perché le cose stanno in un certo modo e ci sono mille strade che portano a comprenderle. E questa, di nuovo, è letteratura.

di Yuri Sansilvestro, illustrazione di Renato Pegoraro

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un podcast a cura di Jacopo Bravo

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A cura di Jacopo Bravo


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Nell’aula al secondo piano regnava il caos da primo giorno di liceo, grida risate, sedie per terra.
Poi il silenzio. No, non era il professore di greco con fama di cerbero, né la bidella che ci chiedeva di star zitti, solo un’improvvisa ventata d’aria fresca che sapeva di mare.
Indossava una camicia trasparente e pantaloni morbidi che disegnavano forme generose per la sua età; i capelli color del grano le cadevano in massa sulle spalle, gli occhi verdi un poco divergenti, la pelle candida, bellissima.
Era Venere, ma ancora non lo sapevamo.
Noi ragazze, adolescenti bruttine degli anni Settanta, con i jeans a zampa d’elefante, maglioncini girocollo stile “marines” comprati al mercatino americano di Livorno, i capelli corti, la guardammo smarrite.
Lei invece non ci degnò di uno sguardo e raggiunse il gruppo dei ragazzi, trasformati in statue di cera con le gote arrossate e la bocca aperta, un intenso afrore adolescenziale.
“Mi chiamo Mariella”. Un nome banale, ma che importava in tanto splendore?
Marcello, il belloccio moro e litigioso, le sorrise accattivante. Valerio, il figlio del preside, brutto e brufoloso, si alzò: “Ciao, ti stavo aspettando”.
La prese per mano e l’accompagnò al banco vicino al suo, capimmo che la conosceva già. Le famiglie, si seppe poi, avevano deciso per loro.
Solo Nando rimase di spalle; lineamenti fini capelli lisci lunghi fino alle spalle si guardava compiaciuto nel vetro della finestra: “ma quanto sono bello?”.
Iniziò cosi e negli anni a venire fummo testimoni un po’ invidiose, tanti amori, troppa bellezza: il fedele Valerio, il bellicoso Marcello e poi Giovanni, Marco magari anche il professore di ginnastica, chi può dirlo?
Nando non si curò mai di lei e così pensammo che avrebbe amato una di noi e fu solo il primo di tanti che incontrammo poi, capaci di amare solo sé stessi. Nessuno la sentì mai ridere, né scherzare.
L’anno della maturità, Mariella non tornò dopo l’estate: diciott’anni anni soltanto e si era buttata dalla scogliera, sparita nel mare dove era nata. Un amore infelice, avevano detto, un amore non corrisposto.
“Perché, Mariella? Bellissima e amata da tutti” Troppo giovani per comprendere.
L’abbiamo ritrovata agli Uffizi di Firenze, in gita scolastica.
Una sala affollata, sul fondo “La nascita di Venere”: capelli color del grano, occhi verdi, la pelle candida, bellissima.
Nata tra i flutti, venduta a Vulcano, amata da Marte e ignorata da Narciso. Ci aspettava con un accenno di sorriso e abbiamo capito.
Per sempre Venere, dea dell’amore, morta per amore.

di Alessandra Stifani, illustrazione di Alessandro Boscarini

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