Giacca di pelle con la decalcomania di un teschio infuocato sulla schiena, stivali da pioggia, e il cappello degli Yankees messo a rovescio, tutto largo e tutto rigorosamente pesato. Franco, il ragazzino problematico degli Stagi, così dicevano i vicini, inforcò la bici Saltafoss, sellino lungo, ammortizzatori anteriori e posteriori e si diresse verso la montagnola di terra formatasi durante i lavori di costruzione del quartiere Gavi: sei palazzine di otto piani senza ascensore. Per gli altri bambini era Pesolordo, un modo per prenderlo in giro due volte, per la sua corporatura, sessanta chili concentrati in un metro e quaranta di altezza, e per l’ossessione per la matematica. Fosse nato un paio di lustri più tardi gli avrebbero diagnosticato l’autismo, ma nel 1978 chi manifestava quel tipo di problemi era, per sempre, un minorato mentale. Aveva calcolato distanze, pendenze e la variabile gravità, per questo aveva preso in prestito i vestiti di suo zio Gianni, un ventottenne scapestrato, e li aveva pesati sulla bilancia in cucina e in quella del bagno. In una gara in discesa la massa era essenziale. Per toccare la velocità prestabilita doveva raggiungere gli 81 chili, non uno di meno non uno di più. Per questo alla fine collocò sopra il manubrio un mangianastri con inserita una cassetta dei Pooh, il suo gruppo preferito. La salita fu faticosa, scese dalla bici diverse volte per spingerla a piedi, qualcuno dal basso rideva di lui, Franco non se ne curò, aveva un unico obbiettivo in testa. Giunto in cima si asciugò il sudore con il panno che teneva sotto il sellino. Rifece a mente i calcoli e i computi, le formule gli balenavano davanti agli occhi chiare come farfalle in una sera d’estate. Iniziò la discesa. Percorse il pendio per una ventina di metri con una pendenza di 14 gradi, poi una leggera curva a sinistra con un inclinazione minore e di nuovo a destra per gli ultimi 37 metri, ogni tratto era stato misurato con il righello di scuola. Doveva ricordarsi di chinare di più la Saltafoss nella svolta a destra e percorrerla un po’ più stretta del normale così da arrivare alla meta a una velocità di 45 chilometri orari. Tra scossoni e vibrazioni metalliche stava comunque procedendo bene, finché il berretto non calò sugli occhi oscurandoli per una frazione di secondo, tempo sufficiente a cambiare traiettoria. Con la musica a tutto volume e pochi e distratti spettatori, andò a sbattere contro il masso che, se non avesse avuto inconvenienti, sarebbe rimasto pacifico un paio di metri alla sua sinistra. E con un effetto catapulta, annotò mentalmente Franco, volò in alto nel cielo. I presenti diranno poi di avere sentito un urlo di terrore. Ma in quei pochi secondi Pesolordo calcolò la velocità di caduta: 68 chilometri all’ora. Il suo, in realtà, fu un grido di giubilo.

Racconto di Gian Paolo Zoni, illustrazione di Daniela Landini (instagram: dani_illustra)

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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La chiave entrò nella serratura, clack!
Cosa trovò il guardiano aprendo la cella, Marie non poteva vederlo, poiché lontana miglia: il suo Michè penzolava appeso a un lenzuolo. Così, dai suoi occhi, cadde, a goccia, la stessa stoffa.
“Cosa ti succede mia cara? Come mai piangi?” chiese la madre. Marie sapeva di amarlo, sapeva quanto poco spazio lui avesse per vivere, eppure rispose “non so”.
Il pianto smise quando una ragazza cerbiatto venne a dare la notizia: “Miché finirà in una fossa comune, senza cerimonia, senza benedizione, con solo una risposta a quel perché”. “Vorrei accarezzarlo un’ultima volta, vi prego” chiese Marie fresca d’un vuoto affamato e calda d’una lunga corsa improvvisa. Il guardiano negò. Aprì alla verità solo quando Marie mostrò una sacca da cui scaturì quel sole tascabile che piace ai ladri: “Portato via. Venduto a un vecchio tirafili che ogni inverno passa in città. Ora vattene donna”. E sbatté il portone sulla di lei disperazione.
A seguire tintinnarono le monete del sorvegliante sulle tavole, sempre di meno, come le foglie del calendario, sempre di meno.
Se l’anno è una ruota, fece un giro completo.
“Perché ci sono solo bambini in questo teatrino ambulante?” chiese Marie.
“Perché i bambini vogliono giocare con tutti, anche con la Morte, gli adulti invece no” rispose insinuante la signora del botteghino. E con l’arto intagliato nel mogano scostò la stoffa d’ingresso: “Prego, accomodatevi”.
Il teatrino delle ossa danzanti era tornato in città.
Scheletri manovrati dall’alto saltavano sul palco per la gioia incredula degli spettatori minorenni. La bigliettaia suonava un organo fatto dello stesso materiale dei ballerini. A fine spettacolo Marie, mossa da un macabro presentimento, corse dietro le quinte. “Dov’è il mio Miché?” e picchiò le mani da lavandaia sul petto del vigoroso marionettista. Lui le bloccò: “L’aspettavo. Ora tocca a lei scegliere, sa cosa troverà”. E la condusse davanti ad una porta.
Lei aprì il cuore vedendo quello scheletro accasciato a terra, con una corona d’oro in testa e un lenzuolo bianco come mantello.
“Che ne avete fatto della sua carne?”.
“I corvi ringraziano signora, è stato un duro inverno anche per loro”.
“Cos’è successo alla sua anima?”.
“Non so signora, io sono solo un semplice marionettista”.
Lo stallo della sposa fece capire all’artista il dovere da compiere.
Fece qualche passo, salì sul ponte di manovra, prese il ferretto centrale, i fili.
E Miché iniziò a muoversi. Marie si avvicinò quieta, gli occhi sbarrati.
Miché le fece una dolce carezza. E dalle orbite di Marie sgorgarono gocce d’osso.

Ispirato alla canzone “La ballata del Michè” di Fabrizio de Andrè e al fantasmagorico scheletro che Radis “The Gipsy Marionettist” Nikolic fa ballare durante i suoi spettacoli.

Tratto da “22 arcani circensi, freaks e simili” edizioni Il Cavedio

Racconto di Paolo Negri illustrazione di Eugenio Broggi

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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di Gianmarco Pellattiero

Agata Battaglin, nata il 30 novembre 1927 e morta il 28 aprile 1945. Fisso una delle tante lapidi della Seconda guerra mondiale, presenti nel cimitero. Il loro numero supera quello delle persone sepolte negli ultimi settant’anni. Un anziano si avvicina; stringe, fra le sue mani, una peonia. Fatica a camminare, si appoggia a un bastone.

“Mi scusi.” Mi sposto di lato. L’uomo infila il gambo nel vaso contenente altri fiori.

“È una sua parente?” L’uomo sospira ma non risponde. Si protrae con il corpo in avanti e bacia la foto, ormai sbiadita. Lo aiuto a rialzarsi. Lo osservo con attenzione: è più alto di me, nonostante la schiena presenti una evidente scoliosi.

“È tutta colpa mia.” Scorgo alcune lacrime correre lungo il viso, cesellato dalle rughe e dalla sofferenza. Provo un senso di disagio.

“Le chiedo scusa, non volevo metterla in imbarazzo.”

“Non ho mai confessato il mio peccato, nemmeno al prete. Sento che è il momento giusto. Con un forestiero sarà meno complicato.”

Non so cosa rispondere. Annuisco.

“Era il 28 aprile 1945, gli americani avanzavano e i tedeschi fuggivano. Ero un partigiano e con i miei compagni abbiamo fermato undici nazisti. Si sono arresi senza combattere, ma la nostra sete di vendetta ha prevalso sulla giustizia. Si chiederà cosa c’entra Agata. Lei, povera stella, ha cercato di difendere August, uno dei soldati pronti per la fucilazione. In ginocchio, ha abbracciato le sue gambe e continuato a ripetere: vi prego, lui no, è diverso, non sparate. Ho osservato la scena senza intervenire e uno dei proiettili ha colpito la ragazza. Da quel momento è iniziato il mio calvario.”

Piange il partigiano. Piange l’essere umano. Si appoggia a me. Lo sorreggo.

Vorrei consolarlo, dirgli che è meritevole del perdono di Agata e dei suoi familiari. Le mie parole si bloccano in gola; in fondo sono soltanto uno sconosciuto, un curioso, un turista. Ebbene sì, sono un turista di mezza età che visita i cimiteri, noncurante della sacralità dei luoghi e delle storie intrise di sofferenza e di sangue, che si celano dietro a ogni nome e a ogni lapide. Viste le precarie condizioni dell’anziano, mi offro di accompagnarlo a casa con la mia auto. Arrivati a destinazione l’uomo apre la portiera, cammina incerto per qualche metro, infine ritorna sui suoi passi e mi invita ad abbassare il finestrino.

“Non le ho detto la cosa più importante. Agata è mia sorella. È morta per amore, si è dimostrata più coraggiosa di me.” Vedo la porta chiudersi dietro l’anziano. Per lui la guerra non è mai terminata. Riuscirà a firmare l’armistizio con sé stesso e morire in pace?

Gianmarco Pellattiero vive a Malnate. Nel suo repertorio sono presenti numerosi racconti brevi, poesie, monologhi teatrali e alcuni romanzi, tra cui “E mi ritrovai a Malnate” del 2021 e “Cloe e l’enneagramma d’0ro” del 2022.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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L’incipit degli incipit

Ci stiamo presentando e lo dobbiamo fare nel modo giusto. Se andiamo a un colloquio di lavoro pensiamo a come vestirci. Seguiremo le formalità o vogliamo da subito essere noi stessi? Se andiamo a un party presentandoci con i bermuda e a piedi scalzi colpiremo l’attenzione degli invitati oppure faremo la figura dei cretini? E se ci facciamo tante domande per così poco perché non dobbiamo pensare a come presentare fin dall’inizio il nostro lavoro creativo?

Di getto, oppure prima ponderiamo bene la situazione, ma come al solito ci torniamo sopra e analizziamo. L’incipit trascina il lettore. Magari l’abbiamo azzeccato al primo colpo, magari ne proviamo trenta. Pensate al mio amico giornalista e al suo cestino pieno di fogli accartocciati.

Era una bella giornata di sole, come incipit, non va bene, è il più comune dei luoghi comuni. Il divieto è però così categorico? Non ci sono obblighi nella scrittura, ma solo indicazioni. La fantasia di uno scrittore supera ogni ostacolo.

Andate a leggere l’incipit dell’Uomo senza qualità di Musil. In pratica scrive Era una bella giornata di sole, ma lo fa in un modo che possiamo dire geniale. Scherza e prende in giro, trasforma. Se poi pensiamo alla cattedrale che si appresta a scrivere, di nuovo lo trovo geniale per aver iniziato un lavoro di grande impegno, che si propone di scavare nell’animo umano, con il più banale degli incipit, la famosa bella giornata di sole. Se abbiamo bisogno di esempi guardiamo in alto.

Continua il 27 luglio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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“Una bella giornata, Agnese. Da tempo non ci concedevamo una gita in barca. Qui a Villagrazia ho respirato aria buona con te e i nostri figli. La settimana prossima ci torniamo con qualche amico, un pranzo in compagnia. Ti va?” Seduto sul dondolo in terrazza, la testa di lei appoggiata sulla sua spalla, gli occhi socchiusi, respira l’odore del sale tra i capelli ancora umidi dell’ultimo bagno, le sfiora il collo con un bacio e si alza con indolenza domenicale. Ci provano Paolo e Agnese Borsellino a trascorrere una vita normale. “Ora vi riporto a casa e passo a salutare mamma e Rita. È qualche domenica che non ci vado, mi aspettano. Un abbraccio, un caffè e sarò di nuovo da voi”. La moglie lo incalza, la scorta non è adeguata. Lui alza le spalle, non risponde, le sorride. Lo sa. Preferisce non stringere troppo la protezione intorno a sé: il bersaglio può diventare qualcuno della sua famiglia. Scrolla la testa per scacciare il pensiero. Sale in auto il morto che cammina, dead man walking, dice alla scorta. Sottovoce, che Agnese non senta. Sono passati 57 giorni. Li conta: giorni di morte per Giovanni, giorni di vita per lui. Regalati. La mafia non lascia scampo alle vittime designate. È un sopravvissuto. È in pericolo, ma crede nel suo lavoro. La paura non lo condiziona. Si mette alla guida. Non vuole nessuno. Gli agenti lo seguono. Niente sirene spiegate, una passeggiata in silenzio fino a via D’Amelio. L’auto arriva davanti al portone. Uno sguardo veloce con l’occhio abituato a cercare i particolari. Si lamenta a denti stretti. Troppe auto intorno alla casa di sua madre. Aveva chiesto alla Questura di rimuoverle. Erano ancora lì. “Non sarà la mafia a uccidermi, ma i miei colleghi a permettere che ciò accada”. Chiude con cura nella valigetta l’agenda rossa, il prezioso diario con i dati di indagini e riflessioni e scende dall’auto. Deve fare in fretta. Al fianco i giovani Emanuela e Agostino, orgogliosi dell’incarico. Vincenzo, Eddi e Claudio li precedono nel portone. H.16.58: suona il citofono. La Fiat 126 verde, che non doveva essere lì come nessun’altra auto, esplode. Una bomba radiocomandata a distanza. Più di 90kg di tritolo. È l’inferno. Auto distrutte dalle fiamme, gente che urla, corpi dilaniati. Un solo sopravvissuto, l’agente Antonino Vullo. Una tragedia greca, in cui fin dall’inizio incombe l’atmosfera di morte, ma qui manca la catarsi.
19 luglio 1992
È normale che ci sia la paura, ma combattetela con coraggio (Paolo Borsellino)

di Annarosa Confalonieri

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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di Monia Casadei

Sono stata pienamente felice fino a nove anni.

La guerra m’ha ghermita che non avevo dismesso i calzettoni ed i codini.

La prima ad arrivare fu la cavalleria.

Avevano muli, cavalli, carri.

Sembrava un accampamento di gitani in divisa.

All’inizio mi colse uno sbalordimento d’occhi, come di circo allestito in mezzo all’aia.

S’insidiarono da noi per la posizione svettante, una guelfa di zolle a presiedere la valle.

Dopo di loro arrivò il commando radio.

Divenimmo un presidio militarizzato, nostro malgrado. Le galline sgambavano confuse, innervosite dalle strumentazioni spanse nel cortile. Per un po’ smisero di deporre.

Vagavano disordinate, spaesate.

Poi s’abituarono, come noi.

Per cogliere le uova scavalcavo una rete di cavi, di parole incomprensibili.

I soldati mangiavano con noi, dormivano nella stanza di mio fratello, parlavano una lingua tagliente, spigolosa. Non capivamo nulla.

Col tempo furono gli occhi, i gesti ad affratellarci.

Erano giovanissimi, disorientati quanto noi alla fin fine.

Con parole ibride (che non conoscono nazionalità distinte, se non quella che si crea tra profughi d’origini diverse, come eravamo tutti in quel contesto sospeso) ci fecero capire che il nostro rifugio non era sicuro.

Scavammo un recesso più remoto, dove ci rifugiammo poi, salvandoci dall’offesa aerea americana, che, per sgominare il nemico in fuga, non si fece scrupolo di sterminare italiani innocenti, finanche partigiani resistenti. Il giorno di San Pietro le bombe cadevano dal cielo come rovesci.

Sotto la pianta di noce non riuscivo a distogliere lo sguardo.

Sembravano gocce d’oro contro sole.

Ma quando arrivavano a terra radevano al suolo tutto.

S’alzava un fumo disperato da valle, di morte e rovina.

A noi distrussero la casa. Rimase in piedi solo la stalla.

E il cavallo, dentro.

Tremò forte, a lungo.

La guerra ha leggi inumane, per antonomasia. Legittima un’empietà che l’uomo dissimula meglio in tempo di pace.

Le pene dei crimini cambiano in base al contesto.

La pena dei morti e dei superstiti, invece no.

Un vicino sparò a un tedesco introdottosi in cortile per un’operazione di perquisizione.

La regolamentazione di quella guerra voleva che, per ogni tedesco ucciso, venissero sacrificati dieci italiani.

Lo salvò (ci salvò) un conterraneo che intercedesse dichiarando che il colpevole era un mentecatto.

Fortunatamente il soldato in questione non era morto, ma solo ferito. La cosa si risolse lì, raggelante.

Oggi questi racconti sembrano iperboli. Ma basta guardare il telegiornale e li ritroviamo intatti, indeclinabili.

Io piango i miei cari assieme agli ucraini, affratellati.

Piango Dio che ogni volta muore.

Monia Casadei, nata a Cesena, è psicoterapeuta. Scrivere per lei rappresenta una catarsi incoercibile fin dai tempi degli studi classici. Con poesie e racconti consegue il primo premio in diversi concorsi letterari nazionali e internazionali.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E DI PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Di Gorgio Gino Giunta


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di Alice Mantegazza

Un giorno, all’improvviso, ho capito che cos’è l’amore. Non che io non abbia mai provato prima questo sentimento, ma forse non lo ho mai capito appieno come ora. Certo, mi sono innamorata nella mia vita, come tutti. Prima di un giocattolo, di un cantante, magari anche di un’idea, di un’amicizia, di un ragazzino.

E oggi ho pure al mio fianco un uomo che amo con tutta me stessa. Ma in questi anni, forse, ho semplicemente vissuto l’amore, senza averci mai pensato fino in fondo.

Poi sei nata tu.

Anche qui… amore… amore a prima vista!

Amore nell’accudirti neonata, nel rispondere prontamente ad ogni tuo bisogno.

Amore nel ninnarti e nell’allattarti.

Amore nel leggerti le storie, amore nell’ammirarti mentre dormivi, amore nelle nenie che ti cantavo.

Amore nel vederti crescere.

Amore. E paura. Tanta.

Di perderti. Di vederti soffrire. Di non saperti proteggere.

Poi, l’illuminazione.

Sono al parco con te, bambina mia, che scorrazzi avanti e indietro sulla tua biciclettina rossa.

E all’improvviso mi sono rivista bambina. Mi sono rivista in sella anche io alla mia bicicletta, con la mamma che mi guardava da lontano, seduta sotto l’ombra di un grande albero. Come me bambina, anche tu ora pedali e pedali, veloce come una forsennata, in gara con te stessa e con il tempo. Io ti guardo, col cuore in gola, spaventata per tutta quella velocità. E tu a spingere sui pedali ancora con più forza, come se avessi fretta di arrivare chissà poi dove.

Pedali e pedali e pedali, senza preoccuparti di niente.

D’un tratto perdi il controllo della tua biciclettina. Sbandi di qui e di là, ma non smetti di pedalare.

Inevitabilmente ruzzoli a terra, tu, e la bicicletta con te. Anche tu mamma lo sapevi che sarebbe finita così, quando la piccola ero io. Lo sapevi ma non hai fatto niente.

E io solo ora ho capito il perché.

Ti vedo, bambina mia, lì a terra, con le ginocchia sbucciate, il sangue che cola fino a insanguinare le tue calzine bianche coi volant. Poi vedo una lacrima sul tuo viso. E capisco.

Capisco che non posso preservarti dai fallimenti. Non posso evitarti i dolori e le frustrazioni. Non posso sostituirmi a te perché tu non conosca mai la sofferenza. No. Amare non è questo. Amare è saper tenderti la mano dopo una caduta, dopo averti lasciato provare a farcela da sola sapendo che potrai anche sbagliare.

Amare è esserci sempre ma lasciarti trovare la tua strada. Amare è camminare sempre un passo dietro a te, come un’ombra silenziosa, e asciugare quella lacrima che inevitabilmente ti solcherà il viso, perché di certo piangerai.

E riderai. E cadrai. Ma so che ti rialzerai.

Alice Mantegazza. Nata nel 1976 a Saronno dove vive e lavora come insegnante di scuola d’infanzia. Le piace inventare storie, soprattutto quelle da raccontare ai suoi piccoli alunni.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Di Luigi Stefanazzi

Nelle luminose giornate somale la maestosa Palma, ai miei occhi di bambino, si stagliava gigantesca, mi affascinava, la guardavo da sotto e non ne vedevo la cima per l’imponenza della ramificata chioma.

Ci giocavo vicino e cercavo di abbracciarne invano il possente tronco. Sedevo sotto la sua ombra protettrice e, appoggiato al tronco leggevo, fantasticando sul magico volare di Peter Pan e sulle misteriose profondità marine, violate dal capitan Nemo. Ogni anno attendevo la stagione della nidificazione dei Tessitori che, a stormi si impossessavano del grande isolato albero e per ore osservavo maschi giallo vivo con la testa nera fare la spola fino all’Albero di Fuoco, nel mio giardino, per spogliarlo delle foglie paripennate e portarle sui rami della Palma.

Dopo mille baruffe per i posti migliori, prendevano forma, abilmente intrecciati, nidi tondeggianti aperti verso il basso, nei quali entravano femmine di color giallo smorto mentre incessante era il cinguettio, che aumentava dopo la schiusa e, che via vai per saziare i pulli. Che chiasso poi lo sbatter d’ali degli uccellini che, artigliati al nido, le rinforzavano per i primi voli.

Una mattina, come sempre avveniva, tutto era silenzio, i condomini della Palma erano volati via, restavano solo i nidi che si disfacevano al vento, mentre l’Albero di Fuoco prima di cacciare nuove foglie, fiero del suo contributo, festeggiava il buon esito della nuova covata con una fiammante fioritura, nella quale “mi era dolce il naufragar”, a cavalcioni sui rami più alti.

Nel giardino vi erano Pervinche del Madagascar, Plumerie, Melograni “dai bei vermigli fior” e una Thevetia che faceva da palcoscenico ad acrobatici colibrì che suggevano il nettare dei suoi fiori gialli. C’era poi un alto Ficus dalle grandi foglie sul quale, da adolescente mi arrampicavo fino alla cima, oltre il tetto di casa, per spaziare lo sguardo fin sul vicino villaggio di Tucul.

“Per fare l’albero ci vuole il seme”: era un giardino creato da mio padre in un ambiente semiarido ed il seme di quel giardino era stata la sua passione per gli alberi, questi poi divennero miei quotidiani compagni di gioco, educatori riguardo la sacralità della natura e dell’interdipendenza nell’ecosistema.

Luigi Stefanazzi è nato nel 1949 a Samarate, ove vive. Dall’età di 3 anni a 16 anni ha vissuto in Somalia. Tornato in Italia, dopo gli studi, ha lavorato in banca a Gallarate, Como e Varese. Pensionato, ama la lettura ed il giardinaggio.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI NEL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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L’INFINITO, non è di facile comprensione

Una parola che da ragazzo non capivo. Faceva paura, l’Infinito. Era ciò che c’era dopo la morte, mentre io volevo solo vivere la vita. Vivere. Vivere, e non morire. 

Poi scoprii che la vita continuava in chi veniva dopo, e allora conveniva essere grandi uomini, generali, presidenti, artisti. Uno scrittore vive sempre, e per questo ancora oggi leggiamo Omero e tutti gli altri.

Ecco il significato di Infinito: continuare a vivere negli uomini.

E quando gli uomini saranno morti tutti quanti?

Continua il 20 luglio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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