Di Gianmarco Pellattiero

Oblast di Kharkiv. Un colpo di obice colpisce una jeep con a bordo quattro giovani militari ucraini. Il caporale Artur è a terra, stordito dalla deflagrazione ma incolume. La scena che si presenta davanti ai soccorritori è drammatica: tre vittime e l’inizio di un incubo per le rispettive famiglie.

Inerme su un lettino il sopravvissuto fissa il vuoto. Vicino a lui un altro soldato geme di dolore, il giorno precedente ha subito l’amputazione di una gamba. Roman, Taras, Victor, come un mantra Artur ripete dentro di sé i nomi dei compagni deceduti. Roman, Taras, Victor, nella sua testa esiste un solo e paranoico pensiero: la vendetta.

È ormai notte, dopo avere recuperato la carabina il caporale si mette in marcia verso il fronte. Roman, Taras, Victor, il frastuono dei nomi è più assordante delle bombe. Il terreno è umido, le scarpe affondano. Nonostante le difficoltà arriva in prossimità della linea nemica. Gli ultimi cento metri sono i più pericolosi. Compie un’azione di aggiramento, striscia come un serpente e si muove come un felino. Roman, Taras, Victor. È la resa dei conti.

Artur è immobile, osserva il militare di guardia in prossimità dell’obice.

Ancora pochi metri. Paura. Rabbia. Follia.

La canna della carabina preme sulla guancia del soldato russo, il caporale desidera guardarlo negli occhi prima di eseguire la sentenza. Una cicatrice sullo zigomo attira la sua attenzione. Un’espressione di stupore ne illumina il viso.

Un brivido sconvolge i due uomini.

Boris?

Artur?

Il silenzio bombarda i loro cuori.

Stessa scuola. Stessa classe. L’adolescenza sconvolta dalla forza dell’attrazione. Timidi baci conservati fra i ricordi più intimi. Poi la separazione a causa del trasloco, a Donetsk, deciso dai genitori di Boris, capolinea di un legame spesso soffocato dalla vergogna.

Una lacrima compare sul viso di Artur; due, cinque, dieci… testimoniano la bellezza e l’immortalità della loro storia di amore, fatta di sussurri e parole non dette.

Le armi scivolano al suolo. I corpi si incontrano, si attraggono, si esplorano. 

Una voce ostile interrompe l’idillio, un soldato russo punta il kalashnikov contro di loro. Uno sguardo di intesa è sufficiente, come sui banchi di scuola. Boris e Artur escono dalla trincea, mano nella mano, noncuranti del pericolo.

Un colpo di avvertimento risuona nell’aria. Minacce. Insulti.

Il dito pronto sul grilletto.

Un boato. L’artiglieria pesante ucraina colpisce l’obice.

Fuoco. Devastazione. Morte. Due anime si allontanano felici. È l’alba di un nuovo giorno.

Gianmarco Pellattiero vive a Malnate. Nel suo repertorio sono presenti numerosi racconti brevi, poesie, monologhi teatrali e alcuni romanzi, tra cui “E mi ritrovai a Malnate” del 2021 e “Cloe e l’enneagramma d’0ro” del 2022.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI DI GUERRA E PACE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)


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DI Carlo Battaglini

Emma era sempre stata una ragazza distratta, ma non avrebbe mai creduto di riuscire a perdere l’amore della sua vita tre giorni dopo averlo trovato; e la canzone che ora usciva dalla radio non faceva che amplificarne la rabbia: “Bello, bello e impossibile, con gli occhi grandi e la tua bocca da baciare…”. Una vera presa per il culo.

Emma si tappò le orecchie e maledì se stessa per aver dato retta a Lucia. “Non vorrai telefonargli, vero…?” aveva detto.

“Lascia che lo faccia lui, pensa alla tua dignità”.

Accidenti a lei. E anche alla dignità.

Emma aveva guardato prima Lucia e poi la banconota sulla quale Lui aveva segnato il suo numero di cellulare. Nessun nome. Solo dieci cifre che, ovviamente, adesso lei non ricordava. Ma questo non sarebbe stato un gran male se non avesse ficcato quella dannata banconota nel taschino dei jeans finiti in lavatrice due giorni dopo. Accidenti a lei. E anche alla lavatrice.

Se è vero che si vive solo da giovani, e che dopo la vita non è altro che un lungo ricordo, Emma ci avrebbe ripensato per il resto dei suoi giorni.

La voce della Nannini, alla radio, era implacabile. Emma pigiò le orecchie fino a sfondarsi il cranio, ma non riuscì a cancellare le ultime parole della canzone: “forte, forte forte ti vorrei!” Emma uscì sperando di non pensare a nulla. Non ci riuscì. Bello. Quando si erano sfiorati era scoccata la scintilla, ne era certa. Bello… con gli occhi neri e la sua bocca da baciare… Un’opera d’arte, una canzone da hit parade… Bello… e impossibile, accidenti a lei, e anche a Lui che non telefonava. Eppure si era perfino fatto segnare il numero di Emma sulla custodia degli occhiali col pennarello.

Lei ricordava perfettamente: si stava avvicinando alla cassa, con la maglietta che aveva deciso di acquistare e che continuava a rimirare. Era andata a sbattere su quel torace giratosi di colpo. Si era ritrovata contro quell’uomo, con la maglietta stesa sul volto che, come un sipario, si era abbassata lentamente rivelando a lei il volto di Lui e a Lui il volto di lei. La maglietta era rimasta tra di loro a lungo, sospesa dai loro corpi che non volevano staccarsi.

Emma ritornò al negozio. Riconobbe la commessa, la divertita testimone del loro scontro, e anche lei la riconobbe. “Il tuo amico non è più tornato…” Non aveva dubbi, accidenti.

La commessa le allungò qualcosa. “Posso darli a te?” Emma la guardò incuriosita e subito riconobbe la custodia col numero da lei segnato. Sembrava ancora più marcato.

Lo osservò a lungo.

Bello e impossibile.

E sbadato come lei, per giunta. Proprio l’uomo della sua vita.

Carlo Battaglini nasce a Milano il 23 maggio 1960. Si laurea in geologia nel 1985. Lavora in tutta Italia, ma perde la vista nel 2017. Scrive da sempre. Finalista in vari Premi Letterari, ne vince tre. Ha pubblicato racconti, articoli e un romanzo.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Gaetano Lo Castro

Nella misura in cui vi aprite, coglierete i frutti.

(Da un messaggio di Medjugorje)

Una volta c’era un fico d’India.

Era una giovane cactacea spontanea nata da un semino. Si trovava nel giardino d’una casa di provincia con prospettiva sul mare e sul vulcano.

Nell’abitazione ci viveva uno scrittore. Scrittore almeno nella sua intenzione. Perché scriveva un po’ di tutto, ma non riusciva a pubblicare un bel niente. Il suo scrivere non produceva frutti utili.

Come diversivo gli piaceva accudire al suo giardino. Prediligeva le piante grasse, in particolare il piccolo fico d’India. Col tempo esso crebbe e divenne una pianta alta dalle pale piene di spine. Ma di fichidindia non si scorgeva manco l’ombra. “Non devi abbatterti se sei infruttuoso. Non è da tutti dare buoni frutti.”

Lo scrittore decise di rinunciare alla scrittura. Avrebbe cercato altrove la realizzazione della propria natura. Il suo sguardo andò verso la vetta innevata innalzata nel cielo blu. Sentì nascere un desiderio d’ascesi.

Dispose con precisione l’ultima pietra lavica e quindi osservò con soddisfazione la propria opera appena terminata. Di fianco al fico d’India, nella nicchia di nera sciara, troneggiava la statuetta bianca e azzurra della Madonna coronata di stelle. Colse alcune rose, le mise in un vasetto pieno d’acqua e gliele depose dinanzi.

“Ora il nostro giardino ha la sua Regina! È una sovrana che bisogna amare!”

Il fico d’India ammirò la figura minuta e regale, riposta dentro la piccola grotta sotto le sue ispide pale. Gli ispirava tanta tenerezza.

“E che occorre omaggiare, non solo coi fiori, ma ancor più con la preghiera.”

Si sedette sopra la panchina, si tolse dal collo la corona e cominciò a recitare il rosario. Contemplava Maria, il mare, il vulcano. Meditava i fondamentali interrogativi esistenziali. Sentiva emanare energia tutt’attorno dalla statuetta di Maria. Era come un fluire di linfa nutriente. Era come uno scorrere d’ispirazione trascendente. Ebbe l’impulso di trascrivere tutto. Concluso il rosario corse in casa, prese il PC, lo pose sul tavolino vicino alla Madonnina, l’accese e con lena iniziò a scrivere.

“Complimenti, hai fatto tanti bei frutti!”

La pianta n’era fiera. Le sue pale erano piene di grossi frutti rossi. Usando un guanto l’uomo ne spiccò un poco e li sbucciò. “Sono molto dolci.” disse assaggiandone uno.

Si sedette sulla panchina e aprì il suo libro appena pubblicato. “Ti faccio gustare la mia prima opera. Spero davvero che ti piaccia.”

Lo scrittore prese a leggere al vegetale il suo romanzo, mangiando fichidindia e occhieggiando Maria.

Lei gli sorrideva.

Gaetano Lo Castro. Autore siciliano, scrive romanzi, racconti, pièce, poesie. Molte sue opere sono state premiate e pubblicate in antologie. Un suo romanzo si è classificato 1° in un premio per inediti, è stato pubblicato, ed è giunto finalista in un altro concorso.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Alessandro Giulianelli

“È permesso?” Arturo spinse la vecchia porta cigolante. La casa era ridotta male, nessuno ci entrava più da anni. L’uomo guardava in giro rammaricato mentre aiutava la signora dell’agenzia immobiliare a superare la soglia.

“Non ci torno da quando ho preso il mare come soldato semplice”.

“È arrivato molto lontano” constatò lei mentre lui scansava le seggiole.

“Forse anche troppo”.

La donna lo vedeva giù di morale: “Ha belle memorie di questa casa?”.

“Bellissime: ci ho vissuto coi nonni. Lui era sempre alle prese con i rottami, mi portava in giro per l’isolato a vedere se qualcuno stava facendo qualche mestiere per dargli una mano e dirgli come si faceva”.

“E sua nonna?”.

“Lei passava le giornate in giardino. Venga”.

Arturo aprì la porta che dalla cucina dava all’esterno. “La nonna trascorreva la vita a combattere un albero con i fiori rosa”.

“Combattere?” curiosò lei mentre Arturo la portava dall’altra parte del cortile.

“Sì” esclamava “Perché l’albero d’estate metteva un tripudio di fiori rosa e il vento li spargeva per il giardino e in casa. Lei impazziva, lo rimproverava come un figlio” ma l’allegria di Arturo si spense tutta insieme: dove si ricordava, ora spuntava solo un tronco mozzato.

L’uomo si ficcò le mani in tasca: “Già: non è rimasto proprio nulla di questa casa che voglio tenere”.

Arturo continuò il giro mentre l’agente faceva domande:

“Quand’è che i suoi nonni se ne sono andati?”

“Bah” rispondeva aprendo la porta del bagno, “L’ultima lettera è di cinque anni fa”.

“Avevano altri parenti?”.

“Un paio” ribatté Arturo mogio e passò all’ultimo corridoio. Questo dava alla camera dei nonni dove Arturo una volta si ficcava sotto le coperte con loro.

Si fermò, la voce gli tremava: “Senta, non dovrei dirlo a lei ma avrei voluto davvero mollare tutto e tornare quando ancora potevo. Una vita è volata e non me ne sono accorto. Ho pensato che a fargli compagnia ci sarebbe sempre stato quell’albero che impegnasse la nonna, ma immagino che alla fine fosse diventato insostenibile. Doveva vedere come sorrideva quando riusciva a tirar via tutti i fiori”.

Arturo strinse la maniglia, “Ma indietro non si può certo tornare” la abbassò.

Allora spalancò la porta e una fittissima tempesta di fiori rosa lo travolse come un’onda.

“Guardi! La finestra che dava sull’albero era stata lasciata aperta! I fiori si sono accumulati qui!”.

Arturo era pietrificato.

La camera dei nonni era completamente sommersa.

“E come hanno fatto a restare così, senza appassire?”.

“Non lo so” rispose la donna, “Forse la stavano aspettando”.

Alessandro Giulianelli, nato a Roma nel 2003, ha vissuto infanzia e adolescenza tra Bergamo e San Felice Circeo. Attualmente studia e vive a Milano e frequenta la facoltà di Giurisprudenza presso l’università Statale.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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CINEMA E SCRITTURA, chi è nato prima?

Il cinema lo cito spesso. Qualcuno suggerisce di immaginare, scrivendo, le proprie pagine come se si vedessero sullo schermo. Bene. Molto bene.

Ci esprimiamo con parole, e le parole diventano immagini. A volte sono scenette da rappresentazioni amatoriali, ma in esse a ben guardare c’è la ricerca iniziale d’immagini forti, ben visibili. Esagero: epiche.

C’è ancora oggi qualcuno che si ostina a non considerare il cinema un’arte. Qualcun altro, al contrario, lo definisce la più autentica delle arti, perché moderna. Unisce il lavoro di molti, dal fotografo al costumista, dallo sceneggiatore al regista. Un lavoro d’equipe.

Condivido l’idea di uno scrittore che nella scrittura vede tutte le altre arti, dalla musica all’architettura, dalla poesia alla scultura. E il cinema nasce dalla scrittura. La mancanza di autori e di sceneggiatori si riflette nella sua crisi.

continua il 13 luglio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.

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LEZIONE DALLA PANDEMIA COVID-19

Di Giuseppe Geneletti

Cosa avremmo fatto o sarebbe accaduto nelle nostre vite senza la pandemia? Non è certo presto per una riflessione personale in merito.

Forse non avremmo cambiato casa, conosciuto persone ora importanti, iniziato una nuova sfida professionale, chiuso l’attività di famiglia, smesso di fare i pendolari o di fumare. Io non avrei cambiato città, non lavorerei da remoto, non starei così tanto in famiglia, avrei viaggiato di più, ma incontrato meno persone online.

A livello globale, l’isolamento fisico di Vladimir Putin, ossessionato dal rischio di contagio, e l’aridità delle comunicazioni diplomatiche esclusivamente a distanza, forse hanno contribuito all’invasione russa in Ucraina. I colli di bottiglia delle catene di approvvigionamento globali non si sarebbero manifestati con l’intensità e longevità che ancora oggi condizionano gli scambi internazionali. Non lo sapremo mai con certezza, perché non c’è la prova del contrario. 

Abbiamo forse riscoperto l’importanza della salute, dei legami familiari, delle relazioni con le persone che contano, a volte troppo tardi. Abbiamo imparato che non si può dare per scontata la libertà di movimento e di lavoro, il diritto alla privacy e alle cure. Credevamo che non fosse possibile fare scostamenti di bilancio oltre il 3% in Europa. Invece sono arrivate risorse con così tanti zeri che quasi ogni mese ci sono decreti che valgono come una finanziaria dei tempi pre-Covid. Abbiamo riconfermato le nostre profonde differenze e divisioni sociali. Qualcuno, che era già forte prima, ha trovato il modo di avvantaggiarsi, qualcuno, che era già sull’orlo del precipizio, è andato a picco. In generale si è acuita la polarizzazione, le differenze tra chi ha e chi non ha più, e non ne può più. Possiamo iniziare a metabolizzare se la pandemia ha modificato il nostro pensiero. Cosa crediamo sia essenziale nella vita. Se ci fidiamo degli altri, delle istituzioni, della scienza. Possiamo riflettere su come abbiamo cambiato idea nel tempo. Quali dubbi abbiamo sciolto e quali rimangono dilemmi. Abbiamo imparato che le vaccinazioni funzionano, ma non durano per sempre; che il tasso di mortalità dipende dalla capacità delle terapie intensive, che alcuni ospedali non avevano nemmeno; abbiamo imparato che la pandemia non uccide solo gli anziani e i malati. È stato un tempo straniante e inatteso, con alcuni più scettici e cinici, altri spaventati e arroccati, altri ancora impermeabili e intoccabili.

Sarebbe stato meglio che non ci fosse, ma dato che c’è stata, meglio cercare di trasformarla in un’opportunità. Come canta Bruce Springsteen: “Se la vita non ti dà altro che limoni, fai della limonata”. Spesso ci attardiamo in un tempo che non esiste più o ancora. Il tempo della vita è il presente: l’attimo in cui decidiamo chi siamo, cosa vogliamo e lo mettiamo in pratica, liberandoci dai fantasmi del passato e dribblando le nuvole che oscurano il futuro. Se c’è una lezione che il Covid-19 ha offerto a tutti è che l’ora d’oro è ora. Quell’idea nel cassetto per una vita più felice, tiriamola fuori; quel gesto di unione con il prossimo, che abbiamo ignorato sul lavoro, nel vicinato, nella famiglia, intraprendiamolo con fiducia; quel ringraziamento interiore per tutto quello che la vita ci offre, esprimiamolo con gioia. Il passato ci fagocita col rammarico. Il futuro ci spaventa con l’indeterminatezza. In un mondo in cui sembra che la velocità sia tutto, il tempismo vale molto di più. Cogliere l’attimo è il nostro potere magico.

Il tempo è tutto attaccato

Natale Geneletti (mio papà)

Giuseppe Geneletti è un giornalista pubblicista, associato alla redazione di VareseNews.it. Esperto di cambiamento organizzativo e innovazione, pubblica settimanalmente su temi di attualità economica, sociale e di interesse locale.

Selezione di articoli da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, GIORNALISMO ( Sezione dedicata a Pierfausto Vedani)


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di Alice Mantegazza

C’è un albero piantato nel giardino di casa mia.

Alto, rigoglioso, maestoso.

Questa è la prima immagine che mi viene in mente ripensando alla mia infanzia, quell’albero che mi ha sempre regalato avventure.

Sdraiata sotto le sue fronde verdeggianti mi sentivo immersa in una foresta, o arrampicandomi sui suoi rami diventavo un pirata di vedetta.

Quell’albero è stato a lungo il mio compagno di giochi preferito.

Poi, crescendo, ho sostituito i giochi con lo studio e anche in questo quell’albero mi ha accompagnata, donandomi la sua ombra come rifugio dove trovavo maggior concentrazione. Infine è venuto per me il tempo iniziare la mia avventura nel mondo.

Mi sono ritrovata in una grande città, io ragazza di paese.

Tutto mi è apparso subito troppo.

Troppo grande, troppo rumoroso, troppo pieno di gente, di palazzi, di strade, auto.

Solo gli alberi non mi sono sembrati mai troppi.

Anche ora quando sento la mancanza di casa o il senso di infinita piccolezza mi assale, allora trovo un momento per uscire e rifugiarmi sotto un albero.

Ne ho bisogno come dell’aria che si respira.

Basta toccare il fusto di una pianta per farmi ritrovare la pace. Mi piace sentirne la rugosità della corteccia, ammirarne il colore di foglie o fiori, cercare tra le fronde qualche frutto, annusare l’aria per coglierne l’essenza.

E così è scoccato l’amore: un giorno di inizio autunno mi sono ritrovata inebriata da un dolce profumo, qualcosa di simile alla pesca.

Intorno a me, sotto il cielo grigio e una lieve pioggia, solo alberi incendiati dai caldi colori autunnali e qualcuno ancora con le sue foglie verdi.

Annusavo il cielo come se avessi fame d’aria, volevo capire da dove arrivasse una fragranza tanto intensa e inebriante. Eccolo lì: un piccolo arbusto con le foglie verdi e dei piccoli fiori riuniti a grappoli.

Piccoli sì, ma che delizia per le mie narici!

Da allora ogni autunno mi piace giocare alla caccia all’Osmanto, questo il nome del mio amato albero. Ovunque mi trovi, giro col naso intento a captare quel delizioso profumo capace di strapparmi un sorriso nonostante l’aria grigia e infreddolita dei primi freddi di stagione.

E mentre gioco mi domando se questo mio amore per le piante dipenda dal fatto che deriviamo entrambe da un piccolo seme. O possa essere il preannuncio per la mia reincarnazione in una pianta.

Se ci credessi davvero, non mi dispiacerebbe svettare col mio fusto verso l’alto del cielo e con le mie fronde sovrastare i tetti delle case e le persone che passeggiano.

Ah…

A meno che non mi tocchi reincarnarmi in un bonsai. Senza nulla togliere al bonsai, sia chiaro.

Alice Mantegazza è nata nel 1976 a Saronno dove vive e lavora come insegnante di scuola d’infanzia. Le piace inventare storie, soprattutto quelle da raccontare ai suoi piccoli alunni. (Presente in antologia anche con vignetta).

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) ALBERI DAL MONDO ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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di Daniele Crotti

Nell’ospedale da campo appena fuori Mariupol, a ogni colpo di tosse del dottor Vladimir Ivanov, Anton Kovalchuk si passava sul viso la mano destra graffiata. Disteso su una branda, lo fissava per qualche istante, in uno stato d’assenza che solo i soldati sfiniti lasciano intendere. Aveva pena nel vedere il suo vecchio compagno di stanza all’università curare soldati feriti da tre giorni, senza pause e con una tosse insistente. Otto anni prima avevano vissuto nello stesso appartamento a Mosca, per qualche mese. Vladimir Ivanov veniva da Samara, nella Russia centro-orientale. Anton da Odessa, nell’Ucraina del sud. Uno studiava medicina, con una passione per le malattie dello stomaco. L’altro faceva ingegneria, ma con più interesse nel farsi distrarre dalla gentaglia nelle vicinanze dell’università. Pochi giorni prima che Vladimir andasse a vivere con lui, Anton era nervoso. Non ne poteva più di stare da solo. Voleva un compagno di stanza, soprattutto per giocare a scacchi. E lui e Vladimir cominciarono a farlo spesso. Quando vinceva una partita, Vladimir gli diceva sempre: – E Karpov batte ancora Kasparov! – Anton era ucraino, non era nato in Azerbaigian come Kasparov. Ma a Vladimir bastava per poterlo prendere in giro. Questo era il gioco. Per lui, solo i russi erano bravi con gli scacchi. E quando perdeva, dava la colpa alla stanchezza. Lui studiava medicina. Nessuno doveva dimenticarselo. Poi però, passato l’inverno, Anton aveva cominciato ad uscire da solo la sera. Girava con persone che gli avevano promesso molti soldi e che non avrebbe dovuto ascoltare. Ad un certo punto, lasciò l’università e Vladimir non lo vide più. Fino a quando, durante le visite del pomeriggio, se lo era ritrovato nell’ospedale da campo, con una ferita profonda al fianco. Nonostante la barba lunga, Vladimir aveva riconosciuto Anton al primo sguardo. La ferita non era mortale ma servivano antibiotici e un po’ di sangue. Vladimir lo disse all’infermiere. Antibiotici e sangue, così disse. Poi se ne era andato dagli altri soldati feriti, senza dire nulla ad Anton, che ora stava aspettando da tre giorni la visita di controllo. Gli antibiotici cominciavano a fare effetto. Il sangue era arrivato il giorno prima. Giunto il turno di Anton, Vladimir si avvicinò, reprimendo un colpo di tosse. Controllò la ferita, fece un cenno all’infermiere e proseguì. Anton avrebbe voluto che Vladimir gli ripetesse ancora per una volta la storia di Karpov. Che lui era russo e lo aveva curato perché era il più bravo di tutti. Dopo pochi passi, Anton lo sentì tossire e piano piano si addormentò.

Daniele Crotti è un ricercatore universitario in Economia, con la passione per le arti espressive. Quelle che liberano l’energia e la poesia dentro noi stessi. Musica jazz e racconti fulminanti sono le cose di cui si nutre con maggior curiosità.

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di Ingrid Confalonieri

Scosto la tenda della cucina, è mattina. Molti di noi sono già usciti di casa, chi al lavoro, chi a scuola, accecati da lampade a led. I miei cani raggomitolati come gatti sulla brandina del balcone. Il freddo umido della città li unisce, la coperta in pile arruffata, stanno al caldo. Sollevo gli occhi, cielo grigio oggi, unico spicchio tra i palazzi, grigi pure loro. Le previsioni meteo ci illudono sempre, l’aspettiamo da un po’. Da anni. La neve dell’infanzia, la ricordo e sorrido. Guardo l’orologio. Abitudine. Gli alberi spogli, il vento ha spazzato via le ultime foglie, paiono scheletri. Le siepi sono ancora verdi, lo sono sempre. I pini in giardino soffrono, troppo caldo quest’estate, la poca acqua li ha provati, dovrebbero stare lassù sul Monte Rosa, nel gelido bianco. Mi volto, il calendario è appeso sul fianco del frigorifero, non ho pareti degne di accoglierlo, di carta, nasce da un albero, amico-nemico dello scorrere del tempo, parente lontano del mio orologio elettronico, smart. Uno sguardo fugace alla ricetta del mese riletta mille volte nei trenta giorni passati. Devo voltare pagina, nuovo mese, nuova ricetta, ultima del 2023. Una torta. Tanti giorni rossi! Le feste di Natale si avvicinano. I parenti, gli amici, i regali. Cosa manca, a chi. Cosa serve. Dove. Le clementine nel cartone del supermercato, le ho lasciate al freddo della notte, frutti di piante del caldo sud, a Gianluca piacciono così, ai miei denti no. Faccio entrare i cani. Il maltese, nel cappottino imbottito rosso, ringrazia. Un campanello, il microonde suona, il mio latte è caldo, poco caffè, zucchero di canna, giusto una punta di cucchiaio senza esagerare. Caffè, canna da zucchero, ma come ci sono finiti nel mio latte? Piante nel latte, che bontà. E le clementine dalla Calabria, viaggiano in camion, raccolte immature. Dovremmo tutti avere una pianta del cuore. Che ci faccia stare bene, in sintonia col tempo, il clima e gli umori. Tante nuove piante che ci riportino le stagioni di quando ero bambina. Oggi ci sono bambini che non hanno mai visto la neve, non tanta quanta ne ho vista io, nel 1986! Clic, si accende una luce, un’idea in testa. Il motivo di una canzone che cantavo da piccola, con mia sorella e la mamma. Quest’anno regalerò alberi, ad ognuno il suo. Mi divertirò a sceglierli. Li pianteranno per noi, piccoli semi, e li lasceremo crescere là dove devono stare, dove è giusto che stiano, nella loro terra, bagnati dalle loro acque e riscaldati dal loro sole. Che respirino con noi, per noi. Per il futuro della Terra.

Ingrid Confalonieri. Nata a Milano, classe 1970, vive a Varese, studia e lavora come ragioniera, ma da sempre coltiva una passione per l’arte, la poesia e la letteratura gialla. Amante degli animali e del giardinaggio oggi si diletta a scrivere poesie e racconti brevi.

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