di Anna Ditta

“Questa è la volta buona, dopo tanto rimandare”: l’ho appena pensato che il medico – ne ho scelto appositamente uno giovane che non conosco – mi dice di togliermi il maglione e accomodarmi sul lettino e allora mi viene di nuovo quell’istinto di fuggire via con una scusa, come è successo le ultime tre volte, e così da sdraiata, mentre il dottore districa i fili elettrici del macchinario, penso già a quando si chiederà il motivo per cui le mie lacrime continuano a scendere durante un esame semplice e indolore come l’elettrocardiogramma, che mica è un’estrazione dentale, e poi allo sguardo di compassione che mi rivolgerà quando leggerà nitide sul tracciato le condizioni precarie in cui mi trovo – e intanto lui mi disinfetta le zone interessate, suscitandomi un brivido di freddo che però è niente rispetto al ghiaccio degli elettrodi attaccati a ventosa sotto e sopra il seno, e alle pinse sulle caviglie e intorno ai polsi, ed ecco che di colpo realizzo che non posso più alzarmi, sono costretta a stare qui e tanto vale stringere i denti, ma non posso controllare la testa, quella va proprio dove non deve andare, a questi identici gesti che lui – e lui solo – ha fatto con me tante di quelle volte in questi trent’anni, e io – che sciocca – mai a pensare che potesse farli un giorno qualcun altro, mai a prepararmi all’evenienza di perderlo, e a quella battuta – sempre la stessa – che faceva ogni volta: “Signora, mi pare evidente che il suo cuore batte molto forte per qualcuno qui presente” e allora io restando seria gli rispondevo che era colpa del mio cardiologo che mi faceva incazzare troppo e da troppi anni – che a pensarci adesso quelle parole me le inghiottirei, le manderei giù per questa gola che ora è stretta, e non ci passerebbe neanche uno spillo – e mannaggia a questa fissa per i controlli, perché nella vita non si sa mai, e dopotutto mica è servito tutto questo scrupolo quando si è trattato di te, che sei sempre stato attento a prevenire ma poi sei finito sotto una macchina che correva all’impazzata e niente, tutto è finito così di colpo, ma ecco che anche il dottorino qui ha finito, ed è evidente che si è accorto di qualcosa: “Non so come dirglielo, signora…il suo cuore non c’è, semplicemente non esiste più” e io, che in fondo lo sapevo, gli rispondo calma: “Lo sospettavo, ma io devo vivere, sa dottore, per i ragazzi”, lui sta quasi per parlare ma poi non dice altro e capisco che non c’è proprio niente che si possa aggiungere, allora mi alzo e ora è come se ci conoscessimo da moltissimo tempo, quindi gli stringo la mano e vado via.

Anna Ditta. Giornalista siciliana, vive a Roma. È autrice dei libri “Belice” (Infinito edizioni, 2018) e “Hotel Penicillina”, con M. Passaro e A. Turchi (2020). Dal 2023 cura il progetto di approfondimento letterario “WeltLit. – Letteratura oltre ogni confine”.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Flock era un cane, ma non sapeva di esserlo. Era un pastore bergamasco e custodiva tre pecore, che lui considerava bambine, correvano indisciplinate, andavano su e giù dalla molera, e qualcuno diceva che praticavano “free climbing”. Flock, pur capace di discernimento, non sapeva come fare a convincerle che era pericoloso. La molera era alta, e se le pecore si buttano giù è sempre colpa del pastore che non sa guidare, custodire. Così Flock abbaiava e attirava la loro attenzione, prevenendo ogni sciagura.
Ma dentro di sé sapeva cosa vuol dire provare quella speciale gioia a misurare le proprie forze, proprio lui, taglia media, agile, veloce e resistente.
Nella sua onorata esistenza aveva tre sogni proibiti, li nascondeva sotto il ciuffo di peli per non mostrare gli occhi e rivelare i pensieri.
Il primo era di pizzicare le gambe di Beppe, il ragazzo della fattoria che ogni sera consegnava il latte. Una volta l’aveva rincorso, lo sciocco aveva lasciato cadere la bottiglia piena e il latte si era sparso per terra. Adesso, sgolandosi, lo sgridava, e Flock strofinava il muro per non passargli vicino.
Il secondo sogno lo aveva quasi esaudito, la volta che aveva inseguito il prete che veniva a benedire le case, un uomo alto, con la tunica lunga, nera. Quel giorno era di guardia, s’era sfilato il collo dal collare della catena e laveva fatto scappare, oh come correva, l’aveva raggiunto e addentato appena alla veste prima di essere afferrato dal padrone. Quanto l’aveva menata solo per un per pezzetto di stoffa.
Il terzo sogno, il più grande, forse un’ossessione che richiedeva una grande perizia, era quello di battere il “ciuff-ciuff”, il treno a vapore che alla sera passava accanto alla casa. Flock era sicuro di essere più veloce, e si allenava quando portava a spasso le tre pecore. Che corse esaltanti, che goduria sentire il pelo arruffato pettinato dal vento!
Sapeva sempre quando il drago-treno stava arrivando, udiva il “ciuff-ciuff” prendere velocità dopo essersi fermato alla stazione dietro la curva.
Una sera si liberò della catena in tempo, lo sguardo concentrato del predatore che attende la preda, la bocca aperta, la lingua penzoloni, i canini in vista. “Questa volta lo prendo, non mi scappa, lo agguanto”, pensava mentre sentiva il vento soffiare più forte e cercava di fermarlo, di spingerlo indietro. Ma lui amava il vento, era il suo alleato, ogni pensiero svaniva quando correva: la casa, la catena, le pecore. Nel vento era libero, non sentiva più nulla, nemmeno le bambine che, terrorizzate, quella sera gli urlavano di fermarsi. Flock corse invece più veloce, raggiunse il treno. Uno sulle rotaie, lui sul sentiero. Il treno, il vento… corsero, e poi… poi si incontrarono. Bum!

Di Elda Caspani

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


Ci sono arrivato in ritardo, è vero, ma alla fine anch’io ho capito perché nel mondo esistono bambini che nascono cerebrolesi o con handicap fisici e mentali, bambini che muoiono di fame, bambini senza un futuro se non di morire in mare, e tutti si pongono queste domande e se ne vanno con una scrollata di spalle, e poi tornano e si danno da fare affinché queste cose non succedano più, e invece accadono lo stesso, e alcuni sanno il motivo e lo spiegano, ma nessuno li segue, perché un conto è dirle o ascoltarle le cose, e un altro è comprenderle… E io quel giorno mi fermai in un paesino medioevale in Liguria, che prima era trascurato, anzi abbandonato dai nativi, ma poi erano arrivati dei gruppi di americani e di tedeschi, e che fossero ricchi lo si capiva da una profonda tristezza che raggiungeva il bianco degli occhi e lo colorava di grigio, e avevano aperto lì le loro botteghe d’arte, e così quel paesino dimenticato era divenuto un ritrovo particolare… e tutto era ben curato, in ordine, e si capiva che quelle opere di pittura, di scultura e di designer erano nate da una ricerca e da un gusto raffinato, e io guardavo in faccia quelle persone che avevano portato tante belle proposte, e i loro sguardi erano lame di rasoio e tagliavano di netto, esprimevano il desiderio di essere selettivi, di escludere chi non era al loro livello… e su questo discorso dell’arte avevo le idee confuse, e senza un motivo, davanti a una gallerista che tentava un sorriso cordiale senza riuscirci, pensai alle persone che soffrono, agli infelici, e poi fu inevitabile per me il pensiero sull’infinito, ed era un po’ che lo avevo maturato e mi stava sempre davanti come uno specchio, e quel pensiero era che tutta l’umanità è contenuta in un respiro, e i millenni dell’uomo sulla terra sono solo un respiro rispetto a quello che già esisteva prima e a quello che sarebbe esistito dopo, e in quel respiro c’eravamo dentro tutti, gli Omero e i Dante Alighieri e i Picasso, e ciascuno di noi. Un respiro però è solo un respiro, è parte di qualcosa di più grande, non esiste da solo… e non so per quale associazione di idee mi venne in mente quel ragazzo down figlio dei miei vicini di casa, lui tutte le mattine per un’ora di fila pianta chiodi nel parquet della sua cameretta con il martello del papà falegname e mi dà la sveglia come fosse il canto del gallo, e questo mio pensiero non era arrivato per caso, era un’intuizione, e così intesi quello che tanti avevano cercato di spiegarmi, e cioè che in quei ragazzi c’è l’anima di ciò che c’era prima e di ciò che ci sarà dopo. Un giorno, di tutto lo scrivere, il dipingere, il costruire non rimarrà nulla, l’arte sparirà e di essa rimarrà solo l’essenza, lo spirito, quello che il vero artista coglie, e che tutti noi vediamo in ognuno di quei ragazzi, quando piantano chiodi sulla nostra pigra coscienza e poi, in strada, ci salutano con semplici sorrisi.

di Abramo Vane . Disegno stile De Chirico

Il racconto del giorno feriale (dagli autori della nostra scuola di scrittura SCRIVERE IL CORTO)


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I CONTENUTI, quelli che esplodono dentro

E dopo tante parole, consigli sinceri, il vero successo è di portare sulla pagina bianca la nostra visione della vita. Se è forte, sarà lei a condizionare e a guidare la realizzazione della nostra opera. Gli stili innovativi, le pagine più alte della letteratura, i più grandi romanzi sono nati da qui, da un’esplosione di ciò che l’autore ha scoperto dentro di sé. Non esistono difetti tecnici davanti a tutto questo.

I dubbi sulla scrittura non li facciamo saltare senza dinamite, e la dinamite dobbiamo saperla usare. Occorre un’esplosione, non un semplice puff della bottiglia di champagne per festeggiare l’uscita del nostro libro nei salotti buoni o alle presentazioni in biblioteca e nelle librerie. È una rivoluzione, che nasce dentro, ed è incontenibile. Inevitabile, l’anima che conosce sé stessa.

continua il 25 maggio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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Un podcast a cura di Jacopo Bravo


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di Daniele Crotti

Aveva parlato con sei persone in tutta la settimana: tre al mercato, una il giovedì e una il sabato al bar. Con il prete, la domenica mattina. Ascoltò persino le letture dal Vangelo, cosa che non faceva mai. Quando andava a messa con Ingrid, durante la predica si distraeva contemplando gli affreschi sul soffitto. Uscito dalla chiesa raggiunse il parcheggio. Aveva smesso di piovere, faceva freddo. Paolo salì in auto, prese una penna dalla giacca e scrisse qualcosa sulla pelle del sedile vuoto alla sua destra, quello di Ingrid. Poi accese il motore. L’aria calda cominciò a invadere lo spazio sotto i pedali. Si diresse verso il lago. Lungo la strada c’erano solo foglie schiacciate a terra oltre il ciglio dell’asfalto. Nel tragitto diede qualche occhiata ai fiori autunnali nei giardini. A Ingrid piacevano le ninfee bianche che affioravano sul lago dopo l’estate. E così, da ormai tre anni, lui gliele lasciava tutte le mattine nel campo vicino ai tigli. Dopo una curva, Paolo imboccò la stradina che portava all’approdo per le barche. Il piccolo molo di legno sembrava l’ingresso dell’albergo in cui l’aveva conosciuta. Allora spinse il piede destro, per non fare tardi. E fu come entrare dalla grande porta girevole di vetri e legno lucido. Paolo aveva con sé ancora qualche banconota. Bastavano per la stanza e un paio di whisky. Il resto lo aveva usato per i fiori di Ingrid, adagiati sui sedili posteriori. Ninfee bianche, naturalmente. Come tutte le mattine. Il tettuccio cerato dell’auto cominciò a sfondarsi e l’acqua torbida filtrò velocemente. – Mamma mia, che disastro, – pensò Paolo, – chissà cosa pagherò di riparazione: i vetri, il tetto, e anche dallo sterzo entra l’acqua… -. Ma l’albergo era così bello che non ci pensò troppo. Un cliente al bar somigliava a suo fratello. Faceva battute a voce alta, quindi non poteva essere lui. Due ragazze salivano dalle scale, con l’aria stanca, ma ridendo fra loro. Le luci nel salone, quadri e cornici d’oro sulle pareti. Come quella sera di tanti anni prima, quando conobbe Ingrid. In abito lungo, mentre il pianista suonava. Sentì allora un facchino che lo chiamava e lui capì che la camera era pronta. Salì le scale verso la stanza in cui aveva baciato la sua Ingrid per la prima volta, così forte da far arrossire anche la Luna. – Guarda quanto lago che entra. Chissà cosa costerà riparare tutto. Chissà cosa dirà Ingrid… – pensò Paolo prima che l’acqua sempre più buia lo avvolgesse. Dai sedili posteriori, una foglia si staccò da una ninfea bianca e gli passò sul viso. Pareva una carezza.

Daniele Crotti è un ricercatore universitario in Economia, con la passione per le arti espressive. Quelle che liberano l’energia e la poesia dentro noi stessi. Musica jazz e racconti fulminanti sono le cose di cui si nutre con maggior curiosità.

Selezione di racconti da XI Concorso “Il Corto letterario e l’illustrazione”, NARRATIVA (Scrivere il corto) RACCONTI D’AMORE ( Sezione dedicata a Maniglio Botti)

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Che ci faccio qui sopra, in un letto sulla capote di un’automobile?
Dovrei rispondere “è una lunga storia” o qualcosa del genere, in realtà non è né breve né lunga, è solo una storia.
Comincia molti anni fa, un sabato sera a cena, la pizza preparata da mamma in tavola e la partita di pallacanestro su RAI 2.
Papà era un appassionato, di quelli che non si scompongono mai, ma ci tengono.
Io, bambino, osservavo lo schermo senza capire granché.
Ogni tanto azzardavo una domanda, allora papà si voltava verso di me e provava a spiegarmi qualche regola del gioco, come quella dei passi o quella dei trenta secondi per tirare a canestro.
Immancabile, il mio disarmante “Perché?”.
Quella volta però, papà si era sbilanciato:“Se quest’anno arriva la Stella – aveva detto a voce alta – ti porto al palazzetto a vedere una partita dal vivo!”
La Stella…
Una nuova, misteriosa entità si affacciò nei miei sogni di bambino.
Per settimane fantasticai su cosa potesse essere, senza avere il coraggio di domandare nulla.
Un pomeriggio a casa di Leo, il mio compagno di banco, scoprii dalle parole di suo fratello che rappresentava la vittoria di dieci edizioni del campionato italiano di basket.
Alla nostra squadra ne mancava ancora una per potersene fregiare, ma in città nessuno dubitava che presto l’avremmo raggiunta, come una promessa che attendeva solo di essere mantenuta.
Sono passati molti anni da allora a oggi, ma quella Stella non è arrivata.
Da buoni tifosi io e papà non ci siamo lasciati scoraggiare da questo ritardo e abbiano trovato altre occasioni per goderci insieme una partita dal vivo, sino a quando non è stato lui a partire.
Quando ci penso immagino sia andato a tenerle compagnia.
Il bambino dentro di me, al contrario, è rimasto in attesa di quel momento, fino a stasera, quando i ragazzi della Pallacanestro Varese si sono aggiudicati l’agognato scudetto della Stella, la nostra chimera. Papà era con me, piegato in una fotografia scattata insieme anni prima e per tutta la partita è stato come averlo di nuovo accanto.
Per questo sono qui e ho appeso quel cartello alla testata del letto:“Se è un sogno, non svegliatemi!”

di Daniele Bin, illustrazione di Lucia Casavola

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NUOVI LINGUAGGI, razionali o irrazionali?

Nel gruppo di lettura abbiamo affrontato l’Ulisse di Joyce in vista del Bloomsday del 16 giugno. La lettura di tre capitoli, dei quali il monologo finale di Molly Bloom. L’idea del flusso di coscienza in queste pagine raggiunge il massimo espressivo, e i lettori si sono interrogati su quanto la scrittura del Maestro segua davvero le manifestazioni fluttuanti dei pensieri, o quanto invece l’inevitabile supervisione dello scrittore. Joyce ha impiegato dieci anni a scrivere la sua opera. Nel flusso, dunque, l’irrazionalità e la confusione che attraversano la coscienza e la mente; nel lavoro di riscrittura la razionalità, il mettere a posto le cose, il lavoro di lima alla ricerca dell’armonia della pagina. Il flusso di coscienza perde dunque la sua naturalezza?

Da ragazzo commisi quello che molti ritengono un errore, cioè leggere Joyce troppo giovani. Nel mio piccolo però affrontai l’argomento, sotto l’influsso di altre letture, come lo Zarathustra di Nietzsche. Mi sentivo per diversi motivi attratto dall’irrazionale e, ricordo, ne discutevo con un’amica, sostenitrice della razionalità.

Vasco Rossi non aveva ancora scritto cerco un senso a questa vita anche se un senso non ce l’ha. Razionale e irrazionale. La mia trovata consisteva nel considerare l’irrazionale in due aspetti: quello che è in antitesi alla razionalità, e l’irrazionale che ne va oltre. E in quest’ultimo credevo, per superare i limiti ammessi dalla stessa razionalità.

Venendo ora a certe avanguardie di anni passati e ai nuovi linguaggi che nascono ogni giorno, mi sembra che la lezione del vecchio Jimmy sia attuale, nel momento in cui il suo lavoro di revisione razionale rispettava, e anzi sosteneva, l’intuizione del flusso di coscienza.

A coloro che dedicano tempo al proprio percorso di crescita nella scrittura il suggerimento è di compiere piccoli passi alla volta, con tanta umiltà. Non come quei pittori che fanno l’astratto senza conoscere il figurativo.

continua il 18 maggio

Abramo Vane, giornalista e scrittore, insegna alla Scuola di Scittura delle Edizioni IL CAVEDIO. Ha pubblicato libri di narrativa, d’arte, di poesia.


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